Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444
Giovanni Battista di Jacopo di Guasparre, detto Rosso Fiorentino (Firenze, 8 marzo 1494 - Fontainebleau, 14 novembre 1540) è stato un pittore, architetto e decoratore, artista di corte di Francesco I re di Francia.
Allievo di Andrea del Sarto e suo collaboratore, il Rosso è conosciuto come uno dei principali artisti che diedero impulso al primo manierismo fiorentino e, con il Pontormo, ne rappresenta l'esito più alto.
La sua pittura del periodo italiano è ricca di elementi iconografici che discendono da scelte originali, eversive e anticlericali, attingendo al filone dell'arte devozionale e popolare tutta toscana, e guardando, in un secondo tempo, sia al classicismo raffaellesco che all'opera michelangiolesca, stravolgendone i principi, soprattutto nel periodo francese, per elaborare un nuovo linguaggio figurativo che avrebbe offerto spunti estetici decisivi per il secondo manierismo e il futuro barocco.
Lo straordinario ed eclettico linguaggio artistico del Rosso rispecchia il suo spirito indipendente e polemico, denunciando una incisiva personalità alla continua ricerca di innovative soluzioni iconografiche, cromatiche e compositive, e sempre all'insegna di una spregiudicata libertà pronta ad attingere a un vocabolario figurativo capace di operare una sintesi estrema delle fonti e la commistione degli ambiti iconografici tradizionali tesi solitamente a separare i santi dai peccatori, i demoni dagli angeli, l'aristocrazia dal popolo, Cristo dall'uomo comune, arrivando ad esprimere, non senza suscitare talvolta una certa ripugnanza nei committenti, come il sacro e il demoniaco possano convivere oltre che nello stesso contesto anche nella stessa carne, in una insolita alchimia degli elementi.
1. Le opere del Rosso e il teatro della misericordia
Le prove giovanili sono legate alla sua formazione michelangiolesca (“disegnò nella sua giovinezza al cartone di Michele Agnolo”: Vasari) e all'alunnato presso Andrea del Sarto; a vent'anni il Rosso si mise in luce in ambito cittadino collaborando all'esecuzione degli apparati in onore dell'ingresso di Leone X in Firenze nel 1515, entrando nella corporazione dei pittori il 26 febbraio 1517.
Dopo la suggestiva pala con la Madonna il Bambin Gesù e quattro santi per la chiesa di Ognissanti (Pala dello Spedalingo) eseguita nel 1518, ove si notano già le “arie crudeli e disperate” (Vasari) tipiche del suo fare pittorico, e la realizzazione, in questo stesso arco di anni, della straordinaria serie di ritratti virili di impronta modernissima, dove i personaggi, colti nei loro peculiari atteggiamenti, si caricano di introspezione psicologica arrivando a penetrare a loro volta nell'occhio di chi osserva come in un magico dialogo di sguardi, il Rosso esegue nel 1521 il suo più rinomato capolavoro ovvero la Deposizione di Volterra, punta della sua prima maniera, da contestualizzare nell'ambito di uno dei filoni tematici che sensibilizzarono maggiormente l'artista, ovvero la deposizione di Cristo morto, e da ricondurre, a nostro parere, alla tradizione delle sacre rappresentazioni liturgiche del teatro della misericordia.
Anche la successiva Deposizione di San Sepolcro realizzata dal Rosso nel 1528 per la Compagnia dei Battuti di Santa Croce dopo il suo importante soggiorno a Roma dal 1524 al 1527, un'opera che colpisce per la decisiva lezione michelangiolesca, mostra quanto le opere scultoree legate alle cerimonie liturgiche del venerdì santo abbiano lasciato un segno indelebile nella ideazione tematica e compositiva della sua opera, dove i protagonisti assumono le pose più ardite in una gremita concatenazione dinamica caratterizzata dall'horror vacui, e i panneggi nella loro eccedenza “che non asseconda, ma contrasta, la struttura corporea sottostante” (Ciardi 2001), oltre a nascondere i corpi, dinamizzano e scolpiscono modernamente lo spazio, contribuendo a modellare i piani del dipinto, dove i personaggi si accalcano e assumono nuovi rapporti reciproci, solo in apparenza soffocati in un groviglio di volumi e di gesti, peraltro insinuando in chi guarda il senso dell'oppressione e della disillusione di fronte alla tragedia del Redentore: il cupo mistero della morte di Cristo, la sua messa in scena descritta con amaro sarcasmo, dove viene esasperata la fatua e deformante frenesia umana contro l'immobilità straziante del Verbo fatto carne, inducono l'osservatore ad addentrarsi nel cuore pulsante della rappresentazione, in un turbine di movimenti concepiti come nodi morfologici di una ricerca cromatica, plastica e simbolica, volta a scardinare, come dicevamo, i limiti tra luce e ombra e le gerarchie tra santi e demoni: anche la figura mostruosa che fa capolino dal cupo sfondo del dipinto va a sottolineare la cruda realtà della presenza del maligno in qualsiasi contesto, persino il più sacro: ispirata probabilmente a quel “bertuccione” che come raccontava Vasari stava con il Rosso e infastidì non poco il guardiano dell'orto dei frati di Santa Croce, la figura dell'animale subisce una translitterazione semantica dell'ambito della Deposizione; questa figura è stata peraltro identificata con il responsabile della ferita al costato di Cristo, a cagione della lancia portata sulla spalle e lo scudo di cui fa bella mostra (Falciani 2014).
Dobbiamo osservare che in quest'opera del Rosso l'anatomia straordinaria del Cristo si caratterizza per l'esasperata rotondità della casa toracica, secondo noi riconducibile alla morfologia del Crocifisso ligneo di Michelangelo, realizzato nel 1493 per il priore di Santo Spirito e da noi identificato nel manufatto a braccia mobili conservato oggi in Santa Croce a Firenze (Pinotti 2019), che, rivoluzionando l'iconografia del Crocifisso quattrocentesco a cassa toracica piatta, in piena aderenza alla dottrina savonaroliana della sofferenza e alle sacre rappresentazioni del venerdì santo, presenta appunto l'inarcamento della cassa toracica a carena di nave: secondo noi proprio sul Crocifisso ligneo michelangiolesco a braccia mobili il Rosso, particolarmente interessato alla scultura dei maestri fiorentini, avrebbe avuto modo di meditare quando lavorò nel 1522 alla Pala Dei destinata all'omonima cappella in Santo Spirito, anche se non dubitiamo che a quella data il Rosso avesse avuto modo di ammirare l'opera michelangiolesca che ormai da un ventennio veniva scavigliata dalla croce durante i riti popolari della processione pasquale.
In accordo con gli studi più recenti che mettono in luce come il tema della morte di Cristo costituisca un soggetto ricorrente nella produzione del Rosso (Hristova 2020), a nostra volta crediamo che il filone tematico della meditazione sul Cristo deposto, uno dei temi a cui il Rosso “restò fedele per tutta la sua carriera” (Ciardi 2001), e, come racconta Vasari, l'artista elaborò in più occasioni, scaturisca dall'influenza che esercitò su di lui la dottrina savonaroliana della sofferenza, che vedeva nel Cristo crocifisso e dunque deposto, il suo motivo fondante, tuttavia pensiamo che sia proprio il teatro della misericordia ad essa collegato la principale fonte ispirativa del Rosso visceralmente legato alle tradizioni popolari e alle esigenze delle confraternite, alle quali peraltro appartenevano entrambi i suoi fratelli, tradizioni che lo condurranno a eseguire nel 1536 circa, quando egli si trovava ormai in Francia al servizio di Francesco I, la tavola Compianto sul Cristo morto, ritornando dopo anni su quel tema sacro: in quest'opera il Redentore mostra una morfologia più arcaica rispetto alla pala di San Sepolcro, e Maria, diversamente dai dipinti precedenti nei quali si ripiega in sé chiudendo gli occhi nel suo contrito dolore, apre invece le braccia tagliando nettamente lo spazio diagonalmente e guardando negli occhi l'osservatore in un atto di amore universale che sembra fare da contraltare a quello della Crocifissione di Beato Angelico, in cui la Vergine addolorata allarga le braccia sostenuta da Maria di Cleofa e san Giovanni, priva ormai di volontà propria; ci sembra proprio che l'opera di Beato Angelico, come avremo modo di illustrare, abbia ispirato decisamente l'arte del Rosso che, attraverso i propri dipinti che hanno come soggetto la deposizione di Cristo, sembra rispondere alle scelte estetiche compiute decenni prima dal frate domenicano; d'altra parte i richiami al Quattrocento fiorentino, così ricco di suggestioni arcaicistiche, offrono occasione all'intraprendente artista di proporre un personale slancio in avanti, sviluppando una modernità sconcertante tanto che a questa opera straordinaria eseguita dal Rosso nel suo periodo francese guardarono illustri esponenti del più eccelso Romanticismo che seppero cogliere le nuove dinamiche psichico compositive e le sfumature di quel labilissimo confine tra dramma e follia, tra felicità e dannazione.
2. Firenze savonaroliana, culla del Rosso. I debiti angelichiani
Il Rosso nacque nel 1494, l'anno della Cacciata dei Medici, quando Savonarola, dal luglio 1491 priore di San Marco e a capo delle confraternite domenicane, diveniva capopopolo con la discesa del re di Francia Carlo VIII. Il momento è decisivo per la vita sociale e religiosa della città e aprirà le porte a una nuova fase storica, caratterizzata da un recupero culturale delle tradizioni popolari nell'ambito di una valorosa fiorentinità.
In questi anni drammatici, seppur ricchi di suggestioni, quando il retaggio culturale di un'epoca assai fertile stava per divenire humus prezioso per il secolo successivo, si svolse la prima infanzia del Rosso, in un’atmosfera turbolenta, tra le predizioni apocalittiche pronunciate dal frate domenicano, tutto votato a realizzare il suo programma di riforma religiosa invocando un concilio per deporre papa Alessandro VI da lui definito “simoniaco, eretico, infedele”, e i primi passi di una combattuta Repubblica, rivolta verso il cambiamento, tuttavia non ancora pronta ad afferrare le proprie libertà.
In un clima di predicazione e riforma, quando “il carnevale savonaroliano prende un aspetto da quaresima” (Vannucci 1997) si svolgerà il 7 febbraio 1497 in piazza della Signoria il celebre ed estremo rogo delle vanità, dove i “piagnoni” bruciarono una gran quantità di oggetti e libri ritenuti fonti di peccato insieme a preziose opere d'arte a tema pagano (Vasari, Vita di Fra Bartolomeo). Il Rosso aveva appena tre anni e possiamo immaginare quanto i racconti di quelle giornate abbiano impressionato la sua infanzia, quando il padre Jacopo risultava al servizio della Repubblica. Infatti, secondo le recenti indagini storiche e documentarie di Waldman, il motivo per il quale Vasari nella sua biografia tace sui natali del Rosso potrebbe derivare dal fatto che il padre e il cugino erano al servizio della Signoria anti-Medicea nel lasso di tempo che va dal 1494 al 1512: il padre Jacopo di Guasparre di Giovanni da Civitella, scomparso nell'autunno del 1512, era un famiglio della Signoria Fiorentina, precisamente membro dei fanti del rotellino già nel 1495, ruolo che venne ricoperto in seguito dal nipote Domenico quando Jacopo se ne andò in pensione nel 1508; la stessa partenza del Rosso per raggiungere la corte di Francesco I nel 1530 potrebbe collegarsi al suo orientamento anti Mediceo. Waldman ricorda inoltre che il Rosso ebbe, come dicevamo, due fratelli entrambi Frati: Frà Filippo, membro dei Serviti della SS Annunziata e Frà Costantino, dei Domenicani di Santa Maria Novella; entrambi ricoprivano ruoli di certa responsabilità nell'ambito dei rispettivi ordini monastici (Waldman 2000).
In questo contesto che auspicava una riforma religiosa l'Apocalisse di san Giovanni, come ha illustrato Antonio Natali nel suo studio iconologico che riconduce la Madonna delle Arpie di Andrea del Sarto del 1517 al testo evangelico giovanneo, “con la predicazione profetica concomitante e la problematica escatologica che ne deriva, fu soprattutto in quegli anni fra Quattro e Cinquecento lettura assai diffusa e commentata in nome del tanto auspicato rinnovamento della Chiesa” (Natali 2014).
Savonarola dal canto suo aveva concepito l'arte come strumento etico di conversione che avrebbe dovuto scuotere il fedele, e fargli provare rimorso e pena, e i suoi testi e scritti influenzarono generazioni di artefici sensibili alla sua predicazione e speranzosi in una vera riforma della Chiesa, come lo stesso Michelangelo, di vent'anni più anziano del Rosso: come dicevamo, Buonarroti nel 1493, eseguì il proprio Crocifisso ligneo per il priore di Santo Spirito in piena consonanza con la dottrina di Savonarola, per il quale il Crocifisso era il centro assoluto della sua predicazione ed aveva il compito di rivelare e insegnare la Passione di Cristo attraverso l’iconografia della sofferenza: per questo motivo Savonarola pubblicava nel 1492 il Trionfo della Croce, al quale Buonarroti guardò (Pinotti 2019).
Anche la pittura del Rosso era arrivata a scuotere gli animi che assistevano inermi alla oscura tragedia da lui rappresentata nella quale l'uomo, nella sua misera cecità spirituale e oscuro destino terreno, avrebbe dovuto assistere alla sconfitta del male da parte di Cristo; questo forse uno dei motivi per il quale nella Pala dello Spedalingo il Bambin Gesù si presenta sfigurato con gli occhi che sembrano macchie disfatte che spremono l'oscurità ancor più di tutti gli altri santi che lo circondano.
Nella Firenze savonaroliana l'arte si popolarizzò dunque nei temi e nello stile per diffondere la dottrina cristiana ed essere strumento di conversione; e, come abbiamo anticipato, riteniamo che il Rosso si sia posto sulla scia delle sacre rappresentazioni allestite nel corso delle celebrazioni liturgiche del venerdì santo, quando dipinse nel 1521 la tanto astratta quanto teatrale Deposizione di Volterra, memore di quelle tradizioni liturgiche che anche Michelangelo ebbe ben presenti durante l'esecuzione del proprio crocifisso ligneo (Pinotti 2019) e della stessa Pietà Vaticana, ispirata alle Vesperbild (Mazzotta, Salsi 2018).
In particolare riteniamo che l'opera a cui il Rosso volle aderire sia stata proprio il volterrano Gruppo ligneo policromo della Deposizione di autore toscano del XIII secolo connesso alla celebrazione dei riti pasquali, dove Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea rimuovono dalla croce il corpo di Cristo.
D'altra parte è stato già osservato come l’arte della scultura fosse stata oggetto di interesse e di studio da parte del Rosso, che fu in ottimi rapporti, anche collaborativi, con Baccio Bandinelli, “come dimostrano gli stucchi in S. Maria della Pace a Roma, convincentemente a lui attribuiti e poi quelli della grande decorazione della galleria di Fontainebleau” (Ciardi 2001).
Se la dottrina savonaroliana fu per il Rosso punto fermo a cui fare riferimento, ecco che, a nostro parere, i dipinti dell'Angelico sembrano essere stati fonte ispirativa primaria, alla pari delle opere di Masaccio e Donatello, per la meditazione sul tema della Deposizione. Come dicevamo, la Crocifissione con Santi della Sala del Capitolo in San Marco fornisce al Rosso modelli iconografici per la Deposizione di Volterra, in particolare per la figura di Maria Maddalena vista di spalle (immagini 8 e 9) e per la concezione di uno spazio astratto dove i personaggi del dramma si stagliano come su una quinta teatrale.
3. Un colto esoterista alla corte di Francia: il Rosso della luce, il Rosso delle tenebre
Il Quattrocento si chiuse dunque in modo drammatico, con la morte di Savonarola nel 1498. Il travaglio sociale e culturale del tempo in cui vennero a trovarsi molti intellettuali e artisti che si barcamenavano contro povertà e pestilenze, le deluse speranze in una riforma della Chiesa, la violenza delle guerre e il Sacco di Roma, condizionarono le scelte espressive ed esistenziali degli artisti che lavorarono in quei decenni. È proprio dal travaglio di una società in piena crisi spirituale e materiale che nacquero le sperimentazioni più ardite da parte del Rosso e la “terribilità di cose stravaganti”, bizzarre e ricercate; l'originalità di queste scelte estetiche andava di pari passo con la sua grande curiosità intellettuale: l'artista, come ricorda Vasari, era uomo raffinato, “dotato di bellissima presenza; il modo del parlar suo era molto grazioso e grave; era bonissimo musico et aveva ottimi termini di filosofia, e quel che importava più che tutte l'altre sue bonissime qualità”; dunque egli era un uomo assai colto che “per comparire più pratico in tutte le cose et essere universale” aveva anche “apparata la lingua latina” (Vasari).
Alla ricerca continua di sollecitazioni culturali e letterarie, egli fu propenso a orientarsi talvolta verso scelte iconografiche complesse non prive di una componente di indecifrabilità collegabile a un vocabolario esoterico e alle discipline ermetiche, in particolare all'alchimia, come emerge da opere sia del periodo italiano che francese, quando egli divenne artista di corte di Francesco I.
Se in Italia il Rosso aveva sofferto la povertà e subìto il rifiuto dei committenti riluttanti ad accettare le sue bizzarre scelte pittoriche che raccontavano non solo la tragedia di Cristo ma la miseria dell'uomo e la vittoria della morte, come denunciava la sua giovanile Allegoria macabra del 1517, memore delle danze macabre tardomedievali, egli aveva saputo anche articolare un linguaggio straordinariamente ricco e cromaticamente vivace, rivolto ad esprimere, per contraltare a quei tragici temi, l'aspirazione ad innalzarsi dell'individuo mosso da nobili ideali, come testimoniano lo Sposalizio della Vergine, dove si evidenziano i riferimenti all'alchimia, alla magia, alla cabala (Falciani 1996), e Mosè che difende le figlie di Jetro, dove la brillantezza cromatica e la lezione michelangiolesca vengono magistralmente rielaborate, rompendo decisamente con la classica eleganza raffaellesca; la gravità corporea michelangiolesca viene stemprata dal Rosso attraverso un dinamismo vorticoso, tanto che all'opera, giunta in Francia presso Francesco I nel 1529, attinsero, a nostro parere, artisti di epoca moderna che seppero coglierne la grande raffinatezza e originalità in particolare quella dei corpi riversi che sfondano lo spazio in primo piano, come ad esempio fece Théodore Géricault per La zattera della Medusa. Dopo l'acquisizione dell'opera Mosè che difende le figlie di Jetro il re di Francia sarebbe di lì a poco divenuto il mecenate del Rosso, che riuscì così a coronare il suo sogno giacché “avendo egli sempre avuto capriccio di finire la sua vita in Francia e torsi, come diceva egli, a una certa miseria e povertà nella quale si stanno gli uomini che lavorano in Toscana e né paesi dove sono nati, deliberò di partirsi” (Vasari). L'artista prima di lasciare per sempre l'Italia all'inizio del 1530 raggiunse infatti Venezia, in fuga da Borgo San Sepolcro a cagione di un episodio avvenuto il giovedì santo, quando lui e il suo garzone vennero sorpresi a fare vampate di fuoco con la pece greca accanto all'altare, e a Venezia fu ospitato da Pietro Aretino che “l'aveva accolto e introdotto presso l'ambasciatore di Francia Lazare de Baïf, e con la sua complicità il maestro era stato invitato a realizzare il soggetto allegorico nel quale Marte e Venere si riuniscono” (Salmon 2014).
L'intermediazione di un personaggio eccentrico libertino e discusso come Pietro Aretino, che poteva essere considerato uno dei consulenti artistici di Francesco I e che Rosso probabilmente conobbe a Roma nel 1524-25 (Ciardi 2001), è un fatto importante, anche in relazione alla temperie culturale veneziana di quel particolare momento, quando Aldo Manuzio diede alle stampe Voarchadumia contra alchemia di Giovanni Agostino Panteo, che espone la vera arte della trasmutazione dei metalli con tavole raffiguranti forni, alambicchi, strumenti chimici e macchine per la loro purificazione. Sembra che la Voarchadumia fosse una società segreta di alchimisti che contava tra i suoi membri, oltre al monaco veneziano Panteo, peraltro maestro di Pietro Bembo, anche numerosi artisti quali Parmigianino, Beccafumi, Giorgione (Caroutch 1997). Non dubitiamo dunque che anche il Rosso Fiorentino, una volta arrivato in Francia, venisse ulteriormente sollecitato a elaborare quei filoni tematici oggetto di interesse da parte di alcuni circoli filosofici, e i motivi riconducibili alla cultura alchemica peraltro coltivata sin dal Quattrocento a Firenze a cominciare dal circolo neoplatonico guidato da Marsilio Ficino che tradusse il Pimander (Pimandro), attribuito ad Hermes Trismegisto, padre dell'alchimia, un testo che dal 1471 in soli vent'anni vide sette edizioni a stampa. L'influenza delle dottrine ermetiche sugli artisti fiorentini in particolare, dall'epoca ficiniana in poi, non fu irrilevante. Nelle stesse opere di Michelangelo abbiamo osservato come si fossero insinuati temi e motivi derivati non solo dall'astrologia, ma anche dall'alchimia; le Rime, che vedono una vasta gamma di cambiamenti di stato legati ad alchimie d'amore, ne sono importante testimonianza (Pinotti, 2014): in esse Buonarroti si paragona ad animali che simboleggiano la fase del compimento della Grande Opera come la fenice, che una volta arsa rinasce dalle proprie ceneri, e la salamandra, anfibio che resiste al fuoco.
Inoltre ci piace ricordare che anche Michelangelo era in stretti rapporti con Aretino, ritratto nelle vesti di san Bartolomeo nel Giudizio Universale (1536-1541): interessante notare come Aretino tenga in mano la propria pelle scorticata, tuttavia con il volto di Buonarroti, ad esprimere un intimo rapporto tra i due, quasi citazione misteriosa e di matrice ermetica relativa a una reciproca muta erotica e specchio di un loro speciale sodalizio; inoltre come il Rosso Fiorentino riparò a Venezia nel 1530 presso Aretino, anche Michelangelo, in fuga da Firenze nell'autunno del 1529, si rifugiò a Venezia prima che anche a questi giungessero da Francesco I concrete offerte per stabilirsi in Francia, dove in effetti avrebbe a sua volta voluto emigrare (Baldini 1973), giacché venne bandito come ribelle dalla sua città ove era stato nominato “Governatore generale sopra le fortificazioni”; Buonarroti, dopo essere ritornato a Firenze, si rifugiò nuovamente nella città lagunare quando nell'agosto del 1530 Firenze capitolò sotto i colpi del lanzichenecchi; dunque, come hanno osservato gli studiosi, egli cedette il passo al Rosso per la partenza in Francia.
Una volta giunto in Francia al servizio del re, il Rosso Fiorentino avrebbe liberato la propria vena progettuale e creativa al servizio di una corte culturalmente “spregiudicata” e aperta alle novità provenienti dall'arte italiana. Dalle decorazioni della Galleria Francesco I a Fontainebleau, alla quale l’artista attese sino all’anno della propria morte, opera che destò la meraviglia e l’ammirazione dei contemporanei, possiamo riconoscere filoni tematici riconducibili all'alchimia che, contestualmente ad altri motivi, articolano un enigmatico programma iconografico che ha come protagonista il sovrano e il suo operato. Desideriamo a questo punto porre l'accento sulla cultura ermetica che accomunava il Rosso e il suo committente, “padre e restauratore delle arti e delle lettere”, fondatore nel 1530 del Collegio dei lettori reali che diverrà poi il Collegio di Francia (Cordié 1981); l'artista, innalzando l'operato del re, sembra celebrare le fasi della grande “opera alchemica” messa in atto dal sovrano, metafora delle sue qualità di virtuoso regnante. La stessa salamandra, emblema di Francesco I con il motto “Nutrisco et extinguo” (a significare la capacità duplice dell'anfibio a nutrirsi del bene, ovvero del fuoco buono, e ad estinguere il male, ovvero il fuoco cattivo) che ritroviamo replicata sopra ogni riquadro ad affresco, con la sua capacità di resistere alle fiamme è allegoria della costanza, di resistenza al male e ai nemici (Guelfi Camaiani 1992), e dunque simboleggia la virtù e la lotta del sovrano contro le forze negative; Paracelso la metteva in relazione con la Rubedo, ovvero lo stadio finale dell'Opera alchemica, che Francesco I avrebbe quindi incarnato.
Infatti se la grande Galleria può essere considerata come un inno figurativo a Francesco I e al suo regno (Fumaioli 1996), ecco che gli episodi effigiati, allegorie del felice stato del regno e di un sovrano virtuoso, contengono storie mitologiche alcune delle quali riconducibili ad allegorie della Grande Opera alchemica, come la scena in cui Danae riceve Giove sotto forma di pioggia d'oro, dipinta da Francesco Primaticcio nel 1540, verso la quale il busto del sovrano guardava: nell'interpretazione dei filosofi ermetici Danae era il Mercurio, Giove il Solfo, la pioggia aurea era la distillazione dell'oro filosofico e l'episodio significava la congiunzione Solfo-Mercurio (De Pascalis 1995); anche la cosiddetta scena del Sacrificio sembra proprio ritrarre un antico saggio in cui si trasfigura l’alchimista sacerdote mago, forse lo stesso Hermes Trismegisto, patriarca della mistica della natura e dell'alchimia, che si accinge a intraprendere l'Opera dove i bambini potrebbero simboleggiare il Solfo dei saggi (Mutus Liber 1677); anche l'episodio della morte di Adone, nel quale secondo gli studiosi di adombrerebbe forse il ricordo della morte del Delfino, in realtà emblematizza il processo di trasmutazione per cui dal sangue di Adone morente spunterà l'anemone; la scena con l'episodio della battaglia tra centauri e lapiti potrebbe corrisponderebbe alla prima fase dell'Opera, la Nigredo (Tarditi Spagnoli 2015); la scena della fontana della giovinezza si riferisce a sua volta a un processo di trasmutazione dove Leda e il cigno in primo piano, che rimanda al mito ermetico del dio Giove tramutatosi in cigno per unirsi ad una mortale, diviene simbolo del mistero della fecondità dell'Albedo, secondo stadio dell'Opera: Leda dà origine all'uovo cosmico mentre il cigno è il principio fecondante; gli alchimisti utilizzavano l'uovo nella produzione della materia prima: “La calce è ottenuta attraverso la triturazione finissima del guscio mentre il tuorlo serve a ricavare una speciale sostanza oleosa e l'albume la cosiddetta “acqua mercuriale” (Battistini 2005).
Dunque riteniamo possibile che uno dei livelli semantici del programma iconografico della Galleria possa riferirsi al concetto di trasmutazione, ovvero all'Ars transmutatoria, ai passaggi di stato dalla Nigredo alla Rubedo, dal buio degli istinti all'illuminazione dell'anima superiore (come indica la scena dell'Illuminazione di Francesco I dove tutti sono bendati perché ciechi o per non essere accecati, mentre il sovrano avanza, armato di spada, verso la luce fissando i propri occhi nel sole che riassume gli stadi dell’Opera e il suo compimento), per cui il sovrano si sarebbe innalzato ripudiando i vizi ed abbracciando le virtù, risultando vittorioso sui nemici e il male, in piena concordanza con le altre interpretazioni proposte dagli studiosi per i quali l'intera Galleria significherebbe “un percorso di elevazione dall'amore terreno a quello celeste, dagli dei pagani a Cristo” (Falciani 2014).
In quel decennio francese il Rosso, che fu assai prolifico ed eseguì infinite opere di pittura e di stucchi e infiniti disegni di “saliere, vasi, conche et altre bizzarrie, che poi fece fare quel re tutti d'argento, le quali furono tante che troppo sarebbe di tutte voler far menzione” (Vasari), diresse a Fontainebleau un gran numero di artisti, pittori, stuccatori, intagliatori, tra i quali ricordiamo Francesco Primaticcio e Luca Penni, elaborando per la Galleria Francesco I un vocabolario ornamentale che si diffuse rapidamente attraverso i maestri incisori, rivoluzionando l’arte e il gusto di un’epoca. “L’arte di Fontainebleau resterà dunque un capitolo fondamentale del Manierismo in Europa” (Cordié 1981).
L’artista al servizio del re divenne famoso e ricchissimo, e probabilmente anche molto invidiato. Vasari riferisce infatti che “non più da pittore, ma da principe vivendo, teneva servitori assai, cavalcature, et aveva la casa fornita di tapezzerie e d’argenti, et altri fornimenti e masserizie di valore”.
Il biografo racconta che il Rosso morì a causa di un veleno che egli si fece portare da Parigi, suicida per ragioni d'onore. Non ci sono prove e neppure smentite al riguardo. È possibile che l'episodio che lo vide disonorato per avere vergognosamente accusato di furto uno dei principali esecutori dei lavori della Galleria, l’amico innocente Francesco di Pellegrino fiorentino, che scrisse anche “un libello d’ingiuria” (Vasari), abbia condotto il Rosso a un certo disorientamento emotivo e turbamento mentale che potrebbero avere favorito un fatale incidente, forse collegato a incontrollati e compensatori esperimenti materici, peraltro non estranei alla pratica dell’arte, ovvero che abbiano generato in lui condizioni psicologiche che avrebbero potuto indurlo a commettere un altro errore irreversibile di impronta autolesionistica o addirittura a commettere suicidio. Resta il fatto che se l’artista avesse optato per togliersi la vita, la perentorietà del gesto estremo da lui compiuto potrebbe essere collegata alle azioni conseguenti che derivarono, o sarebbero derivate, dalle false accuse fatte al collega. Vasari scrive precisamente “Perché deliberato [di] uccidersi da se stesso, più tosto che esser castigato da altri, prese questo partito.”: un’affermazione che insinua l’idea che l’evenienza di castighi provenienti da terzi lo spinse ad uccidersi con le sue proprie mani.
Galleria
Fonti e bibliografia
Giorgio Vasari, Vita del Rosso Pittor Fiorentino, in Le Vite de' più eccellenti pittori scultori e architettori, 1568, Edizioni Club del Libro, Milano 1963; Albino Galvano, Rosso Fiorentino, in Grande Dizionario Enciclopedico, vol. XVI, UTET, Torino 1971; Umberto Baldini, Michelangelo scultore, Rizzoli, Milano 1973; Carlo Cordié, La Scuola di Fontainebleau, in Il Castello di Fontainebleau, Documenti d'Arte, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1981; Dizionario dei grandi disegnatori, a cura di Raffaele De Grada e Renato Ruotolo, Gruppo Editoriale Fabbri, Milano 1984; Giuliano Briganti, La Maniera italiana, Sansoni, Firenze 1985; Piero Guelfi Camaiani, Dizionario araldico, Hoepli, Milano 1992; Andrea De Pascalis, L'Arte dorata. Storia illustrata dell'alchimia, L'Airone Editrice, Roma 1995; Marc Fumaioli, Rosso tra Italia e Francia, in R. P. Ciardi, A. Natali (a cura di), Pontormo e Rosso, Atti del Convegno di Empoli e Volterra (1994), Venezia 1996; Carlo Falciani, Il Rosso Fiorentino, Fondazione Carlo Marchi 6, Olschki Editore, Firenze 1996; Alexander Roob, Alchimie et Mystique, Taschen, 1997; Louis Alexander Waldman, The origins and family of Rosso Fiorentino, “The Burlington Magazine” vol. 142, N° 1171 (Oct. 2000) pp. 607-612; Roberto Ciardi, Giovanni Battista di Iacopo, detto il Rosso Fiorentino, in DBI, vol. 56 (2001); Matilde Battistini, Astrologia, magia, alchimia, Electa, Milano 2005; Alessandro Nova, Il Cristo in forma pietatis del Rosso Fiorentino fra devozione e bellezza, in Christoph Luitpold Frommel, Gerhardt Wolf: L'immagine di Cristo dall'Acheropita alla mano d'artista: dal tardo Medioevo all'età barocca, Città del Vaticano 2006, S.323-340 (Studi e Testi; 432); Helena Celdrán, Rosso Fiorentino, el pelirrojo arrogante y pasional que inició el manierismo, 20minutos. com, Artes, 10, dicembre 2012; Ambasciata d'Italia a Parigi, AA. VV. Rosso Fiorentino. Ritorno in Francia - Retour en France. Lo Sposalizio della Vergine e il suo restauro, catalogo della mostra a cura di Monica Bietti, Umberto Allemandi, Torino Londra New York 2014; Carlo Falciani, Antonio Natali, Rosso Fiorentino, Giunti dossier, Firenze 2014; Gianna Pinotti, Michelangelo e l'Amore tra letteratura e Bibbia, Gazebo, Firenze 2014; Giorgio Tarditi Spagnoli, La Loggia dei Rosa+Croce di Chiavari – Parte 5: dalla Centauromachia alla Madonna col Bambino, 3 febbraio 2015, www.giorgiotarditispagnoli.com; Antonio Natali, Firenze 1517. L'Apocalisse e i pittori, Edizioni Polistampa, Firenze, 2017; Antonio Mazzotta e Claudio Salsi (a cura di), Vesperbild. Alle origini delle Pietà di Michelangelo, catalogo della mostra, Officina Libraria, Milano 2018; Gianna Pinotti, Il crocifisso a braccia mobili di Michelangelo per il priore di Santo Spirito, “spietata immagine” savonaroliana e Cristo in Pietà: una nuova proposta attributiva, in “Quaderni eretici”, 7, fasc. 3, 2019; Valentina Hristova, Entre art, dévotion et réforme catholique: la Lamentation de Rosso Fiorentino à Borgo Sansepolcro, in “Revista de Historia da Arte e da Cultura”, Campinas SP, v. 1, n. 1, jan-jun 2020.
Article written by Gianna Pinotti | Ereticopedia.org © 2021
et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]