Università ed eterodossia in Italia

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


Università ed eterodossia in Italia nella prima età moderna
di Silvia Ferretto

Università e potere politico

Il difficile equilibrio all’interno delle università tra identità civica e religione ‘cittadina’, e il tentativo di organizzare le sedi universitarie nelle diverse realtà territoriali si inserisce in complessi progetti culturali, in cui esse vennero ad assumere i connotati e il ruolo di «publica scuola dello Stato». Tra il XV e il XVI secolo le università divengono i centri privilegiati della politica culturale delle singole realtà politiche della Penisola, nella definizione in atto degli strumenti ideologici, politici e culturali di realtà quali Venezia, il ducato mediceo, la Parma farnesiana, il Piemonte sabaudo, la Sardegna, non solo per la funzione di prestigio che offrivano, e per le cospicue entrate finanziarie che permettevano, ma anche per l’esigenza di formazione specialistica, in particolare giuridica, del ceto burocratico da impiegare in quei settori amministrativi funzionali alla costruzione dello Stato. Mentre dal punto di vista della circolazione culturale e del dibattito intellettuale e scientifico nelle aule universitarie e nelle accademie, considerate come forme di aggregazione e sociabilità tra gli uomini di cultura, venne mantenuta una relativa tolleranza, gli interventi statali riguardarono soprattutto gli aspetti istituzionali, con politiche protezionistiche atte a creare degli Studi unici per lo Stato come a Pisa e a Padova, o con la tendenza alla loro regionalizzazione e provincializzazione a Pisa, Siena, Parma, Piacenza, Padova, Bologna. Già dal XV secolo le università si posero in una dialettica tra tradizionale difesa delle libertates studentesche – tramite i diritti esercitati dai rettori degli studenti –, i poteri delle corporazioni, come i collegi professionali, e in particolare dei giuristi controllati dai gruppi dirigenti cittadini, e il ruolo di cancellieri dello Studio esercitato dalle autorità vescovili, garanti tradizionali dell’ortodossia cattolica nel conferimento delle lauree. A questa molteplicità di corpi politici attivi nella vita degli Studi si aggiunsero le istituzioni e le magistrature volute dall’autorità centrale. L’università di Napoli dipendeva sin dal XV secolo dalle decisioni del sovrano. Lo Studio di Roma si sviluppò in obbedienza alle bolle papali, mentre i rettori venivano scelti tra i prelati della Curia. A Bologna, al generale indebolimento del tradizionale ruolo del rettore, fece da contrappeso la sempre maggiore ingerenza dei rettori del Collegio di Spagna, con privilegi conferiti dal pontefice stesso in materia di giurisdizione criminale nel 1544 con breve di Paolo III, confermato poi da Pio IV nel 1563; al tempo stesso, nonostante tali privilegi, nel XVI secolo una serie di deroghe alle disposizioni pontificie portò a un ampliamento del potere del legato su qualsiasi altra autorità. A Siena e Padova a dominavano l’attività universitaria le figure dei Savi allo Studio per la prima e dei Riformatori allo Studio per la seconda, una magistratura creata nel 1517. A Ferrara e Torino invece mantennero a lungo autonomia decisionale e giurisdizionale le figure dei rettori-studenti, che seguirono però l’indirizzo comune ad altri Studi di scegliere i lettori nell’ambito dei collegi dottorali cittadini. Le corporazioni studentesche mantennero relativa autonomia nello Studio di Padova, dove attraverso tumulti e sedizioni gli studenti riuscirono ancora per gran parte del Cinquecento condizionare le scelte del governo in materia dei ‘lettori’, sfruttando l’importanza che per Venezia aveva il mantenimento del prestigio del «celeberrimo» Bò nel quale confluivano i migliori docenti e studenti da tutta Europa. Esemplari nel caso padovano le difficoltà in cui si trovò la Serenissima di fronte alle richieste degli studenti: il rifiuto della cattedra al giurista Andrea Alciati e la conseguente partenza per Bologna nel 1543 di Mariano Sozzini, o la partenza nell’aprile del 1555 di Matteo Gribaldi Mofa, ebbero come conseguenza una vasta defezione dallo Studio patavino di molti studenti che preferirono seguire i loro maestri a Bologna, e nel caso del Mofa, una rivolta che mise «in gran disordine lo studio», in un periodo di massima diffusione della ‘peste’ ereticale. Analogo fu quanto avvenne a Bologna dove nel 1562 la nazione germanica protestò contro gli arresti e le torture fatte infliggere dal legato ad alcuni studenti tedeschi coinvolti in una rissa, e decise di abbandonare, con la tradizionale forma della secessione, lo Studio fin quando il Senato bolognese non ottenne dal pontefice assicurazione che i loro diritti sarebbero stati da allora in avanti rispettati.

L'ingerenza della Chiesa romana nelle università

Ma in questo confronto tra definizioni statutarie e realtà, tra diritti giurisdizionali dei rettori e influenza del potere politico, è necessario enucleare alcuni momenti del processo di ingerenza nella protezione e nel controllo della vita culturale e morale esercitato con sempre maggiore pressione dalla Chiesa di Roma nel corso del XVI secolo. Le facoltà giuridiche, grazie anche al rilevante peso politico dei collegi professionali, vennero ad assumere un ruolo politico preponderante, per l’investitura che questi ultimi ottennero, in città come Urbino, Parma e Piacenza, o in numerose città dello Stato pontificio, dell’autorità di conti palatini, con la conseguente facoltà di conferire gradi dottorali e di formare i quadri giudiziari e amministrativi locali. Ma al tempo stesso in quella che è stata definita la ‘rivoluzione scientifica’ del XVI secolo, di cui molte sedi universitarie furono teatro, l’atteggiamento ermeneutico filologico-critico di derivazione umanistica, l’esigenza di rinnovamento delle basi concettuali e della prassi giuridica, il problema del metodo nell’invenzione e nella disposizione degli argomenti delle diverse «scientie» si sposò ai problemi che in ambito medico-filosofico ponevano, anche a livello religioso, la stretta connessione tra i dibattiti filosofici sull’unità dell’intelletto e sull’immortalità dell’anima e la conoscenza anatomica, i labili confini che dividevano conoscenza filosofica e ricerca sul corpo umano e le riflessioni sullo statuto del sapere anatomico, sviluppando nessi profondi tra rinnovamento metodologico ed epistemologico ed eterodossia. Certo è che la pressione esercitata dalle autorità ecclesiastiche fu maggiore nei riguardi della diffusione di discipline filosofiche e di pratiche mediche, per il ruolo che i medici rivestivano nel delicato momento di passaggio tra la vita e la morte.
Un primo intervento dell’autorità ecclesiastica in materia di diffusione di idee ereticali nella divulgazione filosofica e nel dibattito universitario è la bolla di Leone X del 1513, la Apostolici Regiminis, che ribadiva la condanna della dottrina della mortalità dell’anima individuale. Nel caso esemplare di Pietro Pomponazzi, la denuncia per eresia nel 1514, e poi alla pubblicazione nel 1516 del Trattato sull’immortalità dell’anima, non ebbero conseguenze serie per il filosofo, che anzi continuò l’insegnamento, mantenendo integro il suo prestigio accademico. Certo pesò sulle sorti del Pomponazzi la protezione accordatagli dal cardinale Pietro Bembo; ma più in generale il pragmatismo di ecclesiastici come l’allora vescovo di Bergamo Niccolò Lippomano e l’esigenza da parte delle autorità veneziane di mantenere alto il prestigio dello Studio permisero quella continuità di cui ogni rivoluzione culturale necessita per maturare e diffondersi.

Il controllo della prassi della dissezione anatomica

Un ambito delicato di intervento nell’insegnamento universitario riguardò in particolare il controllo della prassi annuale della dissezione anatomica pubblica, che rinviava a una serie di problemi di ordine antropologico, prima ancora che religioso, di procedure di trattamento del corpo e di riti di inserimento dei defunti all’interno della comunità. A Roma, come a Padova e in altre sedi, l’elezione dei protagonisti della dissezione, il lector, l’ostensor e l’incisor, spettava tradizionalmente al collegio dei medici, mentre le norme che riguardavano la scelta dei cadaveri da utilizzare, di solito individuati tra i giustiziati, implicavano una serie di pratiche purificatorie come il prelevamento in luoghi lontani dalla città, per evitare che la contaminazione del corpo si diffondesse nell’ambiente cittadino – come nel caso di Bologna – e durante la notte; o che non fossero cittadini dello Studio, come prescritto a Firenze e a Pisa, e che in ogni caso non fossero «cives honesti», e di «origine onorata», come attestano le decisioni prese a Firenze, Genova, Perugia. Una disposizione della Congregazione dei deputati romani del 1569 prevedeva inoltre che le anatomie pubbliche venissero compiute su corpi scelti da categorie particolari ed emarginate dalla società, «ex corporibus iudeorum, sive aliorum infidelium, qui publico supplicio damnatur»1. Nella compresenza dell’aspetto del giudizio e del conforto, duplice anima dell’espletamento dell’attività inquisitoriale, sempre a Roma l’arciconfraternita di San Giovanni Decollato, nell’accompagnare i condannati a morte, i corpi dei quali il governatore e i rettori dello Studio avevano deciso di utilizzare «per far la notomia», assicuravano loro che avrebbero avuto una degna sepoltura e la possibilità del cammino di redenzione della loro anima, per non provocare crisi e disagi psicologici durante l’opera di conforto. Riti, prescrizioni, pratiche atte a preservare il sacro nella comunità e nelle istituzioni preposte al trattamento del giustiziato si scontravano nella realtà con la prassi padovana delle anatomie private, occasione per gli studenti di fare pratica sul cadavere, e dagli stessi studenti sempre più richieste, insieme alla possibilità di un aumento del numero delle dissezioni pubbliche. In generale negli anni Sessanta del XVI secolo si infittirono le disposizioni per regolamentare le lezioni di anatomia creando situazioni affatto diverse: a Bologna si moltiplicarono gli interventi per censurare la pratica della dissezione pubblica, e a nulla valsero le suppliche dei consiglieri dell’università degli artisti al Senato per una modifica dei decreti restrittivi; mentre a Padova, sebbene le lezioni private di anatomia venissero proibite formalmente da un’interdizione del vescovo e del podestà (1569), le disposizioni vennero applicate solo a singole figure di medici, implicati nella diffusione dell’eresia e incappati nella maglia inquisitoriale come Niccolò Buccella.

Università e stampa eterodossa

La dialettica tra sorveglianza, repressione e deroghe nella prassi si misura anche nel controllo dell’attività dei librai e degli editori, e delle ‘botteghe’ di farmacisti e speziali. Molti sono i nomi coinvolti nei processi ereticali del Sant’Uffizio di Venezia per il possesso e la diffusione di libri inseriti negli Indici pubblicati a Venezia e Roma; nel 1543 editti vennero emanati contro tipografi ed editori dalla magistratura degli Esecutori contro la Bestemmia – attività di controllo proseguita nel 1547 dai Tre savi all’eresia –, e a Roma per il controllo della stampa in città, e ancora a Bologna, Ferrara e Modena. Nel 1545 si mosse anche l’arcivescovo di Siena per uniformare la città alle disposizioni già presenti a Lucca, Ferrara e Firenze, mentre gli Indici veneziani del 1549 e del 1555 (quest’ultimo, mai applicato, permise di inquisire il docente di Logica a Padova Bernardino Tomitano e il giureconsulto Guido Panciroli per la pubblicazione nel 1547 dell’erasmiana Paraphrasis in evangelium Matthaei), e quello romano del 1559 tentarono di impedire lo scambio con l’Europa e la diffusione non solo di libri pericolosi dal punto di vista religioso, ma anche di interesse culturale e di divulgazione scientifica. Quei provvedimenti, che coinvolsero nella loro attuazione l’intero sistema ecclesiastico, in parte mitigati dall’Indice del 1564, proibivano tutte le opere stampate in paesi riformati, impedendo l’aggiornamento scientifico e imponendo scelte drastiche ai molti medici che si erano fino a quel momento mossi sul crinale delle diverse tradizioni di critica religiosa e culturale.
Anche in questo caso la prassi si rivelò essere ben diversa dalle disposizioni: ripetute furono le richieste, poi assecondate, di molti medici per essere abilitati all’esercizio della professione e al diritto di lettura e studio dei libri e commenti filosofici e medici sui quali basavano il loro lavoro. Nel marzo del 1559 il medico fiorentino Andrea Pasquali, riferendosi alla proibizione di libri scientifici e di autori commentati come Ippocrate e Galeno, era preoccupato di perdere, insieme ai libri in suo possesso, le annotazioni apposte ai loro margini, che gli servivano quali strumenti di lavoro: «da questa proibizione e confisca […] nasce ora un maximo inconveniente, che tutti li medici che da trenta o quaranta anni in qua hanno studiato et assettato i loro libri con lunghe vigilie et studi ne restano privi»2. Interessante anche la testimonianza di Oddo Quarto da Monopoli che nel suo memoriale apologetico del 1566 spiegava come la stessa Signoria di Venezia avesse sempre concesso ampie deroghe al possesso di libri inseriti nell’Indice, e come molti, che erano «homini cattholicissimi», e altri «dottori et scolari», non volessero rinunziare a libri cui erano legati. La corrispondenza tra la Congregazione romana del Sant’Uffizio e l’inquisitore di Pisa successiva al 1559 mostra poi le possibilità che si offrivano a studenti e professori che non volevano privarsi dei loro preziosi libri: questi potevano confessarsi in occasione della Pasqua ed essere assolti da quel genere di censure, grazie alla mediazione della Compagnia di Gesù, investita dal problema di evitare di «legare molte anime». Il nodo era dunque quello di distinguere caso per caso come permettere ai professori ed esponenti della nobiltà di mantenere il possesso dei libri proibiti, come quando nel 1568 l’inquisitore di Pisa chiese se era il caso di applicare l’Indice di Paolo IV in una città universitaria di quella importanza, dal momento che «vi sono molti libri di legge e di medicina, con qualche addition di questi pravi heretici». In ogni caso gran parte delle biblioteche furono risparmiate, e la circolazione dei libri proibiti continuò grazie al legame dei mercanti lucchesi con Lione e alla collaborazione dell’editore Sebastian Gryphe, all’attività tra Basilea e l’Italia del lucchese Pietro Perna, o ancora del libraio ducale alla corte di Cosimo I Lorenzo Torrentino, coadiuvato da Arnoldo Arlenio che si avvaleva, per i contatti e lo scambio di libri, di Johannes Oporino a Basilea, della mediazione dei mercanti di San Gallo in Svizzera, attraverso le vie della Valtellina e della Valchiavenna. A Bologna il permesso di tenere con sé libri proibiti fu concesso a Ulisse Aldrovandi, mentre sia a Siena sia a Bologna si posseggono ancora oggi copie di libri stampati da Perna. A Pisa, nella cui Biblioteca Universitaria si conserva una delle poche copie dell’In haereticis coërcendis quatenus progredi liceat di Mino Celsi (stampato da Perna nel 1577), si registrarono anche episodi di corruzione del giudice della fede locale che nel 1566 aveva lasciato, in cambio di «qualche cortesia […] come donargli tre o quattro giulii[…]», che circolassero alcuni «testi canonici con l’additioni del Molineo (Charles Dumoulin)». Il tentativo di controllo dei libri in possesso di studenti tedeschi e di professori universitari coinvolse nel sistema inquisitoriale anche la figura dei bidelli dell’università, i quali a Pisa avevano già il ruolo di informatori dell’Auditore allo Studio, magistratura creata da Cosimo I per sorvegliare l’attività universitaria, e che vennero sempre più impiegati come strumenti dell’attività dell’Inquisizione3.
Nel frattempo l’Instructio circa Indicem librorum proibitorum ad omnes inquisitores fatta pubblicare da Michele Ghislieri a Milano nel febbraio del 1559 permetteva di conservare testi proibiti a patto che venissero cancellati dai volumi i nomi degli autori, e che non venissero mai citati allorquando si trattasse di argomenti in essi trattati. La noma dell’imprimatur ecclesiastico e la politica dei privilegi pontifici di stampa, per il loro carattere ‘universale’, limitavano il controllo della produzione libraria al tipo di rapporto e di influenza che il papa esercitava in un determinato territorio e sulle autorità politiche; nel lungo periodo la politica dei privilegi si rilevò uno strumento importante dal punto di vista commerciale, e favorì l’incremento delle tipografie romane a scapito di centri autonomi come Venezia, che subì una battuta d’arresto sin dagli anni Settanta del Cinquecento. Censure e privilegi comportarono così un costante rimodellamento delle norme inquisitoriali alle singole realtà e ai singoli contesti; e la moltiplicazione ed estensione delle competenze dell’attività dell’Indice dopo il 1596 permise una politica di esteso controllo ma al tempo stesso di mitigazione delle norme e delle pene, e favorì alcune particolari categorie di lettori a cui era concesso il possesso e la lettura di libri proibiti (soprattutto il nobili, il clero e coloro che esercitavano una professione, ossia giuristi e medici).

Professione medica ed eterodossia

Oltre al controllo del mercato libraio e delle forme di diffusione del sapere, continuarono nel corso del secolo XVI gli interventi sull’attività universitaria e sull’esercizio della professione, in particolare medica: costretti nel 1559 da Ghislieri a imporre ai malati l’obbligo di confessarsi per non essere privati delle cure mediche, e più tardi obbligati da un giuramento secondo il quale non dovevano curare coloro che non si volevano confessare, numerose sono le attestazioni di aperte proteste o di silenziosi sotterfugi dei medici per sfuggire alle draconiane misure imposte, e nel rispetto della loro fedeltà al giuramento ippocrateo; e continue mediazioni e compromessi vennero elaborati in seguito alla promulgazione nel 1564 della bolla di Pio IV In Sacrosancta, che imponeva il giuramento di fedeltà alla Chiesa cattolica ai laureandi in Filosofia e Medicina in conseguenza dei decreti del Concilio di Trento. Ai medici ebrei, con una disposizione del 30 marzo 1581 di Gregorio XIII, fu invece imposto il divieto assoluto di curare pazienti cristiani, confermato dalla promulgazione l’anno successivo della bolla Antiqua Iudaeorum Improbitas nella quale si fissavano i casi in cui gli ebrei potevano ricadere nelle competenze dei tribunali inquisitoriali. Proliferano negli epistolari richieste in merito al comportamento da adottare nei singoli casi, come la richiesta di indicazioni sulla condotta da seguire avanzata nel 1582 dal vescovo di Reggio Emilia alla Congregazione dei Vescovi e Regolari, rispetto ad alcuni medici ebrei della città. Preceduti da iniziative di Paolo IV (o dal caso, che pare unico, dell’intervento del patriarca di Venezia nel 1512 contro un medico ebreo che svolgeva la sua professione sprovvisto della regolare licenza), anche questi episodi rivelano le strategie di adattamento che il Sant’Uffizio e le competenti autorità ecclesiastiche e civili dovettero adottare nella prassi, e i molteplici apparati di controllo che la Chiesa tra XVI e XVII secolo ebbe a sua disposizione contro dissidenti religiosi ed ebrei, ma anche contro la divulgazione e l’arricchimento del dibattito scientifico, contribuendo a tracciare quella storia delle università in Italia, di cui si sono sottolineate la chiusura e il progressivo isolamento.

Mobilità degli studenti, eterodossia e repressione

Se sui problemi di ordine pubblico vi era un certo margine di tolleranza, in campo dottrinale gli strumenti di controllo che vennero attivati tentarono di colpire la mobilità degli studenti, in una situazione in cui la peregrinatio accademica poteva trasformarsi in un veicolo della propaganda religiosa eterodossa, soprattutto da parte di coloro che provenivano da Oltralpe. Il capo II del decreto De reformatione emanato nel dicembre del 1563 dal Concilio di Trento individuava le disposizioni che dovevano essere diffuse per tutti coloro ai quali apparteneva la responsabilità dell’università, affinché «procurino diligentemente che […] vengano interamente ricevuti i canoni ed i decreti di questo Santo Concilio» e perché «i maestri, dottori, ed altri insegnino ed interpretino nelle medesime Università quelle cose, le quali sono di fede cattolica», in un complesso disegno pedagogico in cui il momento dell’istruzione, come trasmissione di capacità e abilità tecniche, doveva essere subordinato alla formazione morale, della pietà e dei costumi. La vita degli studenti venne sempre più regolamentata attraverso il potenziamento della rete di collegi, come la creazione del Borromeo e del Ghislieri a Pavia, o con il tentativo di riforma attuato dal cardinale Gabriele Paleotti nella seconda metà del Cinquecento per il Collegio di Spagna nella città di Bologna; istituzioni esemplari del clima postridentino, esse vennero modellate sui contemporanei collegi-convitti gesuitici, quale il Collegio Germanico a Bologna, i cui compiti educativi e formativi erano finalizzati a un progetto pedagogico di vasta portata e pensati come «un seminario universale» che si rivolgeva all’aiuto non solo di quanti erano «determinati allo stato ecclesiastico[…] ma di tutti li stati; perché di quella gioventù che in esso s’allena, altri saranno persone di governo nelle repubbliche et città loro, altri padri di famiglia […], altri prelati et altri d’altre professioni»4. E le università italiane mostrarono ben presto la necessità di essere concorrenziali con i collegi gesuitici e con quelli istituiti da altri Ordini religiosi – somaschi, barnabiti, teatini –, tentando di coinvolgere autorità civili ed ecclesiastiche nella creazione, sulla base di questi nuovi indirizzi formativi, di rinnovati convitti per gli studenti. Se nei casi di Bologna e di Padova queste diverse realtà collegiali non sempre coesistettero pacificamente, in altri, come a Piacenza, fu proprio il duca Ranuccio I Farnese a favorire i collegi dei gesuiti, nel tentativo di fare dell’università «una docile funzione dello Stato». In altri ancora la loro stessa fondazione, in realtà come Cagliari e Sassari, fu da stimolo per avviare la costruzione di sedi universitarie indipendenti dai collegi degli Ordini.
In seguito alla bolla di Pio IV nel caso di Padova fu il potere conferito ai conti palatini di addottorare gli studenti e permettere il proseguimento degli studi ai numerosi scolari tedeschi luterani, greci ortodossi ed ebrei che non potevano rendere la professione di fede cattolica e avevano trovato uno spazio di apertura nella natura imperiale e non pontificia dei privilegi che i conti palatini godevano nel dominio veneziano. Aspro fu comunque il confronto tra le ragioni di Venezia e la linea del Sant’Uffizio, che riteneva funzione precipua dell’università educare giovani obbedienti alla fede cattolica. Subito dopo il Concilio l’intransigenza del nunzio pontificio a Venezia e del vescovo di Padova contro rettori e studenti della natio alemanna delle due facoltà fece sì che, nell’incerta reazione della Repubblica, «molte delle suddette nationi si han partido dal Studio». Nel 1565 l’ambasciatore veneto a Roma cercò di mediare con Pio IV, dimostrandogli che non ne derivava danno solo allo Studio e alla Repubblica ma anche alla Sede Apostolica, perché «non era da sperar che chi uscisse dalli studii di Germania dovesse esser cattolico, dove dal Studio di Padoa uscirian pur molti oltramontani cattolici». Ma il rinnovato zelo di Pio V nel 1567 non solo pretese la professione di fede, ma che si rifiutasse l’ammissione allo Studio di quanti non avessero prima giurato fedeltà alla religione cattolica nelle mani del vescovo di Padova, mentre il nunzio Giovanni Antonio Facchinetti tentò, ma invano, di persuadere i patrizi veneti che era ignominiosa «questa tolleranza del vivere lutherano» da parte di Venezia. Il conflitto tra autorità della Serenissima e Roma si inasprì nel corso della seconda metà del secolo XVI, al punto che con la morte di Pio V e l’elezione a doge di Niccolò da Ponte la Repubblica richiamò allo Studio molti studenti non cattolici e pretese «libertà di religione a chi si sia»5.

Libertà e repressione all'Università di Padova

Dopo il 1580 il sopravvento nel governo di Venezia dei cosiddetti ‘giovani’, il cui atteggiamento di rifiuto di ogni intromissione della Curia romana all’interno della Repubblica acuì una politica di scontri e di mancate mediazioni che avrebbe portato all’inizio del XVII secolo alla vicenda dell’Interdetto, manifestò sempre più chiaramente l’ostilità per ogni norma che limitasse la libertà dell’ateneo patavino: nel 1587 venne conferito un ampio privilegio di immunità agli studenti eterodossi, che avrebbero potuto conservare le tradizionali libertates, ma che sarebbero stati al sicuro anche dalle persecuzioni inquisitoriali6. Questo clima di apertura facilitò lo sviluppo di uno dei più importanti centri del progresso scientifico tra la fine del XVI secolo e gli inizi del XVII secolo, tanto che Galileo Galilei nel 1640 ebbe a pentirsi di aver lasciato l’ambiente veneto, dove trascorse i suoi «diciotto anni migliori».
Ma nel corso del secolo anche lo Studio patavino avrebbe cominciato a dare segnali di involuzione e decadenza, a causa dello scadimento della qualità degli insegnamento e, tra l’altro, della mancata coerenza riguardo alla linea da adottare nel campo delle esercitazioni anatomiche, sebbene quella pratica fosse lo strumento più adatto ad attirate l’afflusso degli studenti e la presenza dei ‘lettori’ più celebri. E mentre anche lo Studio di Padova si veniva sempre più provincializzando, le conseguenze dell’Interdetto non si fecero attendere: nel 1612 la Repubblica tolse ogni valore legale ai dottorati conferiti dai conti palatini, escludendo automaticamente dalla laurea chi si rifiutasse di prestare la professione di fede; nel frattempo la magistratura dei Riformatori allo Studio, per non perdere un notevole numero di studenti poveri e senza mezzi, istituì il Collegio veneto degli artisti nel 1616 e il Collegio veneto dei giuristi nel 1635, trasferendo ad essi il ruolo di conti palatini, ma con il dovere di rispondere all’autorità veneziana.
Resta ancora da verificare, proprio nella discrepanza tra imposizioni e realtà, quanto intellettuali, giuristi e medici siano riusciti a recepire delle tracce di un dibattito religioso e scientifico vario e vivace, insinuatosi tra le pieghe del mercato librario dell’Europa protestante, e mediato dall’ambiente accademico del Seicento. Tra la fine del XVII e il XVIII secolo la vivacità delle ricerche in campo biologico indica comunque che una qualche ripresa di libertà di fu, e che si accentuò progressivamente fino all’avvento dei Lumi. E sulla base di una riflessione critica e di rinnovate letture storiografiche, occorre rivedere anche la storia del rapporto tra rinnovamento logico e metodologico delle ‘scientie’ e arti, guardando agli stimoli forieri dei successivi sviluppi scientifici, nel legame che intercorse tra dibattito universitario, mondo accademico e società civile nel XVI e XVII secolo.

Bibliografia

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  • Silvia Ferretto, Maestri per il metodo di trattar le cose. Bassiano Lando, Giovan Battista da Monte e la scienza della medicina nel XVI secolo, CLEUP, Padova 2012.
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Nota bene

Questa voce è la rielaborazione, con alcune modifiche e aggiunte, di un testo originalmente pubblicato in Dizionario storico dell'Inquisizione, diretto da Adriano Prosperi in collaborazione con Vincenzo Lavenia e John Tedeschi, Edizioni della Normale, Pisa 2010, vol. 3, pp. 1610-13.


 
Article written by Silvia Ferretto | Ereticopedia.org © 2013

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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