Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444
Luisa Bergalli Gozzi (Venezia, 16 aprile 1703 – Venezia, 18 luglio 1779) è stata una scrittrice dai vari interessi: poetessa, drammaturga, traduttrice, studiosa.
Due ritratti, inseriti nell’antiporta di volumi da lei realizzati, ci consentono oggi di conoscere i lineamenti di Luisa Bergalli durante la giovinezza e la maturità. Quasi a voler aprire e chiudere sotto la comune insegna dell’omaggio iconografico la lunga vita letteraria (dal successo, peraltro, assai altalenante) della scrittrice, i medaglioni che racchiudono il suo volto fregiano il tomo primo dei Componimenti scelti delle più illustri rimatrici, uscito a sua cura nel 1726, quando era poco più che ventenne, e la traduzione (con testo originale a fronte) delle tragedia Le amazzoni di Madame du Boccage (in questo caso, l’immagine di Luisa è posta accanto a quella della scrittrice francese; l’anno è il 1756).
Il confronto, inevitabile, tra le due rappresentazioni (che fra l’altro, se idealmente accostate, sembrerebbero ‘guardarsi’ e cercare conferma l’una nell’altra, visto che l’inclinazione del collo e la direzione dello sguardo sono opposte) riconosce a Luisa ventitreenne l’attrattiva della gentilezza, se non di una manifesta avvenenza; nel volto delicato e sottile, sfumato appena da un sorriso interiore, risaltano gli occhi: grandi e intensi, eppure lontani, assorti in una’indefinibile trasognatezza. Al contrario, la donna che, a distanza di decenni, offre la propria immagine alla curiosità dei lettori, non appare solo gravata dall’appesantimento che spesso si accompagna all’avanzare del tempo, ma anche, in un certo modo, ‘ancorata’ alla concretezza: lo sguardo è più fermo e nitido, come se ormai fosse avvezzo a misurarsi con le evidenti asperità del quotidiano, e non potesse né volesse concedersi più alcun indugio nell’illusione; il sorriso permane, ma anch’esso, privo dell’impalpabile leggiadria che anima il ritratto del 1726, rischia di somigliare a una semplice piega delle labbra.
Tale differenza, imputabile in primo luogo all’oggettivo e fatale mutamento imposto dallo scorrere degli anni (nonché forse, in aggiunta, alla maggiore o minore felicità di tocco dei due artisti; ma del resto, è tanto più semplice raffigurare la giovinezza!), rispecchia peraltro la parabola declinante che tramutò Luisa da nota poetessa arcade (il suo pseudonimo era Irminda Partenide), pupilla di Apostolo Zeno e valente traduttrice, in una madre di famiglia che, tenace nel perseguire le proprie aspirazioni nonostante i doveri imposti dal nuovo status, venne infine offuscata sul proscenio delle lettere dal marito, Gasparo Gozzi.
Potrebbe sembrare semplicistico far coincidere il crepuscolo della celebrità di Luisa con le sue nozze; tuttavia, non si può non constatare come il 1738, anno in cui, il giorno 8 luglio, si unì al maggiore dei fratelli Gozzi, segni una sorta di spartiacque nella sua esistenza.
Prima del matrimonio – cuì arrivò, essendo nata il 16 aprile del 1703, all’età di trentacinque anni: età in qualche modo simbolica, stante l’autorità dell’Alighieri, e indicativa del raggiungimento di un traguardo (ma, molto più modestamente e banalmente, ritenuta troppo avanzata dai contemporanei e dai parenti prossimi, visto che Gasparo era ventiquattrenne) – Luisa aveva visto le sue liriche accolte in varie sillogi; a soli vent’anni aveva inoltre portato sulle scene a San Moisè un melodramma, Agide re di Sparta, la cui affermazione, sapientemente orchestrata dal mentore Apostolo Zeno, era stata sostenuta dalle recensioni favorevoli apparse nel Giornale dei letterati (il poeta cesareo, del resto, ne era il fondatore nonché uno dei collaboratori principali). Tale passione per il teatro, precocemente siglata da un pubblico riscontro, si mantenne costante lungo gli anni successivi, coinvolgendo sia un’attività originale di scrittura sia la traduzione. Nel primo ambito, in qualità di autrice, Luisa raggiunse i risultati migliori con La fortuna del poeta (1730): appare probabile che nei due personaggi principali, il poeta e la sorella che gli sta accanto, Luisa proiettasse caratteristiche di sé, ossia l’amore verso le lettere e la laboriosità, paziente e continua. Nelle vesti di traduttrice, Luisa consegnò inoltre alle stampe – l’anno è il 1733 – la sua versione delle commedie di Terenzio.
Non solo poetessa, dunque, ma donna colta, capace di misurarsi con il latino (e al riconoscimento dell’altezza dei suoi studi, Luisa, che era riuscita a ottenere una raffinata formazione nonostante le mancasse l’ausilio di una famiglia aristocratica o ricca, tenne sempre moltissimo); tanto colta che, nel 1738, mostrò l’ampiezza dei suoi interessi e delle sue capacità dedicandosi a un’altra curatela (la seconda ‘al femminile’ dopo la silloge del 1726, in cui trovano posto e, finalmente, luce, i versi delle rimatrici attive nella penisola dal Duecento sino all’età contemporanea), ossia una nuova edizione delle Rime di Gaspara Stampa. Edite nel 1554, un anno dopo la morte dell’autrice, per volere della sorella Cassandra, le Rime di Gaspara vennero dunque proposte al pubblico dei lettori, ancora una volta e dopo un protratto oblio, per una volontà di donna. È indubbio che Luisa si sentisse accomunata alla poetessa padovana; le univa principalmente l’orgogliosa rivendicazione del proprio talento e la fierezza di riuscire ad affermare se stesse grazie ad esso; in secondo luogo, una sottile affinità sentimentale: ad appoggiare Luisa in questa sua impresa di cultura fu Rambaldo di Collalto, discendente del conte Collaltino, amato da Gaspara; per il nobiluomo, sensibile alla memoria dell’antenato e quindi disponibile a ravvivare la gloria di colei che lo aveva cantato, Luisa dovette provare una qualche inclinazione.
Ma si è ormai al 1738, e Luisa, come si accennava, aggiunge a Bergalli il cognome Gozzi. Insieme all’anello nuziale, Gasparo (del cui slancio e attaccamento a Luisa non è possibile dubitare, vista l’intensità del corteggiamento che le dedicò, culminante nella stesura di un canzoniere in suo onore, e la fermezza con cui affrontò le esplicite riserve dei congiunti) le donò sia se stesso sia l’ingombrante fardello di una famiglia numerosa e di frequente ostile. Gli attriti massimamente aspri si verificarono fra Luisa e la suocera, Angela Gozzi Tiepolo, il cui carattere imperioso e accentratore, che la rendeva temibile agli occhi dei figli, non poteva non risultare opprimente per l’indole autonoma della nuora; da non trascurare poi la malevolenza di cui Luisa venne fatta oggetto a opera del cognato Carlo che, esasperando le critiche di quanti la giudicavano, anche in ragione della sua produttività, una scrittrice disordinata e piuttosto approssimativa, non solo la taccia di trascuratezza, ma persino la identifica, in un passo delle sue graffianti Memorie inutili, con l’errore supremo commesso dal fratello: per la famiglia Gozzi, non troppo agiata, il legame con Luisa, che non recava in dote né grande bellezza né ricchezza, ma solo la fede nel proprio intelletto e nelle Muse, rappresentava un ulteriore, inutile e pindarico affondo nell’insensatezza. Di ben altro, secondo Carlo, ci sarebbe stato bisogno, che non di fogli vergati dall’inchiostro dell’ambizione, in una casa già traboccante di letterati: Luisa, a dire del cognato, se non inoculò fra i Gozzi il veneficio della poesia, di certo lo aggravò.
Impietoso e testardo nell’alterigia di una pregiudiziale ostilità verso la cognata, Carlo Gozzi non formula su di lei un parere equanime. Sebbene egli la accusi, ben poco velatamente, di essere un peso per la famiglia, è indubitabile infatti che Luisa abbia interpretato il suo nuovo ruolo con il medesimo impegno di cui aveva dato prova in precedenza. Pur dovendosi destreggiare fra le incombenze molteplici determinate dalle nascite di cinque figli (due maschi e tre femmine), succedutesi, con cadenza regolare, quasi una all’anno subito dopo le nozze, diede sempre il suo contributo alle risorse di casa Gozzi; lo fece nell’unico modo che conosceva, ossia attraverso la penna.
Stretto con il marito un sodalizio letterario, peccò talora di ingenuità gravi, imputabili al suo desiderio di un riconoscimento finalmente decisivo (e, magari, arricchente): è ad esempio noto l’insuccesso che accolse l’iniziativa, davvero piuttosto improvvida e sconsiderata, in cui attirò Gasparo nel 1756, cioè la gestione del teatro Sant’Angelo. A quest’impresa i coniugi rinunciarono dopo appena due anni; il teatro, disertato dal pubblico, dovette chiudere, e i Gozzi si trovarono a lottare con maggior fatica contro la mancanza di denaro. Comprensibile, a tal proposito, l’irrisione di Carlo, che da memorialista delle sorti familiari dimentica però il tempo trascorso da Luisa alla scrivania, traducendo senza posa dal francese opere talvolta monumentali (fatica il cui merito andava di frequente a Gaspare, co-autore in minima parte), pur di alleviare il disagio di casa sul fronte finanziario.
La gloria che aveva promesso di circondare il grazioso capo di Irminda Partenide al tempo degli esordi parve riaccendersi, con un lampo improvviso, quando, dopo la traduzione della tragedia di Madame di Boccage, Luisa venne omaggiata con una visita dall’autrice in persona.
Tuttavia, questo lampo svanì, dissolvendosi presto sulla linea di un orizzonte ormai offuscato.
Abbandonata dal marito, che trascorse l’ultima parte della sua vita accanto a una giovane sarta, Sara Cenet, dalla cui vicinanza aveva tratto sollievo durante la difficile stagione di una malattia, Luisa affrontò la sua solitudine senza conforti se non se stessa. Accompagnata dalle sue rime – folta è la sua produzione, dal 1760 in poi, di liriche celebrative ad esempio di nozze, genetliaci, monacazioni – grazie ad esse restava presente nella società di cultura cui voleva appartenere, nonché in contatto con il sogno della poesia, suo amore più autentico e durevole.
Ma la tristezza (male di molti scrittori) sopraffece infine anche questa donna determinata e indipendente. Luisa si spense il 18 luglio del 1779, a Venezia. Secondo il referto, morì di ‘morbo nero’.
Bibliografia
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- P.D. Steward, Eroine della dissimulazione. Il teatro di Luisa Bergalli Gozzi, in «Quaderni Veneti», 1994, 19, pp. 73-92.
- L. Ricaldone, La scrittura nascosta. Donne di lettere e loro immagini tra Arcadia e Restaurazione, Paris-Fiesole, 1996, pp. 188-201.
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- F. Soldini, Luisa Bergalli Gozzi, in Carlo Gozzi 1720-1806. Stravaganze sceniche, letterarie, a cura di F. Soldini, Venezia, Marsilio, 2006.
- A. Chemello (a cura di), Luisa Bergalli. Componimenti poetici delle più illustri rimatrici di ogni secolo, Venezia, 1726, ristampa anastatica, Venezia, Eidos, 2006 (contiene in appendice, sempre di A. Chemello, il saggio Il gesto inaugurale di Luisa Bergalli, pp. III-XVI).
- A. Chemello (a cura di), Luisa Bergalli poeta drammaturga traduttrice critica letteraria, Atti del Convegno Luisa Bergalli Gozzi e il suo tempo (Mirano, 7 novembre 2007), Venezia, Eidos, 2008 (racchiude i contributi di A. Chemello, G. Pizzamiglio, F. Soldini, L. Ricaldone, C. M. Samà, R. Cibin, F. Tomasi, F. Favaro, P.C. Begotti).
- G. Pizzamiglio, Sull’antologia poetica al femminile di Luisa Bergalli, in «Quaderni Veneti», 2016, vol. 5, n. 1, pp. 55-67.
Nota bene
Questa voce fa parte della sezione "Dominae fortunae suae". La forza trasformatrice dell’ingegno femminile, che approfondisce il contributo offerto dalle donne alla nascita e allo sviluppo dei diversi campi del sapere.
Article written by Francesca Favaro | Ereticopedia.org © 2017
et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]