Michelangelo

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


thumbnail?id=1KAjU-M-xT_2qXi9frBsUaaSxY7GlSlo2

Michelangelo Buonarroti (Caprese, 6 marzo 1475 - Roma, 18 febbraio 1564) è stato uno scultore, pittore, architetto, scrittore e poeta.

Vita e Opere

1. 1475-1534: la giovinezza e la professione tra Firenze e Roma

Michelangelo Buonarroti, noto come scultore, pittore e architetto, meno conosciuto come scrittore e poeta, nacque a Caprese nel Casentino il 6 marzo 1475, secondogenito di Lodovico di Leonardo di Buonarroto Simoni, podestà di Caprese e Chiusi per conto di Firenze, e Francesca di Neri di Miniato del Sera.
La vita familiare si preannunciò da subito piuttosto travagliata: da un lato la morte della madre Francesca nel 1481 segnò profondamente la sua infanzia e l’intera sua esistenza, dall’altro le sue predisposizioni artistiche gli procurarono le ostilità dei parenti, «onde dal padre e dai fratelli del padre, i quali tale arte in odio avevano, ne fu mal voluto, e bene spesso stranamente battuto; a’ quali come imperiti nell’eccellenza e nobiltà dell’arte, parea vergogna ch’ella in casa sua fusse» (Condivi).
Dunque i dissidi familiari erano sorti già durante la prima adolescenza a cagione dei suoi straordinari talenti: il padre non voleva assolutamente che egli si dedicasse all’arte e tanto meno alla scultura, ritenuta non consona al buon nome dei Buonarroti, famiglia fiorentina di parte guelfa e di antico lignaggio, sulla quale però incombeva oramai lo spettro della miseria.
Nonostante i molti contrasti col padre, nel 1488 il giovane fu messo a bottega a Firenze presso Domenico e Davide Ghirlandaio con un contratto di tre anni, bottega che poi abbandonerà prima del tempo per frequentare il Giardino Mediceo delle sculture di san Marco; fu così che l’artista, apprezzato e protetto da Lorenzo il Magnifico e poi dal di questi figlio Piero, trascorse la sua giovinezza a contatto con gli artisti e intellettuali del circolo neoplatonico nato e cresciuto sotto l’egida medicea.
L’educazione presso la casa del Magnifico Lorenzo, dove Michelangelo visse stabilmente sino alla morte di lui nel 1492, e presso il celebre Giardino delle sculture sotto la guida di Bertoldo di Giovanni, «custode delle molte anticaglie conservate nel suddetto giardino e raccolte con grande spesa» (Vasari), può essere dunque vista non solo come un periodo di formazione artistica, ma di vera e propria iniziazione alle antiche dottrine: furono gli insegnamenti di Marsilio Ficino - figura attorno cui ruotava l’accademia neoplatonica a cui appartenevano Cristoforo Landino, Agnolo Poliziano e Giovanni Pico della Mirandola - a fare grande presa sull’animo sensibilissimo del giovane, tutto rivolto ad una ricerca interiore da cui attingere i mezzi per affrontare i più grandi misteri dell’esistenza. Infatti Ficino, attraverso il suo appassionato lavoro di riscoperta del platonismo, del neoplatonismo e del pitagorismo, elaborò una visione del mondo che favorì un’evoluzione degli studi esoterici, verso i quali Buonarroti mostrò particolare propensione.
In quella fase giovanile nella memoria dell’artista si impressero con forza anche le prediche del frate domenicano Girolamo Savonarola, che, venuto a Firenze nel 1489 su invito del Magnifico e su consiglio di Giovanni Pico, a poco a poco iniziò ad esercitare un grande ascendente sui fedeli per l’acceso profetismo dei suoi sermoni e il rigore morale di cui egli si faceva esempio. Michelangelo fu colpito dall’ispirazione profetica del frate visionario che estremizzò nella propria persona la lotta contro gli orpelli di una Chiesa corrotta e i conseguenti malcostumi sociali, su cui peraltro lo stesso Buonarroti avrebbe apertamente ironizzato con amarezza in alcuni versi giovanili1. Savonarola, la cui voce spinse Michelangelo ad addentrarsi nei segreti delle Sacre Scritture, nei misteri della Bibbia e nel richiamo di Dio per bocca dei Profeti, verrà crudelmente giustiziato nel 1498, quando l’artista, giunto a Roma grazie alle articolate vicende legate alla contraffazione e alla vendita del proprio Cupido dormiente, cercava di soddisfare le prime committenze nella città papale con opere sublimi quali La Pietà. La morte di Savonarola lasciò un profondo segno nella vita del giovane scultore che ebbe modo di constatare sino a che punto il Papato, ormai in preda all’abiezione, riuscisse ad essere efferato nei confronti di chi auspicava un radicale rinnovamento della Chiesa.
Il geniale Buonarroti seppe sintetizzare tutti gli stimoli culturali e spirituali che nutrirono la sua giovinezza e il suo carattere, focalizzandosi sulla libera creazione più che sulla dottrina; e così il segreto delle sue opere, sia visuali che poetiche, posa sulla loro natura sincretica, cioè sull’abile sintesi di diverse o anche contrapposte dottrine filosofiche e religiose, dal quale scaturiscono iconografie e immagini risolutive dei contrasti, straordinarie combinazioni di diversi contesti culturali. È così che il grande artista, pur lavorando in ambiente papale, attraverso le opere maggiori riuscì sempre a mantenersi segretamente fedele ai propri imperativi morali e ad esprimere esotericamente le proprie intime fedi, e talvolta le proprie divergenze dalle scelte della Chiesa cattolica.
A Firenze l’artista tornerà agli inizi del Cinquecento durante la Repubblica, per eseguire la Battaglia di Cascina e il David su commissione del gonfaloniere Pier Soderini. Ma solo nel 1515, ossia poco dopo avere terminato di affrescare la volta della Cappella Sistina - immane opera intrisa di messaggi rivoluzionari e anticlericali che mostrerebbero, come hanno rilevato Roy Doliner e Benjamin Blech, l’affezione del Maestro agli insegnamenti del neoplatonismo, in particolare al Talmud e agli altri Libri sacri ebraici che erano allora banditi per l’atteggiamento discriminatorio assunto dalla Chiesa cattolica nei confronti del popolo semita - l’artista si trasferirà a Firenze, tornata nel 1512 al governo mediceo, e qui lavorerà per vent’anni, eseguendo opere decisive come i Prigioni e le Tombe dei Medici, dedicandosi anche alla facciata della basilica di san Lorenzo e alla Biblioteca Laurenziana, i cui lavori verranno interrotti nel 1527 a causa del Sacco e di una nuova e breve Repubblica che offriva al Maestro l’occasione per eseguire i progetti di fortificazioni per la difesa della città. Nel 1534, poco dopo la morte del padre e per ragioni sentimentali, egli si trasferiva definitivamente a Roma, dove avrebbe lavorato sino alla morte avvenuta il 18 febbraio 1564.
Così si può ben capire come Michelangelo, nella sua lunga vita, cercasse di esercitare la sua professione di artista tra mille difficoltà create da una situazione socio politica che vide da un lato il fallimento degli ideali della Firenze repubblicana e dall’altro l’ascesa al papato dei Medici, che si mostrarono non meno deludenti dei loro predecessori, fatti a cui seguirono l’esecuzione di un inquietante Giudizio Universale e degli affreschi della Cappella Paolina: opere criptiche, ricchissime di elementi autobiografici e spirituali che rivelano come l’artista non fosse affatto in sintonia con la scelta da parte della Chiesa romana di aderire ai rigidi schemi della Controriforma cattolica a spese di un rinnovamento in senso più riformista e luterano, a cui peraltro si era rivolta altra parte della civiltà occidentale. Come hanno esaminato gli studiosi, e in particolare Massimo Firpo, la crisi religiosa del tempo e gli orientamenti di natura eterodossa di Buonarroti hanno trovato espressione negli affreschi della Conversione di san Paolo e della Crocifissione di san Pietro, eseguiti durante le prime riunioni del Concilio di Trento, e anche in alcuni disegni e nelle ultime Pietà da lui scolpite.
Così tra crisi politiche e religiose, malumori, tensioni personali e creative, e la ricerca di committenze il più possibile consone al suo operare e in grado di offrirgli quella sicurezza economica che gli permettesse anche di contribuire al mantenimento dei parenti e alla ricostruzione del benessere economico e sociale della famiglia, possiamo comprendere come lo scrivere poesia sin dalla giovinezza avesse saputo liberare la sua sensibilissima indole visionaria dai doveri delle commissioni e dalle pesanti delusioni della vita. Infatti proprio la poesia sarebbe divenuta il nutrimento della sua anima e un diario intimo e segreto ricco di contenuti, particolarmente prezioso e rivelatore delle vicende affettive e creative degli ultimi decenni romani, epoca dei suoi più grandi amori, Tommaso de’ Cavalieri e Vittoria Colonna, due straordinarie personalità dai forti interessi culturali e artistici. D’altra parte Condivi nella Vita di Michelangelo racconta proprio della passione dello scrivere versi da parte del Maestro: «a questo ha atteso più per suo diletto che perché egli ne faccia professione».
Il geniale artefice ha nutrito con il proprio più intimo universo le opere eseguite «per diletto», opere dove trionfa l’amore; tra queste opere rivelatrici vanno a nostro avviso annoverate, oltre alle Rime, il Cupido dormiente, che non ebbe in realtà un committente e che l’artista cercò di ricomprare con ogni mezzo, e i disegni d’omaggio agli amati e alle amate, eseguiti sotto la spinta della pura passione, peraltro legati all’opera in versi.

2. Le Rime e l’esoterismo di una vita votata all’amore

Ci sembra dunque che il genio michelangiolesco, diversamente da quello leonardesco, rispondendo al platonismo, aderisca a una estetica della materia che, più che esprimere nel proprio sembiante la leggerezza della dissolvenza formale per addizione, rafforza paradossalmente la propria evidenza per sottrazione, poiché le idee si calano nella materia e se ne servono per rendersi manifeste e sprigionare tutta la loro energia, a spese della materia stessa che denuncia tenacemente la propria resistenza e pesantezza. In questo senso Michelangelo si fa portavoce di una filosofia del negativo a favore dello spirito.
Alle attitudini del neoplatonismo anche le abitudini di vita e gli interessi dottrinali di Buonarroti andranno ricondotti. Condivi sottolinea alcuni costumi spirituali che il Maestro adottò sin dalla sua prima giovinezza, legati a una sua condotta di vita che rispondeva ad esigenze intime, come la fede nella divinazione, nell’astrologia e nei sogni profetici, mettendo in evidenza la natura del suo animo visionario, che attraverso Platone giustificava metafisicamente se stesso.
Gli scritti, insieme alle opere visuali ad essi connesse, ci parlano, attraverso modalità oscure e misteriose, proprio di questo carattere esoterico dell’uomo; e così dal momento che il linguaggio michelangiolesco, come dicevamo, si cela e si svolge nel sincretismo delle immagini che prendono forma anche nei versi, questi ultimi si prestano a divenire costituzionalmente gli ideali contenitori di pensieri e concetti ritenuti anticonvenzionali e sconvenienti, perfettamente in linea con le esigenze estetiche e i conseguenti sviluppi della creatività michelangiolesca.
Come abbiamo analizzato nei nostri più recenti studi, nelle Rime si rileva la penna di un grandissimo poeta in grado di rielaborare gli spunti tratti dalle antiche dottrine e anche dalla scienza che, grazie a Nicolò Copernico che Michelangelo ebbe forse modo di ascoltare direttamente, stava per rivoluzionare l’intera visione del mondo: oltre all’astrologia emergono precisi riferimenti all’alchimia, alla magia, alla divinazione, all’ermetismo, all’orfismo, alla cosmologia, da cui l’artista trasse immagini stimolanti e ricche di potenzialità fantastiche, ma anche occasioni per esprimere il proprio libero pensiero che in altro modo sarebbe stato censurato. Ad esempio, a proposito dell’astrologia, osserviamo che Condivi narra che Michelangelo nacque il 6 marzo del 1475, «quattr’ore innanzi al giorno, in lunedì. Gran natività certamente, e che già dimostrava quanto dovesse essere il fanciullo, e di quanto ingegno; perciocché avendo Mercurio con Venere in seconda nella casa di Giove ricevuto con benigno aspetto, prometteva quel che poi è seguito, che tal parto dovesse essere di nobile ed alto ingegno, da riuscire universalmente in qualunque impresa, ma principalmente in quelle arti che dilettano il senso, come pittura, scultura, architettura». Questo brano ci sembra davvero tra le più preziose testimonianze di quanto l’astrologia, e in questo particolare caso la genetliaca, fosse tenuta in certa considerazione dall’artista: abbiamo sottolineato nei nostri studi che per alcune importanti Rime rivolte agli amati egli seppe trarre molti felici spunti dalla conoscenza del proprio oroscopo da noi accuratamente stilato ed esaminato, e anche dagli assiomi più importanti di questa antica sapienza che divenne dunque per lui fonte di ispirazione artistica.
Condivi ci narra di seguito anche un altro e non meno singolare episodio che, a nostro avviso, chiarisce il motivo per cui l’artista lasciò Firenze per Bologna nel 1494, poco prima della caduta dei Medici: temendo per la propria persona, egli abbandonò la città affidandosi alla visione di un sogno premonitorio. Nella biografia leggiamo infatti che dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, avvenuta nel 1492, il musico di casa Medici, soprannominato Cardiere, continuava a frequentare il figlio di lui, Piero. Il Cardiere confidò a Michelangelo di avere visto in sogno il fantasma di Lorenzo, con una veste nera e strappata, che lo ammoniva di avvertire il figlio Piero di una imminente caduta. L’artista, non ancora ventenne, avrebbe così prestato fede alla premonizione del poeta, andandosene da Firenze per rifugiarsi a Bologna, dove venne ospitato, per più di un anno, da Gianfrancesco Aldrovandi, uno dei sedici uomini del Governo, facendo ritorno nella città toscana solo durante la Repubblica: «Michelagnolo…tenendo la visione per certa, di lì a due giorni, con due compagni, di Firenze si partì, e andossene a Bologna e di lì a Vinegia, temendo, che se quel che ’l Cardiere prediceva venisse vero, di non essere in Firenze sicuro. […] In questo la Casa de’ Medici con tutti i suoi seguaci di Firenze cacciata, se ne venne a Bologna, e fu alloggiata in casa de’ Rossi: così la vision del Cardiere o delusion diabolica o predizion divina o forte immaginazione che ella si fosse, si verificò: cosa veramente meravigliosa, e degna d’essere scritta: la quale io, come ho dallo stesso Michelagnolo intesa, così ho narrata». Nelle poesie Michelangelo ricorda che durante l’oscuro sonno, quindi attraverso il sogno, l’uomo può elevarsi, attingendo dalla sfera divina e divinatoria e dunque alla più altra virtù; ad esempio, egli definisce la Notte «dolce tempo, benché nero», «dall’infima parte alla più alta / in sogno spesso porti, ov’ire spero», sottolineando poi in chiave orfica che la notte è «ombra del morir», poiché essa esercita alla morte, proprio come si leggeva nell’Inno Orfico Al Sonno, testo verso cui già Ficino mostrò particolare interesse e al quale Michelangelo sembra richiamarsi per la propria lirica. Abbiamo inoltre osservato come Buonarroti verseggi del furor d’Amore, che induce la perdita di sé, attraverso cui Eros, il daimon platonico, mediatore tra Dio e l’uomo, può scendere a noi per indirizzarci alla virtù celeste e alla contemplazione della vera bellezza, dunque per ispirarci l’arte sublime e la divinazione o furor, di cui sempre lui è maestro: «Non mi posso tener né voglio, Amore, / crescendo al tuo furore, / ch’i nol te dico e giuri; / quante più inaspri e ’nduri, / a più virtù l’alma consigli e sproni».
Dunque, insieme alla importante biografia di Condivi, le Rime non solo ci aiutano a comprendere sino in fondo le opere visuali, bensì ci invitano a scoprire i lati dell’uomo veramente unici e altrimenti insondabili. Il Maestro aveva iniziato a poetare sin dalla giovinezza quando leggeva la Commedia di Dante con il commento in chiave neoplatonica di Landino, e la Bibbia nella versione platonizzata di Ficino e gli altri poeti a lui contemporanei come Lorenzo de Medici e Poliziano, Benivieni e Pico, e i testi e le traduzioni ficiniane nutrite di certa poesia, in equilibrio tra filosofia ed esegesi. Il suo animo era alla ricerca del divino calato nelle cose terrene, alla ricerca di quell’Amore attraverso il quale Dio si fa conoscere nella nostra peregrinazione terrena tra vizio e virtù, tra tormento ed estasi, tra peccato e redenzione, tra invito e divieto; alla ricerca della bellezza che infine mostra inevitabilmente il suo duplice volto, trasformandosi per l’artista in principio di dolore metafisico, poiché espressione della contraddizione tra il divino, che attraverso la creazione scende nella materia, e la materia che a sua volta dovrebbe contenerlo e raccontarlo al cuore dell’uomo: ecco allora che in Michelangelo il valore semantico delle opere oltrepassa, con modalità infinite, i confini formali dell’immagine e della parola. Quindi le Rime risultano ricche di misteri, divenendo esse il luogo del nascondimento del poeta e della rivelazione per colui che sa aprire il proprio animo al misticismo più spinto, il luogo dove lo scrittore ama celarsi, facendo sparire ogni semplicità, per esercitare le proprie avventure intime al riparo da un mondo spesso ostile, nel quale, come egli scrive, «’l danno e la vergogna dura», il modo per parlare della possessione del suo essere consumato dall’Amore2, attraverso il quale il divino infinito penetra nel finito, per esprimere nascostamente il desiderio di rinnovamento spirituale in contrapposizione alle forzature dei dogmi e delle più elevate gerarchie, spesso ostili alla Verità3, poiché l’ispirazione divina e l’amore si comunicano in modo immediato alla coscienza individuale senza necessità di intermediari.
La percezione dell’infinito si muta in scultura nella filosofia del non-finito, che diviene progressivamente il non-finito che guarda all’infinito e che sembra ad un certo punto prevalere, sino a impossessarsi dell’artista che non può che esprimersi incompiutamente e nel singhiozzo di fronte alla propria debolezza fisica, all’inferiorità umana piegata dalla morte imminente, dall’imminente incontro con Dio.
Come i corpi affrescati sulle pareti della Sistina si deformano in modo poderoso, poiché non riescono a contenere il divino, ecco che i versi delle Rime risultano spesso inesplicabili, eppure tanto ricchi da concentrare più prospettive di senso, anzi eccedendo di senso, e in questo plusvalore semantico, in questa semanticità esplosiva calata in una veste linguistica contratta, difficile, si celano le pieghe più segrete dell’uomo, la sua memoria spirituale e artistica, l’oblìo di tutte le sapienze sapientemente triturate, evocate per ispirazione nella creazione di versi nuovi, che annunciano certo il manierismo e il barocco, ma anche il romanticismo e l’espressionismo, spingendosi verso una modernità che seppe cogliere il Foscolo, il primo che, rendendo omaggio al talento poetico di Buonarroti, in verità senz’altro si rispecchiò creativamente in alcune brecce aperte proprio dal linguaggio del genio michelangiolesco, senza età, vittorioso sul tempo e sulla morte, vittorioso attraverso l’arte. Ecco dunque che la parola poetica si fa custode dei segreti più intimi della mente michelangiolesca, di istanze future di scrittura, di una modernità talvolta incompresa fino in fondo, di una polivalenza semantica che spinge a letture molteplici, tra sacro e profano, tra cristianesimo e paganesimo, tra ortodossia ed eterodossia4.

3. 1534-1564. Gli anni romani. Il legame sentimentale con Vittoria Colonna e il paolinismo

Il tema del furor divino (o arte divinatoria) sul quale i neoplatonici scrivevano in relazione alle sue quattro forme (poetico, sacerdotale, profetico, amoroso) così come riferiva Platone nel Fedro, furor da cui dipende l’arte stessa e in particolare la poesia, poiché, come ricordava Landino nel suo Commento alla Commedia dantesca, «chi senza questo divino furore tenta divenire poeta indarno s’affatica», interessa, a nostro parere, tutta l’opera del Buonarroti, trascorrendo dall’ambito classico a quello cristiano. Alle forme di furor visualizzate dal Maestro attraverso l’esecuzione delle sculture giovanili Cupido dormiente (furor amoroso), Cupido Apollo (furor profetico) e Bacco ebbro (furor sacerdotale), eseguite proprio in questa successione cronologica, precisamente tra 1496 e 1497, si affiancano le Sibille del mondo greco e i Profeti del mondo giudaico della volta della Cappella Sistina, ma con la Conversione di Saul sulle pareti della Cappella Paolina l’artista sembra risolvere di nuovo ogni contrasto, rivelando da un lato il legame mai spento con il neoplatonismo - poiché per i neoplatonici san Paolo è il visionario per eccellenza, l’ispirato che è giunto alle più elevate sfere della contemplazione permessa all’uomo sulla terra - dall’altro con la Bibbia e il messaggio dell’Apostolo protagonista di una delle più importanti conversioni della storia della cristianità. Nell’affresco della Paolina, realizzato tra 1541 e 1545, Michelangelo si ritrae infatti in Saul / Paolo che cade cieco sulla via di Damasco, e l’opera si presenta come un importante manifesto teologico e poetico, che sembra andare oltre la cecità autobiografica di cui il Maestro ci parla nelle Rime più spirituali. Michelangelo ritrae se stesso nelle vesti dello zelante fariseo proprio nel momento fondamentale in cui Paolo incontra Dio, come dicevamo, nel momento del raptus Pauli, esaltato dai neoplatonici come condizione di rapimento estatico che induce lo svenimento o perdita dei sensi, lo spossessamento di sé per effetto dell’Amore, rappresentato peraltro dal Maestro in alcune opere attraverso la disarticolazione delle membra, come ne Il ratto di Ganimede o nel piccolo Cupido dormiente dei Saettatori che tirano verso un’erma, o nella figura del Bambin Gesù della Madonna della Scala o della Madonna del Silenzio e del Cristo morto della Pietà Bandini, dunque verseggiato nelle Rime come esito del furor divino, una passione o condizione dello spirito che induce l’uomo a divenire impotente perdendo se stesso, a causa del rapimento estatico nel contatto con Dio.
Michelangelo si identifica dunque in san Paolo per differenti ragioni, a cagione della conversione che sopraggiunge inaspettata nel corso del cammino in terra; della complessa esperienza fisica e spirituale che sottende alla conversione per l’esclusività del dono divino offerto a un uomo che riceverà la grazia conoscendo la propria trascorsa cecità spirituale e i propri errori passati; dell’energia interiore associata alla parola, emanazione del fuoco divino, che induce l’uomo a scegliere la strada della fede e dell’apostolato. L’identificazione con san Paolo risulta essere dunque molto profonda e articolata per ragioni personali, mistiche e religiose; inoltre le similitudini tra i fondamenti del paolinismo e i principali argomenti del mondo poetico dei Sonetti michelangioleschi, il cui linguaggio è ricco di termini misterici che attestano una assimilazione e rielaborazione, da parte di Buonarroti, delle parole di san Paolo contenute nella Bibbia, induce a rilevare la convergenza nella poesia e nell’arte michelangiolesca delle antiche dottrine pagane e del Cristianesimo, poiché il Maestro, con il suo animo visionario e in continuo fermento spirituale, sembra essersi fatto straordinario interprete dell’assimilazione che viene a configurarsi tra i misteri orfici e la mistica paolina.
La Conversione di Saul nasce durante la frequentazione di Vittoria Colonna, conosciuta a Roma nel 1537, con la quale egli condivise l’esperienza spirituale di quegli anni.
Già lo studioso Glauco Cambon nei suoi fondamentali studi sulla poesia di Michelangelo, accennava a un collegamento tra i versi dedicati a Vittoria, in cui il poeta si definisce «come chi ’l ciel non vede, / che per ogni sentier si perde e manca», augurandosi di vivere «men cieco», e l’affresco della Paolina in cui «Saul-Michelangelo viene accecato da quella luce che non è ancora pronto a ricevere». D’altra parte l’artista si accingeva a decorare la Cappella Paolina in piena Controriforma: l’uomo vecchio si spogliava e quello nuovo si rivestiva di Dio, ma non in senso controriformista, bensì il «cangiar sorte» per «sol poter divino» si collegherebbe alla sensibilizzazione religiosa paolina che proprio in quegli anni veniva estremizzata dal credo luterano; lo stesso Cambon metteva in luce il cattolicesimo non conformista e la dialettica interiore degli ultimi componimenti michelangioleschi, dove tra l’altro leggiamo «Signor mie caro, tu sol che vesti e spogli, / e col tuo sangue l’alme purghi e sani / da l’infinite colpe e moti umani…».
La Controriforma, dal canto suo, si poneva contro i riformatori evangelici d’oltralpe e dunque contro quello stesso gruppo italiano degli «Spirituali», amici di Juan de Valdés, al quale apparteneva Vittoria Colonna, gruppo che guardava a Michelangelo come a una guida. Non sarebbe dunque corretto far dipendere Michelangelo dalla Colonna e dai teologi amici di lei, anche se fu il profondo amore per Vittoria a dare impulso allo scambio artistico tra i due e alla stessa ispirazione creativa di Buonarroti. Riteniamo infatti che molteplici influenze contribuirono a formare la spiritualità del genio michelangiolesco, la cui ricerca del divino, e con esso dei misteri dell’amore e della morte, fu talmente potente che può essere considerata connaturata alla sua stessa persona. Il Maestro sin da giovane fu attratto da un modo di vivere dalle forti connotazioni spirituali, avvicinandosi al neoplatonismo per giungere alla meditazione sulla ricerca mistica portata avanti da Fra Bernardino Ochino; questi insieme agli altri personaggi che ruotavano intorno al Valdès, non fece che arricchire di contenuti teologici il rapporto artistico tra Michelangelo e Vittoria. Ricordiamo che Ochino ammirava pure Platone, definito da lui stesso «divino» e Michelangelo, a maggior ragione, deve essersi rispecchiato nella ricerca mistica del frate per sensibilità e formazione; il padre cappuccino era uno spiritualista indifferente ai dogmi e all’organizzazione ecclesiastica, egli insisteva sul tema dell’amore e dell’entusiasmo mistico, sull’importanza della riforma dell’uomo interiore e sul rispetto della legge morale, tutte attitudini che furono proprie dell’anima di Buonarroti.
La conquista della salvezza «per giustificazione per fede», di natura protestante, e l’identificazione nel Cristo crocifisso e nel suo sacrificio d’Amore sono alcuni dei temi attorno cui ruotano le Rime spirituali in cui Michelangelo descrive la ricerca di Dio attraverso la propria condizione di peccatore che sa tessere inni, testimonianze di una passione mistica scaturita dal pentimento e dal riscatto della colpa. Il sacrificio fatto da Cristo, che si fa ricettacolo della morte di Vittoria Colonna, conduce infatti il Maestro a concepire definitivamente l’Amore in morte: il percorso michelangiolesco si conclude così con il trionfo dell’Amore per il Cristo crocifisso, quando l’artista, rinnegando e deridendo la propria stessa arte «carica d’errori», trasforma le poesie in preghiere, domandando perdono perché si definisce «Carico d’anni e di peccati pieno».
Come era avvenuto ai tempi degli innamoramenti giovanili, la comunione con l’amato, in questo caso Gesù, porta allo spossessamento di sé, nella speranza dell’eterna beatitudine. Ancora una volta l’Amore non può che condurre all’estasi e alla perdita di sé per rivestirsi dell’uomo nuovo: «Signor, nell’ore streme, / stendi ver’ me le tuo pietose braccia, / tomm’a me stesso e famm’un che ti piaccia».

4. Conclusioni. Michelangelo ‘teurgo’ d’Amore

In relazione al profondo e complesso legame che Michelangelo instaura con la figura di san Paolo, vogliamo ricollegarci a un motivo poetico da noi rilevato ed esaminato nei nostri studi trascorsi, per cui il Maestro si descrive come un serparo di ascendenza paolina, dotato della cosiddetta ‘grazia di san Paolo’, ossia l’incolumità dai serpenti velenosi posseduta dall’Apostolo, come si legge nella Bibbia: in alcuni brani delle Rime il Maestro si attribuisce i talenti di quegli uomini, che, secondo le testimonianze scritte di metà Quattrocento, viaggiavano in gran parte d’Italia con la specifica denominazione di «uomini di San Paolo», dotati di qualità antiofidiche.
D’altra parte l’immagine della serpe connessa ad Eros, fulcro indiscusso di tutto il percorso esistenziale e artistico buonarrotiano, diviene tappa decisiva dell’universo estetico delle Rime dove il poeta si attribuisce i poteri dell’Amore o di Cupido, il semidio che se da un lato vince gli animali feroci, facendoli innamorare, dall’altro è anche il daimon platonico che possiede l’arte medica, il cui attributo è proprio il serpente mercuriale. Così abbiamo rilevato che Michelangelo non solo dichiara di poter vincere la ritrosia amorosa con l’amore, come questo vince il morso velenoso dei serpenti5, bensì, rivolgendosi a Tommaso Cavalieri, sostiene di avere imparato a neutralizzare con la propria saliva ogni tipo di veleno, alla stregua di un mago che compie incantesimi rituali: «Sicur con tale stampa in ogni loco / vo, come quel c’ha incanti o arme seco, / c’ogni perielio gli fan venir meno. / I’ vaglio contr’a l’acqua e contr’al foco, / col segno tuo rallumino ogni cieco, / e col mie sputo sano ogni veleno». Insomma i suoi poteri taumaturgici in campo erotico spaziano dai gesti di amore, che possono vincere ogni pungente asprezza comportamentale, alle pratiche di guarigione tramite l’uso della saliva, o «sputo»6.

uc?export=view&id=1RZBlj4OW5pLLkLtBP-LpTsYH2NVZ3Jwv

Come dicevamo, questi talenti magici e miracolosi che il Maestro arriva ad attribuirsi e che ci inducono in questa sede a definirlo teurgo7 d’Amore, non vanno disgiunti dall’elaborazione profonda dell’immagine del serpente ‘erotico’ che offre al poeta gli spunti per lo sviluppo di importanti filoni tematici, come quelli della muta della pelle e del mortale veleno, caratteristiche dell’animale che vivacizzano la fantasia buonarrotiana, di cui il disegno Testa di Cleopatra, regalo per Cavalieri, è sublime sintesi8.
Grazie alla muta d’amore, tema che seguirà una particolare evoluzione a seconda dell’ambito neoplatonico o cristiano in cui viene a contestualizzarsi, il poeta arriva ad affrancarsi nell’ultima pelle, quella che sfocia nella morte e nella comunione con il Cristo: Michelangelo giunge ad assimilarsi alla serpe che attraverso il «loco stretto» si sveste della «scorza», rinnovandosi, per un riparo più sicuro in morte, poiché a confronto di questa tutto il resto si annulla9.
L’ultima trasformazione, relativa al passaggio dalla vita alla morte, implica l’abbandono definitivo delle tristi usanze terrene per ottenere uno scudo più robusto ed eterno attraverso l’amore divino: solo l’amore divino appaga il desiderio di totalità che ogni amore terreno delude, inducendo il poeta a mutare attraverso l’ultima «teurgia» salvifica.
Insieme alla muta, anche il tema del morso velenoso naturalmente chiama a sé la funzione purificatrice e teurgica del poeta, che si appoggia in questo caso alla tradizione paolina; infatti se Amore guarisce ferendo (come leggiamo «Del fiero colpo e del pungente strale / la medicina era passarmi ’l core; / ma questo è proprio sol del mie signore, / crescer la vita dove cresce il male»), se medicina e malattia arrivano a coincidere, poichè è caratteristica del veleno viperino uccidere e curare al tempo stesso, ecco che il Maestro ha acquisito il potere di combattere la malattia d’amore avendo conosciuto a fondo la natura di quell’avvelenamento10, giungendo dunque a possedere l’arte medica e alchemica di Eros daimon platonico. Una teurgia, quella che il Maestro immagina di esercitare, in forza della sua «trista usanza» al peccato, ossia del sempre vivo e rinverdente amore.
Ma crediamo che la vera teurgia michelangiolesca sia quella scaturita dalla fede nell’atto creativo non disgiunto dal furor, ossia dall’Amore che tutto vince, tutto cura e tutto lega, superando ogni dissidio, ogni differenza di sesso, di filosofia, di religione, superando lo stesso concetto di eresia nella sublimazione del vivere e dell’avventura artistica. Michelangelo, dopo avere constatato che nel mondo regnano «il danno e la vergogna» senza fine, ha deciso di fare della propria arte il luogo di ogni conciliazione, e dunque anche di ogni abile occultamento, stracciando tutti i limiti posti alla libertà umana a cura della propria anima.
Concludiamo allora con le parole di uno dei più importanti critici e poeti del Novecento, Piero Bigongiari, che, a proposito di Buonarroti, così si è pronunciato: «Che cosa c’è da sopportare, quando nella contraddizione cade la «ragione» stessa della contraddittorietà e gli opposti sono, l’uno, l’altro? L’energia di quell’amore non ha più una direzione, perché ha superato il proprio contenente, la propria massa inibente: ed è forma stessa che straccia la propria materia, oltrepassandola».

Bibliografia specifica

  • Erwin Panofsky, Studi di Iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento, Einaudi, Torino 1975 [I edizione 1939] (capitoli: Il movimento neoplatonico a Firenze e nell’Italia settentrionale; Il movimento neoplatonico e Michelangelo).
  • Walter Binni, Michelangelo scrittore, Einaudi, Torino 1975.
  • Piero Bigongiari, Dal Barocco all’Informale, Cappelli, Bologna 1980 (capitolo: La forma e l’invisibile).
  • Edgar Wind, Mystèries Païens de la Renaissances, Gallimard, Paris 1992 (capitoli: L’Amour en dieu de la mort; Un mystère bachique de Michel-Ange).
  • Glauco Cambon, La poesia di Michelangelo. Furia della figura, Einaudi, Torino 1991.
  • Emidio Campi, Michelangelo e Vittoria Colonna. Un dialogo artistico-teologico ispirato da Bernardino Ochino, Claudiana, Torino 1994.
  • Edgar Wind, Elizabeth Sears, The religious symbolism of Michelangelo: the Sistina Ceiling, Oxford University Press, New York 2000.
  • Antonio Forcellino, Michelangelo Buonarroti. Storia di una passione eretica, Einaudi, Torino 2002.
  • Georg Simmel, Michelangelo, Abscondita, Milano 2003.
  • Corinne Lucas, Figures sans visages, figures de dos, poesie sans images dans l’œuvre de Michel-Ange, in «Chroniques italiennes», 6 (Série Web), 2004.
  • Gianna Pinotti, Michelangelo ritrovato. Il Cupido dormiente con serpi di Mantova: un percorso tra iconologia e storia, Edizioni La Cronaca, Mantova 2005.
  • Roy Doliner-Benjamin Blech, I segreti della Sistina. Il messaggio proibito di Michelangelo, Rizzoli, Milano 2008.
  • Maria Forcellino, Michelangelo, Vittoria Colonna e gli «spirituali». Religiosità e vita artistica a Roma negli anni Quaranta, Viella, Roma 2009.
  • Massimo Firpo, Storie di immagini, immagini di Storia. Studi di iconografia cinquecentesca, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2010 (capitolo: Il Cristo in croce di Michelangelo per Vittoria Colonna tra Roma e Bologna).
  • Ambra Moroncini, Le Rime spirituali di Michelangelo e gli affreschi della Cappella Paolina: cangiar sorte per sol poter divino, in «Chroniques italiennes», 23 (Série Web), 2-2012.
  • Massimo Firpo, La Cappella Sistina e la Cappella Paolina. Michelangelo tra riforma e crisi religiosa, Laterza, Roma-Bari 2013.
  • Gianna Pinotti, Michelangelo e l’Amore tra letteratura e Bibbia, Gazebo Libri, Firenze 2014 (capitoli: Il Furor Amoris; Astrologia ed Eros; Michelangelo cosmologo; La notte divinatoria; Eros tra consunzione ed eterna giovinezza, androginia e castità; La metempsicosi; L’eredità paolina; Michelangelo «serparo» di san Paolo).
  • Massimo Firpo, Fabrizio Biferali, Immagini ed eresie nell’Italia del Cinquecento, Laterza, Roma-Bari 2016 (capitolo: Michelangelo a Roma).

Article written by Gianna Pinotti | Ereticopedia.org © 2015-2016

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

thumbnail?id=1_usu8DkYtjVJReospyXXSN9GsF3XV_bi&sz=w1000
The content of this website is licensed under Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0) License