Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444
Sigerus de Brabantia (1240 ca. – Orvieto, terminus ante 10 novembre 1284). Filosofo originario della regione oggi situata nel sud dell’Olanda (al confine con il Belgio), fu studente della “nazione piccarda” nella cosmopolita Facoltà delle Arti della Sorbona di Parigi, e poi ‘lettore’ ossia magister artium in Rue du Fouarre dal 1266 al 1276. Interprete e postillatore di Averroè, il «vicario di Aristotele» che il gran comento feo (Inf. IV 144). Scrisse il trattato di monopsichismo De anima intellectiva (1273); la teoria «che non vi è che un intelletto per tutti gli uomini»1 fu avversata dal doctor angelicus Tommaso d’Aquino nel terzo capitolo del De unitate intellectus contra averroistas (1270). Sigieri è stato tra i principali e più brillanti esponenti dell’“aristotelismo radicale”, una corrente di pensiero bollata di eresia a partire dall’ultimo quarto del Duecento, con la censura in due riprese (1270, 1277) da parte del vescovo di Parigi, Étienne Tempier, delle proposizioni non accettabili nel dogma cattolico.
Sommario
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Sigieri che sillogizzò invidiosi veri
La vita
Sigieri di Brabante è posto da Dante in Paradiso (canto X), nella corona di spiriti sapienti del cielo del Sole, come ci mostra la miniatura tratta dal ms. Thott 411.2 (XV sec., fonte: ©Wikipedia). Al centro dell’immagine si vedono Dante e Beatrice circondati da dodici spiriti sapienti. Il magister nella facoltà di artes Sigieri è quello con il mantello rosso, in alto a destra. Viene presentato da Tommaso d’Aquino, che ha il braccio teso rivolto a Dante, per ultimo essendogli accanto a chiudere la gloriosa rota (145) dei folgór vivi e vincenti (64), che da Tommaso medesimo prosegue in senso orario con Alberto Magno di Colonia (entrambi con la cocolla nera su abito bianco dei domenicani, vv. 97-99)2:
Questi onde a me ritorna il tuo riguardo
è ’l lume d’uno spirto che, ’n pensieri
gravi, a morir li parve venir tardo:
essa è la luce etterna di Sigieri,
che, leggendo nel Vico de li Strami,
silogizzò invidïosi veri.
(Par. X 133-138).
Il verso 135 ci dice che la morte, sentita da Sigieri come liberatrice dai tormenti del pensiero filosofico, è addirittura impetrata, «perché – crediamo – la morte li avrebbe risolti».3 Tra gli “invidiosi veri”4 si annida un ventaglio molto ampio di contenuti; a monte però vi è la cautela e la continenza suggerite dall'Aquinate: «Sic oportet ut homo laudabiliter huiusmodi appetitum [veritatem cognoscendi] refrenet, ne immoderate rerum cognitioni intendat».5
Mastro Sighier non andò guari lieto:
a ghiado il fe’ morire a gran dolore
nella corte di Roma ad Orbivieto.
(Fiore, son. 92, vv. 1-3)
Il pensiero filosofico attraverso la letteratura
Scrisse il filologo Gianfranco Contini a proposito del fatto di cronaca nera della morte di Sigieri: «L’impressione che questo cuneo verta su un fatto recente», ai fini della ipotetica datazione della stesura del Fiore, una parafrasi e riduzione del Roman de la Rose,6 collocabile pertanto negli anni 1286-87 ca.7 In molti manoscritti del Roman de la Rose, circa una sessantina della tradizione complessiva, si trova un’interpolazione di lunghezza variabile sui privilegi riservati ai religiosi, soprattutto per quanto riguarda la pratica della confessione. La «lunga interpolazione dimostra che la Rose alla fine del XIII secolo era usata come “strumento di lotta” nella polemica contro gli ordini mendicanti».8 Tale ricezione può essere collocata intorno alla fine del decennio dei '70, quando si sentiva urgente la difesa dell’autonomia nell’insegnamento universitario, dopo il duplice giro di vite della censura da parte del vescovo di Parigi Étienne Tempier.9
Un altro personaggio storico che appare nel Fiore è il magister in teologia Guillaume de Saint-Amour (proveniente dal clero secolare, morto nel 1272), nei tre versi successivi a quelli citati sopra del sonetto 92 (vv. 4-6) e in seguito al son. 111, vv. 4-9. Guglielmo di Sant’Amore era già apparso nella Rose, con l’inserto di interi brani (vv. 11353-73) tratti dal suo Tractatus brevis de periculis novissimorum temporum ex Scripturis sumptis (1255), un pamphlet evocato come un noveau livre al v. 11483.10 La stella di Sant’Amore decade nel 1256 con la messa al bando del pamphlet anti-fratesco, messo subito all’indice dal pontefice, appena dopo la diffusione. Una successiva bolla del papa nel ’59 proibì ai magistri universitari qualsiasi contatto con il fuoruscito Guillaume, in una condanna simbolica che servì in fondo a rafforzare l’istituzione universitaria dopo la crisi interna, con l’accomodamento fra le due corporazioni concorrenti dei mendicanti e dei secolari – a questi ultimi apparteneva Sigieri. L'attivismo di Guillaume anticipa di un paio di decenni la resistenza di Sigieri11 a favore di un insegnamento libero da parte della corporazione dei maestri. Il primo ebbe come illustre contraddittore Alberto Magno,12; il secondo Tommaso d'Aquino, magister a Parigi in due riprese, 1252-59 e 1268-72.
La figura del personaggio del Roman de la Rose Faus Semblant è rappresentata nei codici manoscritti della Rose con le vesti del frate,13 con la tipica tonsura; descrizione alla quale fa eco quella del Fiore, con lo stesso personaggio:
Raccontaci con più particolari / come servi in modo sleale, / e non avere vergogna di parlare, / poiché, come ci dice il tuo abito, / sembri essere un santo eremita
(Rose, vv. 11197-201).
vest’ io la roba del buon frate Alberto:
chi tal rob’ àe, non teme mai vergogna
(Fiore, 88 13-14).14
Il personaggio, dal nome parlante Faus Semblant, è cinico e sfrontato, ammette apertamente le proprie colpe; probabilmente perché l'autore punta a far risaltare la gravità del suo comportamento, della sua tracotanza, secondo lo schema della «polémique des chansonniers contre les Mendiants».15 Ai sonetti 109-115 del Fiore troviamo una rigorosa critica delle elemosine, che riproduce spesso alla lettera brani del De periculis di Guillaume de Saint-Amour.
De mia vita fe’ libro, e sì leg[g]ea
ch’e’ non volea ch’i’ gisse mendicato:
verso mia madre [chiesa o curia] troppo misprendea!
(Fiore 119, 12-14).16
se cil de Saint Amor ne ment,
qui desputer solait et lire
et preeschier ceste matire
a Paris avec les devins.
Ja ne m’eïst ne pains ne vins
s’il n’avoit en sa verité
l’acort de l’Université
(Rose, vv. 11458-64)
[se non mente quello di Saint-Amour, / che soleva disputare e insegnare / e predicare questa materia / a Parigi insieme ai teologi. / Mi siano tolti per sempre pane e vino / se lui non aveva, nella sua verità, / l’accordo dell'Università].17
Jean de Meun e il suo ignoto parafraste, se non è stato Dante, «manifeste l’alliance dans la faculté des Arts des Aristoteliciens averroïstes, groupés autour de Siger de Brabant, avec le clan de Guillaume».18 Dietro le invettive degli autori di Rose e Fiore19 c’erano i malcostumi dei loro tempi: «mout sunt li let au diz divers» [i fatti sono ben diversi dalle parole] (Rose, v. 11192). Entrambe le giubilazioni, di Guillaume e di Sigieri, sono l’«immagine trasparente degli ordini mendicanti che hanno vinto la loro battaglia contro i maestri secolari all’Università di Parigi, nei non lontani anni cinquanta» prima, e nella seconda contesa degli anni ’70. Un esempio del milieu filosofico dell'autore della Rose viene da un passo, ai vv. 10094-101, dove si allude alla antitesi tra due modi di pensare:
Si n’an pot il pas assez dire,
car il ne peüst pas soffire
a bien parfetement antandre
ce c’onques riens ne pot comprandre,
fors li ventres d’une pucele.
Mes, san faille, il est voirs que cele
a cui le ventres an tandi
plus que Platon an antandi.
[Ma (Platone) non ha potuto dirne abbastanza, poiché neanche lui sarebbe stato in grado di comprendere bene fino in fondo ciò che nulla avrebbe potuto 'comprendere', se non il ventre di una fanciulla. Ma, senza fallo, è vero che colei a cui il ventre si gonfiò ne capì più di Platone].
Jean de Meun si può considerare «non solo neoplatonico, ma anche (almeno in parte) compagno di strada di quel particolare averroismo proprio di Sigieri […] tentato dalla plausibilità di concezioni cosmologiche (e non solo di quelle) ormai difficilmente conciliabili con la dottrina della Chiesa», negli snodi della Trinità e dell’Incarnazione, della modalità della separazione dell’anima dal corpo dopo la morte.20
Sintomaticamente fu scelto come preambolo del decreto di condanna del vescovo Tempier un accenno al De Amore sive De deo amoris di Andrea Cappellano, quale cattivo esempio di precettistica – «il che implica la omologazione, in una prospettiva clericale, della ideologia dell’amor cortese alla filosofia aristotelica».21
Lo storico della letteratura e filologo Francisco Rico ha definito il Roman de la Rose come il manifesto dottrinale dell’aristotelismo radicale, etichettabile anche come “averroismo latino”. Nella storia della filosofia medievale è stato il Mandonnet a considerare Sigieri come capofila di una corrente "radicale" dell'aristotelismo.22 Nella Rose troviamo un sermone di 2600 versi monorimi che è la trascrizione della filosofia di Sigieri; Jean de Meun «lungo tutto il poema e con particolare addensamento nella confessione di Natura, espone argomenti di filosofia morale, di teologia, di fisica».23
I rapporti di forza nell’Università di Parigi
A Parigi l’università, dopo essere sorta quasi spontaneamente, era divenuta prestigiosa per antichità.24 Già nell’XI secolo erano sorte scuole nell’Île de la Cité e nel chiostro di Notre-Dame,25 cioè nelle dimore dei canonici, le quali sorgevano intorno alla cattedrale, e canonici erano generalmente gli stessi maestri.26
Le gerarchie all’interno dell’Università furono scosse dalle dispute dottrinali e dalle lotte di potere nel corpo docente. I testi di Aristotele furono censurati fin dagli anni ’10 del Duecento. Ma una crisi importante si registrò negli anni 1252-61 nella Facoltà delle Arti. Il pontefice in carica, Alessandro IV, si schierò a favore dei frati mendicanti, detentori del diritto della praedicatio e della animarum salus.27 Nella contesa, con la bolla papale Quasi lignum vitae (aprile 1255) venne abolito il limite del numero di cattedre appannaggio dei domenicani, tradizionalmente portati all’insegnamento. I quali arrivarono così ad avere tre cattedre di teologia contemporaneamente,28 ed erano visti con sospetto dalle gerarchie episcopali per l’intrusione in ogni aspetto della vita pastorale diocesana.
Sigieri insegnò a Parigi dal 1266 circa. Una data simbolica perché nel medesimo anno fu promulgato un regolamento nel quale si stabiliva la separazione nell’insegnamento tra la scientia de divinis e la scientia rationalis e naturalis, secondo una tradizionale distinzione di Alberto Magno: «dico quod nihil ad me de Dei miraculis cum ego de naturalibus disseram».29 La frase citata è riproposta da Sigieri, «sed nihil ad nos nunc de Dei miraculis, cum de naturalibus naturaliter disseramus».30 La sentenza era stata peraltro ribadita da Tommaso più volte, in particolare nella Summa Theologiae: «in constitutione rerum naturalium non consideratur quid Deus facere possit, sed quid naturae rerum
conveniat».31
La separazione delle competenze, per la quale nessun maestro o baccelliere (scil. assistente, aggregato) delle arti era autorizzato a determinare la verità di una questione puramente teologica e nemmeno a disputarne nelle scuole, salvo descriverla nel senso della fede, sembrò essere cosa fatta. «Se hai compreso una verità, dilla, altrimenti metti la mano sulla bocca». In caso di infrazione il docente sarebbe stato radiato dal collegio degli insegnanti in quanto eretico.
Il giorno 23 ottobre 1276, il magister Sigieri, ritenuto l’esponente principale dei docenti dissidenti della Facoltà delle Arti a Parigi,32 fu convocato – dopo l’istruttoria di una commissione formata da sedici teologi e altre persone esperte –, insieme ai due colleghi Berniero di Nivelles e Gosvino de la Chapelle,33 dall’inquisitore di Francia Simone du Val alias de Brion.34 Il quale era determinato a non tollerare nessun messaggio dell’insegnamento che potesse insidiare la fede ortodossa.
La stretta della censura era stata innescata dalla lettera del papa Giovanni XXI (al secolo il lusitano Pedro Julião, eletto a Viterbo nel 1276, ricordato da Dante in Par. XIII 134-135: e Pietro Ispano, / lo qual giù luce in dodici libelli35), che chiamava in allerta il vescovo di Parigi contro gli errori dottrinali e le false opinioni propalati dai magistri artium dell’Università.
Sigieri non si presentò alla convocazione, dato che aveva lasciato Parigi già qualche mese prima, preferendo così sfuggire al giudizio inevitabile di censura, per appellarsi qualche anno dopo – per il periodo intermedio manca la documentazione certa36 – alla clemenza del medesimo inquisitore, nel frattempo divenuto papa con il nome di Martino IV.37 Da questi Sigieri ottenne ospitalità a Orvieto, sede temporanea della corte papale dopo che ivi era avvenuta l’elezione a pontefice nel febbraio 1281.
Sigieri ottenne così un’assoluzione parziale, con limiti alla sua libertà di pensiero filosofico. Morì a Orvieto, in una data non meglio precisabile tra il 1281 (dopo l’elezione del papa Martino IV) e l’84, pugnalato o trafitto da spada, sembra a tradimento da un suo servitore, forse assoldato per il gesto. Il delitto fu, secondo una vulgata storica, la conseguenza di congiure fratesche: domenicani e francescani erano la longa manus dell’insegnamento dottrinale della curia pontificia introdotto nello Studium.38
Eresia e inquisizione in Italia
La conoscenza dell’averroismo, pur in fasi diverse di penetrazione, di comprensione e di apprezzamento,39 si era andata consolidando in Italia, come dimostra la presenza nelle biblioteche della città universitaria di Bologna di diversi testi dedicati all’aristotelismo, registrati tra gli inventari di privati e nei cataloghi dello Studium a partire dalla fine del XIII secolo.40 Tali presenze probabilmente sono traccia della presenza di studenti transalpini, la cosiddetta natio francigena. Nella quale dai registri risultava iscritto un Johannes de Mauduno, cioè molto probabilmente l’autore della seconda parte della Rose, se vale l’identificazione proposta da Luciano Rossi.41
Anche Firenze fu centro di irradiazione dell’aristotelismo, a voler dare il giusto peso alla fortunata ricezione in quella città della Rose, di cui probabile tramite con la cultura d’oltralpe, se non ipotetico autore della nota parafrasi, fu ser Brunetto Latini, compilatore del Tresor, un'altra enciclopedia del sapere medievale. Tra quei testi universitari, ricercati o messi all’indice, vi erano gli scritti di Sigieri e di Boezio di Dacia, altro docente alla Facoltà delle Arti parigina.42 Entrambi furono definiti «praecipui defensores vel forsitan inventores» della teoria dell’unità dell’intelletto, che veniva a negare l’immortalità dell’anima individuale.
In Toscana si erano avute delle persecuzioni e dei processi contro gli eretici Patarini (o Paterini, i quali corrispondono ai Catari fuori di questa regione), una prima volta nel 1244-45. Il ricordo di quell’episodio dovette conservarsi a lungo negli ambienti aristocratici favorevoli all’eresia. Una seconda ondata di repressione si ebbe tra gli anni 1282 e ’87 sempre con epicentro Firenze. L’operazione fu guidata dal francescano fra Salomone da Lucca, nominato inquisitore nel novembre 1281, e attivo in particolare in due circostanze per rimarcare l’ortodossia teologica, i cui parametri per la verità risultavano ancora poco definiti.
Due sonetti del Fiore (ed. Contini) recano testimonianza delle persecuzioni contro gli eretici in Francia e in Toscana; sono come delle istantanee del clima di repressione, con l’inquisitore-frate che descrive le pene da infliggere:
Mastro Guiglielmo, il buon di Sant’Amore,
fec’i’ di Francia metter in divieto
e sbandir del reame a gran romore
(son. 92, 9-14).
Né non si fidi già in escritture,
ché saccian che co’ mie’ mastri divini
i’ proverò ched e’ son paterini
e farò lor sentir le gran calure.
Od i’ farò almen ch’e’ fien murati,
o darò lor sì dure penitenze
che me’ lor fôra ch’e’ non fosser nati.
A Prato ed a Arez[z]o e a Firenze
n’ò io distrutti molti e iscacciati:
dolente è que’ che cade a mie sentenze.
(son. 126, 5-14).
Si nota come il personaggio-tipo del frate «esercita, rivendicandone con orgoglio gli abusi, l’attività inquisitoriale, il cui ufficio era saldamente in mano ai francescani fin dagli anni '40 del '200, nell’ambito della riorganizzazione innocenziana dell’officium attuata con norme e una gerarchia di "ufficiali"».43 I domenicani invece sarebbero diventati i nuovi inquisitori, prevalenti nella generazione successiva, con un marcato senso dell’infallibilità della loro azione repressiva.
Questioni di Metafisica
Già in Tommaso si registra il tentativo concordistico di 'trasferire' la Metafisica aristotelica nell’ambito teologico per «facilius manuducitur in ea quae sunt supra rationem»,44 anche a forza di sillogismi «quidam sophistice arguunt», come notò Sigieri. Sigieri si mostra pienamente consapevole dei limiti della frivola ratio,45 pur difendendo, magari in momenti e modi differenti, l'intellectus fidei in omnibus modo demonstrativo:
Tutte queste difficoltà e altre ancora mi obbligano a dire che da molto tempo ho alcuni dubbi su ciò che, se si segue la via della ragione naturale, occorre decidere in questo problema e su ciò che fu l’opinione di Aristotele a proposito di tale questione. In un simile dubbio, ci si deve attenere fermamente alla fede, che supera ogni ragione umana.46
A partire da questi principi, conosciuti così per divina rivelazione, si procede mediante un’indagine umana, utilizzando questi principi per trarre [proposizioni] che sono come la conclusione di questa scienza.47
Tale atteggiamento conciliativo e di versatilità dottrinale da parte di Sigieri fu definito dai suoi avversari di “astuzia volpina”: «interpretare, distorcendole, le parole di Aristotele allo scopo di servirsene per fini teologici».48 Ma più realisticamente bisogna pensare alla teoria della “doppia verità”, la strategia argomentativa “concordistica” o di eclettismo dottrinale inaugurata proprio da Tommaso nell’ambito della Scolastica,49 con la quale egli voleva salvare il commento secundum philosophos e la veritas fidei: «quae per humanam rationem dissolvi non possunt»50 e «quae ex lege credi debent».51
La beatitudine delle anime in Paradiso è data dalla loro costitutiva appartenenza al regno dei cieli; esse sono rese ‘intelligenti’ e atte a contemplare l’essenza divina, come argomentato da Sigieri nella terza sezione delle Quaestiones super Librum de causis (testo rimasto incompiuto). In questo commento Sigieri sviluppa un piccolo trattato di metafisica sulle sostanze separate nelle tradizioni greca (Aristotele) e araba (suoi commentatori) chiamate “intelligenze”.52
La fonte per Sigieri, in questo caso, è data dal corpus dei commenti al neoplatonico “spirito magno” Avicenna, articolato tra Aristotele e l’emanatismo di Proclo. Da un complesso di proposizioni estratte dalla Elementatio theologica di quest'ultimo, era scaturito il Liber de causis, all’inizio erroneamente attribuito ad Aristotele, ma adattamento monoteista e creazionista di origine araba.53 Per Alberto Magno fino alla piena Scolastica i cieli sono ordinati e mossi dalla gerarchia delle intelligenze angeliche: «et has intelligentias secundum vulgus Angelos vocant», definite da Dante «sustanze separate da materia, cioè intelligenze» (Conv. II iv 2), che si situano tra Dio e l’uomo. Ne deriva una cosmologia dei pianeti che dall’Empireo scende fino al cielo della Luna, come è ben mostrato nel diagramma a lato, con le divisioni dell'universo fisico e morale, tratto da un Florilegium philosophicum del 1606, che in origine illustrava il De anima di Aristotele.54
Il riconoscimento di essere posto in Paradiso, con quel grado di autorevolezza, rende il Sigieri vissuto in odore di eresia agli occhi di Dante, che scriverà la Commedia dopo poco meno di quaranta anni dalla morte del filosofo fiammingo, molto importante «in prospettiva di gravità»55 per alcune posizioni coraggiose di autonomia filosofica sostenute in vita: «rifiutare di credere ciò che deve essere sostenuto dalla fede, col pretesto che non ne esiste dimostrazione».56 Quando invece Beatrice, più pragmaticamente, si faceva portavoce di Dante:
Lì si vedrà ciò che tenem per fede, /
non dimostrato, ma fia per sé noto /
a guisa del ver primo che l’uom crede.
(Par. II 43-45)
La spregiudicatezza riconosciuta a Sigieri nell'uso delle sue fonti,57 – pur mettendo in conto la diversa concezione della autorialità letteraria e del concetto di originale nel Medioevo, come noto, epoca di intense compilazioni enciclopediche e di epitomi sincretistiche –, nell’atteggiamento di fondo filologicamente agguerrito verso quei documenta philosophorum,58 è affiancabile alla libertà che si prende Dante verso le proprie fonti. Entrambi si impegnarono a correggere in una visione organica le contraddizioni derivanti dai medesimi testi di auctoritates conosciute o dai loro interpreti tendenziosi.59 Quel che è certo è che nella lunga trafila di testi e commenti, la «sententia Philosophi […] non est celanda», come si afferma nella reportatio di Parigi,60 che Goffredo di Fontaines ha dato delle Quaestiones in Metaphysicam di Sigieri, opera soggetta a successive redazioni.
Di fatto il sommo poeta fornirà in forma letteraria la chiave di quella fenomenologia razionale che presiede il rapporto mente-corpo, e che vale anche per l’attività dell’intelletto e delle sue potenze, come efficacemente sintetizzato nella famosa “orazion picciola” di Ulisse ai compagni:
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguire virtute e canoscenza
(Inf. XXVI 118-120).
Nella cosmologia di Sigieri61 si teorizza un movimento eterno e ininterrotto delle sfere celesti derivato dalle intelligenze della causa prima immobile, senza però cadere nell’errore di quelli che credono a un “immediatismo divino”. Tale movimento si ripete in un grande ciclo cosmico, e fa sì che le cose che furono ritornano nella stessa specie secondo un processo circolare (motivo della transmutatio già boeziano),62 che coinvolge senza distinzioni dottrine, leggi e religioni: «tutto avviene di necessità», sebbene la volontà umana resti libera per l'indifferenza del giudizio della ragione (scil. Liberum de voluntate iudicium63), da cui dipende l’atto di scelta.64
Ancora la poesia teologica di Dante offre il miglior sussidio alla spiegazione tecnica, quando in Par. II ricorre alle parole dell’intelligenza metafisica di Beatrice: Ma dimmi quel che tu da te ne pensi (58), rivolta al Dante-personaggio. Ma Dante certi interrogativi se li era posti già all'altezza del Convivio, quando scrivendo della mente umana la definisce come «quella fine e preziosissima parte de l’anima che è deitade» (III ii 19).
A volte è necessaria la metafora, dove non possono arrivare i sensi: «Dico adunque, che del numero de li cieli e del sito diversamente è sentito da molti, avvegna che la veritade a l’ultimo sia trovata. Aristotile credette, seguitando solitamente l’antica grossezza de li astrologi … » (Convivio II iii 3); all'altezza della terza cantica Dante riesce a trovare un'immagine per la descrizione dell’Empireo che chiude il discorso di san Benedetto:
l’ultima spera, […].
Ivi è perfetta, matura e intera
ciascuna disïanza: in quella sola
è ogne parte là dove sempr’era,
perché non è in loco, e non s’impola
(Par. XXII 62, 65-67).
Significativo è che a questa 'relatività' spaziale, un non-luogo fuori dello spazio e del tempo, corrisponda nel sistema di Sigieri un'altra di tipo temporale, nella quale «il tempo non è che lo stesso movimento in quanto considerato e 'numerato' dall'anima […] al tempo sembra essere sottratta la sua autonomia ontologica».65
La disposizione favorevole di Sigieri verso questa proposizione: «Quod aevum et tempus nihil sunt in re, sed solum in apprehensione», poi condannata come erronea e pericolosa dal vescovo Tempier,66 chiarisce la modalità del frequente uso da parte del filosofo fiammingo di apprehensio, -onis, scil. il toccare, l'afferrare oppure con il significato di nozione, di conoscenza, nel Commento al De causis: «Et consistit ratio aeternitatis in apprehensione uniformitatis se habendi eius quod est extra motum et omnino immutabile»67.
La questione dell'Unità dell'intelletto
I due episodi di censura delle proposizioni eretiche rappresentano uno degli scontri dottrinali più importanti non solo del XIII secolo, ma di tutto il Medioevo. La prima lista di tredici articoli incriminati, concernenti la verità rivelata, risale al 10 dicembre 1270, sotto il vescovo Tempier di Parigi. Veniva formulato contestualmente l’espresso divieto di sostenere quelle tesi, anche soltanto come ipotesi vere dal punto di vista della Ragione (con la maiuscola, come le ipòstasi del Roman de la Rose), ma false dal punto di vista della Fede. La seconda censura, del 7 marzo 1277, fu più dura e articolata sotto il profilo dottrinale: si contano ben 219 proposizioni teologicamente errate tratte dalle "dottrine dei filosofi" – di cui una buona trentina riguardano le idee del filosofo brabantino. Fu il tentativo esplicito di mettere il bavaglio a Sigieri e ai suoi colleghi presenti e attivi nei piani di studio dell’università. Proprio da quel decennio si registrano delle posizioni di Sigieri più concilianti verso i dogmi dottrinali, per esempio nel non negare recisamente il carattere individuale della vita intellettiva; è la tesi sostenuta da Fernand Van Steenberghen, il quale si è mostrato scettico sulla categoria dell’averroismo come dottrina in grado di avere degli allievi.68
Le accuse di eresia si possono riassumere in quattordici punti, che si estrapolano dalle Quaestiones in tertium De anima di Sigieri.69 Essi si possono dividere in quattro capi:
- rapporto tra intelletto e altre parti dell’anima;
- essenza immateriale dell’intelletto;
- suo rapporto con il corpo;
- distinzione nell’anima umana tra intelletto possibile e intelletto agente.
Il primo punto inerisce alla topologia dell'anima razionale e alle dinamiche delll'intelletto, per il quale si partiva dalla definizione aristotelica:
Relinquitur intellectum solum deforis advenire, et divinum esse solum; nichil enim ipsius operationi communicat corporalis operatio
[Resta che il solo intelletto proviene da fuori, e che esso solo è divino: l’attività del corpo non ha infatti niente in comune con l’attività propria dell’intelletto stesso].70
L’entità dell’anima umana è autonoma e pertinente all’unica natura divina ("ente pensato" più che "ente pensante"), poiché (ri)conosce solo sé stessa, in quanto «essere per sé sussistente», l’ipsum esse o ens per se subsistens (Summa Theol. 1, 3). Su queste sottigliezze ontologiche rischiò di cadere in sospetto anche Tommaso.71 La via d'uscita da questa impasse prodotta da quando, nel 1255, tutto il corpus aristotelico era iscritto fra i libri di testo dell'università, fu indicata dall'opera di Tommaso «contro gli errori degli infedeli».72
Il secondo punto può spiegarsi con la sententia di Tommaso, «Nulla igitur substantia intelligens est corpus».73 La facoltà intellettiva dell’uomo «è una sostanza separata da materia, e quindi disgiunta dall’anima sensitiva, alla quale si unisce solo nell’operazione dell’intendere» (Bruno Nardi).
In questo sistema teologico, astronomico e ontologico insieme, è dato ritrovare le correnti filosofiche che influenzarono Dante, per via mediata certamente anche da Sigieri, il quale, nel dissidio con Tommaso, sostenne che la causa prima non può fare in modo che un 'accidente'74 esista senza "sostrato" (altro termine da intendere nell'accezione filosofica della Scolastica): «il principio di individuazione è la materia, allora ogni sostanza intellettiva, essendo una forma immateriale, costituisce un individuo unico che si identifica con la propria specie di appartenenza»;75 «negli esseri separati dalla materia l’individuo è per se stesso la propria specie».76 A volte le affermazioni non sempre coerenti di Sigieri sembrano trovare negli scritti di Tommaso d'Aquino il giusto inquadramento; per esempio di fronte al nodo di materia e forma, non si può definire se non l'individuo, non l'uomo in quanto tale: «non la materia in genere (quolibet modo accepta), ma la materia signata».77
Nel De anima intellectiva (capp. V e VII) Sigieri sostiene che l'unità dell'«anima intellettiva è moltiplicata dalla moltiplicazione dei corpi umani»,78 diversamente «se vi fossero tanti intelletti quanti singoli uomini, l’intelletto sarebbe una facoltà del corpo»,79 deduzione logica che Sigieri, il quale a volte «usa le parole di Tommaso contro le dottrine stesse di Tommaso»,80 si sente di escludere per non dover ammettere che anche «il corpo intende», scil. il tomistico "quest'uomo intende". Sigieri aggiunge che non si può conoscere l'anima intellettiva, separata dal corpo, se non attraverso i suoi atti di intellezione che sono tecnicamente i soli momenti in cui l’uomo può conoscere, con l’ausilio delle immagini sensibili (scil. i phantasmata). Pertanto l’Intendere (intelligere) come atto individuale partecipa della duplice natura dell’anima, di materia e di separazione da essa.
Sperimentiamo in noi stessi che riceviamo una forma comune e predicabile la quale, dico, non è conosciuta come propria a qualcosa, ma comune a tutti gli individui che vi sono compresi […] Ora, l’azione o l’operazione dell’intelletto che si esercita in questo momento in noi è separata, e non utilizza un organo corporeo […] Noi sperimentiamo in noi stessi che vi sono due operazioni separate dalla materia. La prima operazione separata è la ricezione degli intelligibili universali e astratti; la seconda operazione separata che sperimentiamo in noi stessi è l’astrazione degli intelligibili, che prima erano forme dell’immaginazione […] è necessario che vi siano in noi due facoltà mediante le quali si realizzino queste operazioni […].
È infatti mediante l’intelletto che ci appaiono le forme astratte. Ora, io sostengo che l’intelletto ci è unito in atto per il fatto che esso pensa a partire dalle forme dell’immaginazione. […] Al contrario, è l’intelletto naturalmente unito a te in quanto motore e guida del tuo corpo, è l’intelletto che fa questa esperienza, esattamente come l’intelletto separato fa l’esperienza che ha in sé degli intelligibili (Sigieri, Quaest. in tertium de anima81).
Il punto terzo fa capo alla rappresentazione delle pene infernali secundum aliquam proportionem di Dante. Essendo l’anima una forma sostanziale atta a unirsi ad un corpo materiale, la pena che essa si troverà a scontare nell’inferno consisterà nell’essere unita al fuoco – elemento topico che proviene dalle Sacre Scritture – come sua forma. Ed è proprio in questo ‘vincolo’ che, a giudizio dell’Aquinate, consiste il dolore dell'anima: nel non poter non essere ‘incarcerata’ nell’elemento igneo in quanto le fiamme sono strumento convenzionale della giustizia divina; «così come durante la vita terrena l’anima subiva l’azione del corpo e della sensibilità di cui era la forma sostanziale per mezzo delle passioni, similmente dopo la morte potrà subire l’azione del fuoco, con il quale entrerà in contatto (alligatio), senza esserne però la forma sostanziale».82 La norma dottrinale83 trova una perfetta resa artistica e figurativa nell'episodio di Ulisse e Diomede, «quelli che mettono aguati e danno frodolenti consigli», presentati racchiusi in una lingua di fuoco biforcuta nell'ottava bolgia di Inf. XXVI. Dal punto di vista teologico l’anima è operans in corpore (l’intelletto è motore del corpo), e pertanto espia all’Inferno «nell’essere operativamente in contatto con un corpo quale il fuoco, che non permette di costruire quelle rappresentazioni sensibili – le intenzioni immaginate – che consentono all’intelletto di esercitare la sua attività pensante, l’unica in cui può trovare realizzazione e gioia».84 La fiamma che rappresenta Ulisse è un simulacro ormai impotente dal punto di vista teologico – la «storia di Ulisse è come un fuori campo» (Chiavacci Leonardi).
[…] Dentro dai fuochi son li spirti; /
catun si fascia di quel ch’elli è inceso. /
[…]
Lo maggior corno de la fiamma antica /
cominciò a crollarsi mormorando, /
pur come quella cui vento affatica; /
indi la cima qua e là menando, /
come fosse la lingua che parlasse, /
gittò voce di fuori e disse […]
Già era dritta in su la fiamma e queta /
per non dir più, e già da noi sen gìa /
(Inf. XXVI 47-48, 85-90; XXVII 1-2).
Tuttavia Dante sa prendere le distanze dell'averroismo di Sigieri, per bocca di «Stazio poeta [che] fae una distinzione sopra la natura umana» (dalla rubrica di Purg. XXV), su come avvenga la generazione fisica e materiale dell’uomo e la conseguente formazione dell’anima o della psicologia razionale:
Ma come d’animal divegna fante,
non vedi tu ancor: quest’ è tal punto,
che più savio di te fé già errante,
sì che per sua dottrina fé disgiunto
da l’anima il possibile intelletto,
perché da lui non vide organo assunto.
(ivi, 61-66)
Per il quarto punto Sigieri argomenta, alla questione 2 super librum de causis, che «nell’ordine delle cause efficienti, la causa seconda esercita un’attività che non ha ricevuto dalla causa prima» – affermazione che apre lo spiraglio al libero arbitrio –; la sentenza fu condannata all’art. 98 del sillabo delle proposizioni eterodosse del vescovo Tempier perché in ultimo portava alla confutazione dei miracoli, che, «nella visione teologica tradizionale, sono definiti come una sospensione dell’attività delle cause seconde»85 e di conseguenza a un intervento diretto della mano di Dio nelle cose del mondo.
L’assioma “il mondo ha un inizio” è accettabile però come una verità di fede, come ricorda l’art. 35 delle tesi del 1277 in risposta ancora alla questione 2 di Sigieri, In liber de causis86 «Dio non ha mai esercitato la sua causalità creatrice sull’intelligenza più di quanto non lo faccia ora». «Credo […] che non sia necessario che tutto ciò che è fatto possieda un principio da cui è derivato».87
Sigieri ritiene che il mondo «abbia iniziato a essere dopo non essere assolutamente stato»;88 n modo analogo «la specie umana è sempiterna [pardurableté] e in alcun modo causata».89
La sostanza di una cosa, come l’uomo o la pietra, assurge a universalità in séguito a una intentio che si forma nell’anima individuale dando così luogo alla dottrina aristotelica dell’intellezione, la cosiddetta "forma sostanziale del corpo", a norma della struttura ontologica della Scolastica detta dell’ilemorfismo cioè quando negli esseri contingenti vi è una composizione di materia e forma;90 «per questo non è opportuno che l’universale possieda un essere universale [scil. ente del mondo], tranne che in potenza, prima che sia concepito dall’intelletto» (Sigieri, De Aeternitate91).
Conclusione
Nella pervicacia dell’appassionata ricerca filosofica di Sigieri, perseguita a costo della vita, sembra di ritrovare la “magnanimità”92 che Dante ammirava negli “spiriti magni” del Limbo, dal Poeta illustrati in Inf. IV; l'ammirazione traspare chiara nel verso 120: che del vedere in me stesso m’essalto. Alla nobile ricerca scientifica di Sigieri mancò per statuto la Grazia e la Fede, come queste virtù difettarono all’uomo antico Ulisse, vissuto prima del cristianesimo. E tuttavia entrambi si espongono alla sete natural che mai non sazia (Purg. XXI 1), da "eroi della conoscenza" disposti a rischiare la vita oltre le colonne d'Ercole delle idées reçues e a vivere audacemente al di fuori o al limite della dottrina cristiana. «Assunti i fondamentali princìpi dell’aristotelismo Sigieri ne trae implacabile e imperturbabile tutto quanto logicamente ne deriva».93 Vengono al taglio le parole di Thomas Bernhard nel romanzo Antichi Maestri: «La mente dev'essere una mente che cerca, una mente che cerca gli errori, gli errori dell'umanità, una mente che cerca il fallimento».94
Fonti e bibliografia
Opere principali di Sigieri di Brabante
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- Quaestiones in Metaphysicam; texte inédit de la reportation de Cambridge; édition revue de la reportation de Paris, de A. Maurer, Éditions de l’Institut Supérieur de Philosophie, Louvain-la-Neuve 1983.
- ‘Anima dell’uomo’. Questioni sul terzo libro del ‘De anima’ di Aristotele. ‘L’anima intellettiva’, introduzione, traduzione, note e apparati a cura di A. Petagine, Bompiani, Milano 2007.
- Tractatus de Intellectu (1270 ca.), perduto o mai esistito.
- Liber de felicitate; perduto.95
Fonti a stampa
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Fonti manoscritte
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- Oxford, Merton College, ms. 275, contiene un gruppo di quaestiones de anima, edite da Giele, Van Steenberghen, Bazàn.
- Parigi, Biblioteca nazionale, ms. Lat. 16297, contiene sei testi anonimi attribuiti a Sigieri da Johannes J. Duin.
Bibliografia
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Sitografia
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- Società Dantesca Italiana (SDI), Consultazione delle Opere di Dante Alighieri, https://danteonline.it/opere/.
Article written by Rossano De Laurentiis | Ereticopedia.org © 2021
et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]