Santa Cena (dispute sulla)

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


La Santa Cena nelle dispute eucaristiche
di Vincenzo Vozza

Uno degli elementi che più sensibilmente hanno differenziato la pratica religiosa delle diverse correnti della Riforma dall’originario ceppo cattolico, in seguito al movimentato dibattito teologico, è stato quello della celebrazione dell’Eucaristia, il memoriale dell’ultima celebrata dal Signore nell’ora della sua passione, come sacramento di salvezza.
Il nodo più noto, quello della presenza reale o simbolica di Cristo nell’offerta del pane e del vino, può essere ritenuto soltanto una delle conseguenze di un dibattito più ampio che ha preso vigore dalle riflessioni sulla Chiesa come comunità di credenti, sul sacerdozio battesimale, sul sacrificio di Cristo, solo per citarne alcuni.
Già in ambito cattolico pre-conciliare si era dato largo spazio, nei circoli valdesiani, alla lettura e alla meditazione del Beneficio di Cristo, libretto divulgativo scritto dal monaco Benedetto Fontanini da Mantova e rifinito dall’intellettuale Marcantonio Flaminio, recuperando dalla letteratura paolina gli elementi propri di una theologia crucis; con il definirsi delle nuove posizioni confessionali fuoriuscite dal movimento riformistico, il dibattito teologico circa la dimensione ecclesiale ed eucaristica fiorisce di nuove posizioni.
È opportuno dare qualche informazione circa la concezione calvinista dell’eucaristia e della celebrazione della Cena del Signore, traendone le informazioni direttamente dal Piccolo trattato sulla Santa Cena scritto da Giovanni Calvino. Questo ci permetterà di confrontare le posizioni sostenute dal riformatore francese in relazione a quelle diversamente sistematizzate dagli altri autori.
Innanzitutto, la missa – come scrive Giorgio Tourn – significava per la cristianità medievale «il momento culminante della via ecclesiale: vi si ripete ad opera del sacerdote il sacrificio di Cristo, il cui merito viene trasferito ai vivi e ai defunti; gli elementi materiali del sacramento sono trasformati – transustanziati si dice dopo il II Concilio Lateranense – e mutatisi in sostanza spirituale, attuano una mediazione di grazia»1. Si mette in risalto la necessaria mediazione del clero e del «potere sacerdotale» ad esso conferito dal vertice della gerarchia. La partecipazione ai misteri richiede al popolo di Dio lo stato di digiuno e la confessione, due atti di sottomissione all’autorità ecclesiastica, di cui il secondo con valore sacramentale.
Della partecipazione all’eucaristia si rileva pertanto non solo l’aspetto teologico, ma anche quello ecclesiologico: la Chiesa amministra la salvezza a suo arbitrio2.
La missa, nell’ispirazione della riforma evangelica, da Wittenberg a Basilea, andrà ad insistere proprio su questo punto: «celebrare la Cena significa dunque, non solo abolire una serie di pratiche superstiziose, […] ma equivale a mutare in modo radicale l’orientamento generale della fede cristiana»3. Concretamente, sostituire la teologia del sacrificio con quella della Parola «incarnata», abolire il potere sacerdotale per sperimentarlo in una comunità di credenti. E nella liturgia, questo significa ridimensionare e risemantizzare luoghi e cose: abolito l’altare e la lingua latina, l’ostia viene presa in mano e il calice passato tra i fedeli.
Sulla quiddità dell’ostia al momento della celebrazione della Cena, il dibattito sacramentarlo si sviluppò dal 15254 in un intenso scambio di trattati e libelli tra i due grandi riformatori: Lutero sosteneva la dottrina – e non il dogma, assente nella teologia riformata – della presenza realistica di Cristo nel pane e nel vino, mentre per Zwingli la Cena si configura come un gesto simbolico; al primo si ricollegano l’insegnamento di Carlostadio e degli spiritualisti di tutti i tempi; lo Spirito Santo di Dio garantisce la realtà interiore al di là del valore del rito ecclesiastico, esaltando invece il valore ecclesiale. Per il secondo, appoggiato al teologo Ecolampadio, la Cena è solo il ricordo della morte di Cristo, e Zwingli muove a Lutero l’accusa di non saper dare al problema sacramentale, come ha fatto per tutti gli altri problemi teologici – salvezza, Chiesa e Spirito – una soluzione spirituale, perché «lo spirituale deve avere una causa spirituale»5. Il primo fonda la sua dottrina sull’«est» del testo evangelico, il secondo lo legge come «significat».
Un tentativo di mediazione venne dal riformatore renano Bucero, vicino a Lutero per spiritualità ma di formazione culturale umanistica come gli svizzeri. Appoggiato nella sua attività dal langravio Filippo d’Assia, politicamente preoccupato dell’unità dello schieramento protestante, ottenne nel 1529 la convocazione di un colloquio tra le parti in causa a Marburgo. Che fallì. Furono convocati Lutero e Melantone da un lato, Zwingli ed Ecolampadio dall’altro. Il primo, risoluto, non diede cenno di un possibile cedimento: una fermezza che conservava e coltivava per proseguire, come a Worms, la sua protesta contro il papa; Zwingli ed Ecolampadio, più dialettici, disponibili al confronto, si muovevano però su argomentazioni più radicali, tali da non essere accettate dal più irenico Melantone, ancora rivolto alla possibilità di riconciliarsi con Roma, in vista di una soluzione conciliatoria.
Melantone sarà infatti colui che, nella «Confessione augustana» dell’anno successivo, presenterà a Carlo V una soluzione sulla Cena, quella secondo cui «il corpo e il sangue di Cristo sono veramente presenti e sono distribuiti a coloro che si nutrono nella Cena del Signore»6. Le questioni al centro della dieta di Augusta non furono tanto teologiche, quanto piuttosto politico-ecclesiologiche. E in Germania – secondo l’affermazione di Tourn – o si è luterani o non si è riformati. Questa direttrice determinerà la totale ignoranza della dottrina sacramentarla zwingliana, facendo confluire in quella luterana tutte le confessioni evangeliche presenti sul suolo tedesco, come quelle di Strasburgo, Costanza, Memmingen e Lindau.
Calvino, con il Petit Traicté, il Piccolo trattato della Santa Cena, redatto in francese per dargli più ampia divulgazione, si colloca su un piano intermedio tra il «realismo» luterano e il «simbolismo» zwingliano, non come divulgatore di pensieri altrui – a fare il mediatore ci pensava già Bucero7 - ma ponendo il problema in termini nuovi. Punto di partenza per la sua opera sarà il recupero della trattazione svolta nel cap. IV dell’Institutio8, sviluppata secondo i principi della «eucaristia-comunione» del luteranesimo temperato. Da Zwingli invece si mantiene lontano, pur essendo possibile vedere in filigrana una lettura da parte di Calvino del Commentario del basileese9.
Con il radicalizzarsi delle posizioni degli epigoni del luteranesimo, più intransigenti del loro ispiratore, la dottrina eucaristica comincia a solidificarsi intorno al concetto di «consustanziazione», opposta alla teologia cattolica e al pensiero zwingliano. Esito di questo processo sarà lo scoppio della seconda disputa sacramentaria, intorno alla pubblicazione dell’opera Vera dottrina della Cena del Signore del pastore di stretta osservanza Joachim Westphal10. Quale fu la posizione di Calvino?
Innanzitutto invitò tutti i suoi amici e fedeli a sottoscrivere, in nome dell’unità e della comunione che la partecipazione alla Cena dovrebbe garantire e ispirare, la dottrina eucaristica della confessione protestante in cui si trovano11. Raggiunta la pace politica con i confederati svizzeri e religiosa con gli zwingliani di Bullinger, successore del fondatore, con il quale ancora poteva avere alcune frizioni in materia sacramentaria e riguardo alla predestinazione, Calvino poté compiere il passo definitivo per spostare l’accento sul valore ecclesiologico – piuttosto che soteriologico – dei sacramenti, della Cena e del battesimo.
Come risolve – o tenta di farlo – la questione in merito alla Cena? Calvino, nel cap. IV dell’Institutio, sottolinea tre aspetti della Cena: procedendo con una prima analisi di carattere formale, Calvino accende il riflettore sulla formulazione retorica della frase di Gesù «hoc est corpus meum». Si tratta, a suo parere, di una metonimia, ovvero della facoltà di chiamare una cosa con un altro nome – l’esempio classico, «bere una bottiglia di vino», non si pensa alla bottiglia ma al vino – in riferimento al verbo «essere».
Secondo Calvino pertanto, quando un credente riceve il pane, riceve/pensa al corpo di Cristo: l’attenzione si sposta dalla relazione Cristo-elementi – relazione che ha animato il dibattito sacramentario precedente – a quella Corpo di Cristo-credenti. «Comunicare la sostanza di Cristo», potremmo parafrasarlo con le parole di Tourn: «dicendo che Cristo con suo corpo ed il suo sangue è la sostanza della Cena, Calvino intende affermare che nella Cena, Cristo è presente nella pienezza della sua persona, della sua divinità ed umanità»12.
In secondo luogo, scansando il concetto dell’onnipresenza totalizzante di Cristo nella realtà, sostenuta dal luteranesimo, Calvino recupera la lettura evangelica fatta da Zwingli della reale sussistenza corporale, e non solo spirituale, di Cristo nell’oltremondo, sulla base della realtà dell’incarnazione e risurrezione.
Terzo e ultimo aspetto, l’effetto della Cena: essa è momento della ricezione della grazia, partecipazione del beneficio di Cristo, nella realtà del Corpo di Cristo. E questo avviene per un’adesione di fede totale alla realtà salvifica, per opera dello Spirito di Dio. La comunione, si ribadisce, non avviene attraverso i segni e nei segni, ma attraverso i segni nella realtà13. La soluzione calvinista, lungi dall’essere una mera speculazione terminologica, punta a sintetizzare la sua essenza nel concetto per cui è necessario «abbandonare l’uso dell’aggettivo reale per ricorrere all’uso dell’avverbio realmente»14.
Non interessano le modalità con cui si compie la «comunione» del Cristo con il credente, facili vittime delle aporie del sistema logico-teologico adottato, quanto piuttosto la sua realizzazione nella fede, per opera dello Spirito.
Dalla dottrina teorica alla sua applicazione pratica, o liturgica. Questa viene dedotta da due volumi, il primo, dello stesso Calvino, edito nel 1542 e dal titolo Les Ordonnances, mentre il secondo, con una sua prefazione, approvato di magistrati lo stesso anno, ha come titolo La forme des prières15.
Il secondo era composto, nella prima parte, da una raccolta di sessanta salmi con accompagnamento musicale, da usarsi per il culto; nella seconda parte, dagli schemi liturgici per l’amministrazione di battesimo e Cena, e da alcune indicazioni pratiche sul matrimonio e la visita agli ammalati. La liturgia prevedeva uno schema molto sobrio, una preghiera iniziale, il Credo, la lettura di un testo biblico, una riflessione sul significato della Cena, la distribuzione delle specie e il rendimento di grazie. Non c’è spettacolarizzazione, non ci sono paramenti né ori; viene usato pane comune, e vino, ricevuti dal ministro e dai diaconi.
Lo spostamento dell’asse dalla celebrazione di un sacramento mediato, in cui la comunità assolve passivamente al ruolo di ricettore della grazia, alla solidificazione della comunità attivamente raccolta attorno alla Cena, fu la base della rinnovata consapevolezza cristiana dell’uomo come centro e destinatario della promessa evangelica.

Bibliografia

  • Giovanni Calvino, Il “Piccolo trattato sulla S. Cena” nel dibattito sacramentale sulla Riforma, a cura di Giorgio Tourn, Torino, Claudiana, 1987.
  • Benedetto Fontanini da Mantova, Marcantonio Flaminio, Il beneficio di Cristo, a cura di Salvatore Caponetto, Claudiana, Torino 2009.
  • Salvatore Caponetto, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Claudiana, Torino 1992.
  • Salvatore Caponetto, Erasmo e la genesi dell’espressione Beneficio di Cristo in Id., Studi sulla Riforma in Italia, Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Storia, Firenze 1987.

 
Article written by Vincenzo Vozza | Ereticopedia.org © 2013

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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