Inquisizione in Sardegna

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


L'Inquisizione in Sardegna
di Salvatore Pinna

La persecuzione delle eresie in epoca medievale

La Sardegna medievale, il cui territorio fu suddiviso per secoli in Giudicati o Rennos, eredi dell’impero bizantino e la cui struttura di differenziava dal resto dei regni medievali europei1, non possedeva una struttura apposita per la persecuzione delle eresie.
Alcuni reati (legati all’aspetto più morale che di fede) si riscontrano nei corpora giuridici del XIV secolo, specialmente gli Statuti Sassaresi (1316) e la Carta de Logu (emanata dallo judike Mariano IV De Bas-Serra prima del 1375, data della sua morte, e nuovamente edita da sua figlia Eleonora nel 1392. Rimase in vigore fino all’entrata dello Statuto Albertino nel 1848), entrambi redatti in lingua sarda.
Negli Statuti era previsto il rogo per le donne colpevoli di bigamia, mentre per lo stesso reato gli uomini erano condannati all’impiccagione. Il capitolo CLX condannava alle fiamme le donne che si fossero recate nei bagni pubblici della città nei giorni della settimana riservati agli uomini. Stessa pena era riservata dalla Carta de Logu alle donne che si rendevano colpevoli di avvelenamento, malia o per aver pronunciato parole criminose.
Il cap. CXXVIII comminava una multa ai bestemmiatori di Dio, della Madonna e dei Santi, di ambo i sessi. In caso di mancato pagamento entro la data stabilita, veniva loro infilato un amo sulla lingua fino a strapparla, e la pena della frusta.
In queste leggi, tuttavia, non ci sono riferimenti espliciti alla stregoneria o alla magia. Anzi, la Carta de Logu puniva con una multa di 50 lire coloro che avessero apostrofato qualcuno come majàrgiu (mago). Se la multa non veniva pagata entro 15 giorni, all’incauto accusatore sarebbe stata tagliata la lingua, pro modu chi la perdat (in modo che la perda, così da non essere in grado di reiterare il reato). Il cap. CLXXXIX prevedeva la possibilità di incolpare formalmente qualcuno di stregoneria, ma tale accusa doveva essere corredata da prove stringenti, in assenza delle quali il rogo sarebbe stato riservato all’incauto accusatore.
Le prime tracce di disposizioni più strettamente legate all’inquisizione ecclesiastica si hanno invece in seguito alla conquista catalano-aragonese (iniziata nel 1323), ma sono labili e sporadiche, essendo dovute al mero inserimento della Sardegna nella sfera della Corona de Aragón. L’attività di controllo dell’eretica pravità nella Sardegna medievale fu affidata, secondo direttiva pontificia, prima ai francescani e poi all’Ordo Prædicatorum.
Il compito ai francescani era già stato affidato alla provincia della Toscana da papa Onorio IV con bolla del 18 ottobre 1285, mentre con nomina del 20 dicembre 1328 l’arcivescovo di Arborea Guido Cattaneo, dei Predicatori, veniva nominato inquisitore dell’Isola da parte di Giovanni XXII. Il pontefice si mise in contatto con Cattaneo ancora nel 1333, allorquando gli chiese di cessare le persecuzioni dei francescani sardi. Tale astio durava già da alcuni anni, a causa dell’accoglienza, da parte dei frati, dell’eretico Michele da Cesena, ex ministro provinciale, che aveva mandato alcuni seguaci nell’isola per «sedurre i confratelli». I francescani sardi, dichiarando di aver agito per innocenza e per ignoranza, si erano rivolti al papa per chiedere l’assoluzione. Da alcune missive del sovrano aragonese, si evince il loro pessimo rapporto dell’arcivescovo arborense.
L’unica menzione specifica dell’Isola si ha nella seconda metà del XIV secolo: Giovanni Gomir, priore dei Predicatori nella provincia di Aragona, aveva informato il sovrano Pietro IV della situazione isolana. In seguito a questa missiva il re scrisse, in data 6 ottobre 1359, ai governatori, vicari e ufficiali del Regno di Sardegna. La segnalazione del Gomir riguardava molti "apostati" e "fuggitivi" dall'ordine domenicano, "ribelli" agli ordini dei superiori, che in alcuni casi avevano persino dismesso l'abito. Il sovrano ordinava la loro cattura per consegnarli nelle mani del priore o del suo vicario nel Castello di Cagliari, perché fosse loro inflitta la giusta punizione: «[…] tales apostatas dicti Ordinis fugitivos etiam et rebelles per ipsos priorem aut vicarium puniri debite et corrigi pro praemissis».
Nel 1452 risulta inquisitore generale dell’Isola il francescano Giovanni de Salinis Aureis (nominato vescovo di Ottana due anni dopo), ma non si conosce la data di fine del suo ministero. Nel 1480 risulta incaricato fra Francesco Perera, professore in sacra teologia. Si tratta dell’ultimo inquisitore medievale conosciuto.

L’espulsione degli ebrei dalla Sardegna

Il numero di ebrei residenti in Sardegna nel XIV e XV secolo non è noto con precisione, tuttavia è noto che Cagliari e Alghero ospitavano le comunità più numerose. Si stima che l’aljama di Cagliari raggiungesse le 1000–1200 unità, mentre quella di Alghero era leggermente più piccola, stanziandosi intorno alle 800 unità2.
I primi provvedimenti contro gli ebrei risalgono al 1488, quando il viceré Íñigo López de Mendoça, in accordo con l’arcivescovo cagliaritano Pedro Pilares, emanò una serie di limitazioni al culto giudaico, che doveva essere svolto sempre previa informazione all’arcivescovo. Il Pilares svolse una certa attività inquisitoriale, dal momento che sono documentati procedimenti contro alcuni conversos accusati di giudaizzare3. Questo periodo fu caratterizzato dal doppio fenomeno di immigrazione-emigrazione: se da un lato, in soli due anni, giunsero dalla Provenza più di duecento nuovi ebrei4, nel 1487 è attestata la fuga di parecchie persone che avevano ricevuto il permesso del viceré di imbarcarsi per Napoli.
L’editto di espulsione dall’Isola risale al 28 settembre 1492, con notevole ritardo sulla data prevista dalle disposizioni regie e, di conseguenza, l’impossibilità di rispettare l’ultimatum per l’espulsione da tutti i territori della Corona. L’allontanamento dovette essere completato, o quasi, nel gennaio 1493, quando Ferdinando prese atto di quanto gli era stato precedentemente riferito dal viceré: la relazione sulle licenze di partire, sulla vendita delle dimore lasciate vuote e sulla conversione delle sinagoghe in chiese. Le case, che in teoria avrebbero dovuto essere confiscate dal regio Fisco per poi essere rimesse sul mercato, furono invece vendute dagli ebrei stessi.
Una traccia di conversos condannati si ha dalla lista dei sambenitos compilata durante la visita dell’inquisitore Ribadeneira nel 1613—1614. La maggior parte era residente a Cagliari, Alghero, Bosa, Sassari, Ozieri, Burgos, Torralba, Castelsardo e Iglesias tra il 1486 e il 1513 (Tabella 1). Tale numero è sottostimato in quanto, come dichiarato dallo stesso visitatore, molti sacchi penitenziali erano illeggibili a causa dell’usura dovuta alla loro antichità e alle cattive condizioni ambientali di conservazione.

Città Rilasciati Condannati/riconciliati Uomini Donne Totale
Cagliari 43 31 56 18 74
Alghero 11 4 9 6 15
Sassari 4 24 n.d. n.d. 28
Bosa 2 1 n.d. n.d. 3
Ozieri 1 1 1 1 2
Burgos 1 - 1 - 1
Castelsardo - 1 1 - 1
Torralba 1 - 1 - 1
Iglesias 1 - 1 - 1
TOTALE 64 62 70 25 126

Le origini dell’inquisizione moderna: il tribunale di Cagliari

La vera e propria stagione inquisitoria in Sardegna nacque in seno all’unione tra le Corone di Castiglia e Aragón.
L’istituzione ufficiale di un Tribunale sardo risale al 1493 con la nomina a inquisitore, da parte di Tomás de Torquemada, di Sancho Marín, dottore in Iuris Utriusque originario di Zaragoza. Fino a quell’anno aveva ricoperto la carica di inquisitore del tribunale di Mallorca, che estendeva le sue competenze alla Sardegna5. La nomina risale al 31 marzo 14936, ma l’attività del tribunale incominciò tra il mese di ottobre e novembre successivi.
Anche se non vi furono episodi di ribellione verso il Sant’Uffizio, come in altre parti della Corona, si verificarono numerose rimostranze verso il tribunale, accusato di voler impoverire l’economia isolana: non solo molti giudei conversi erano agiati e ben inseriti nell’economia della società, ma i beni confiscati agli insuisiti non rimanevano nel territorio, andando a ingrassare le casse della Suprema. Il malcontento fece sì che a soli due anni dalla sua nomina, il Marín fosse inviato in Sicilia e al suo posto, nel dicembre 1497, venisse nominato Gabriel Cardona, rettore di Peñíscola7.
La sede del tribunale fu inizialmente stabilita a Cagliari, nel medievale convento di San Domenico, prima sede dei francescani in Sardegna.

Il trasferimento della sede a Sassari

Gli inquisitori “cagliaritani” furono in tutto nove. Nel 1563, la sede del tribunale venne stabilita a Sassari dall’allora inquisitore, Diego Calvo, originario di Rincón. I motivi del trasferimento erano diversi: se da un lato il Calvo sottilineava l’inadeguatezza della struttura cagliaritana, è da sottolineare il suo esser mal visto dagli abitanti: in primis poiché non sardo, e in secondo luogo poiché castigliano e non aragonese, popolazione con cui i sardi avevano legami più stretti8. Altri autori sottolineano anche la necessità di un luogo di controllo nel nord della regione, a causa del continuo sbarco di luterani dalla vicina Corsica9.
La crudeltà del Calvo (nel 1565 venne celebrato un autodafé in cui vennero eseguite tredici condanne a morte e settanta persone subirono torture e supplizi) fu tale che dovette intervenire personalmente il sovrano Filippo II che, in seguito all’invio di un ispettore (l’inquisitore Martín de Villar) lo rimosse dall’incarico nel 156810.
A partire dal 1579 e fino al 1720, quando la Sardegna passò ai Savoia, il tribunale venne retto in contemporanea da due inquisitori11. Fra tutti, solamente tre furono oriundi dell’Isola: Juan Sanna (1512–1522), Andrés Sanna (1522–1555) e Gavino Pintor (1610–1612). Tutti gli altri erano originari della penisola iberica o di altri territori della Corona.
In totale, si stimano 165 condannati dal tribunale sardo, ma il numero è certamente sottostimato rispetto alla realtà, dato che di moltissimi inquisiti non è sopravvissuta la documentazione relativa al loro processo, e sono spesso citati di sfuggita in documenti “secondari”, come le lettere fra il tribunale sardo e la sede centrale spagnola, o i voluminosi registri delle visite effettuate da parte di funzionari mandati dalla sede centrale. Basti pensare, per esempio, che nei primi di questi documenti citati sono riportati numerosi stranieri provenienti sia dallo Stivale che da altri paesi europei, fino alla lontana Polonia12. Le pene in genere non erano gravi come in altri territori: le condanne a morte furono poche e sporadiche, e si contano solamente pochi casi di autodafè. Uno di questi venne celebrato in Ogliastra nel 1526, consegnando al braccio secolare ben 12 donne13. Non si deve comunque pensare che l’operato della Suprema in Sardegna sia stato blando: si registrano torture, vessazioni e soprattutto un’ingente quantità di atti e procedure altamente irregolari anche per il tribunale stesso, tanto che non furono rari i casi di sostituzioni forzate di inquisitori che abusavano del proprio potere, senza contare le ispezioni mandate dalla Suprema sull’Isola per verificare le numerose lamentele e denunce. Una delle più corpose fu la già citata visita dell’Inquisitore Juan Baptista Rincón de Ribadeneyra, durata due anni. Lo stesso personaggio ne effettuò una seconda, tra il 1620 e il 1621, anno della sua morte a Sassari14.
Le irregolarità e gli abusi riscontrati dal Ribadeneyra e dai suoi successori andavano da meri vizi di forma (inammissibilità di testimoni, procedure fuori dagli schemi prefissati) a fatti di media e alta gravità: dai sambenitos non appesi nelle chiese parrocchiali15 fino al coinvolgimento dei funzionari in atti di dubbia moralità o addirittura fatti criminali: l’inquisitore Andrés Falque, rettore della parrocchia di Padria, fu indagato per il suo appoggio verso il bandito lollovese Mannuzio Flore, che nei primi anni del Seicento vessò il Goceano con la sua banda compiendo furti, omicidi e violenze sessuali. Il Falque fu riconosciuto colpevole di aver fornito addirittura delle armi al fuorilegge16. Si evinse anche un rapporto malsano fra inquisitori e famigli, spesso nominati fra persone di dubbia moralità o addirittura fuorilegge al soldo dei funzionari.

Le sedi

Come già accennato, la prima sede fu la Chiesa di San Domenico a Cagliari, nel sobborgo di Villanova, ai piedi del versante est del colle che ospita il Castello. La chiesa fu fondata nel 1254 da fra' Nicolò Fortiguerra da Siena, alla guida dei primi domenicani insediati nell’Isola. Della chiesa e del convento, in stile gotico italiano, rimane solo parte del chiostro, in quanto gran parte dell’edificio venne distrutto dai bombardamenti dl 1943. Oggigiorno parte del chiostro è inglobato in un ristorante e in un pub, mentre la restante parte è oggetto di restauri.
La posizione strategica del convento, alla periferia del sobborgo, e l’appartenenza all’Ordo Predicatorum dei primi inquisitori, stanno probabilmente alla base della scelta del convento come sede del Tribunale. Delle strutture adibite all’inquisizione si hanno poche e sparute notizie in una relazione del 1715, che indica la presenza di apposite stanze per le udienze segrete, le riunioni dei funzionari e le carceri segrete17. Gli studi dei pochi documenti a disposizione permettono di identificare tali ambienti in parte con la cappella di San Pietro Martire. La “casa dell'Inquisizione” era formata dal tribunale e da un palacio grande unito al complesso conventuale (all'interno dello stesso isolato), condividendone l'affaccio sulla piazza San Domenico.
In seguito, nel 1492, secondo la delegazione apostolica che assegnò il tribunale al clero secolare, le esigenze dei funzionari portarono allo spostamento della sede nella casa di Andrea Polero, beneficiato della cattedrale, sita nel luogo detto Is Stelladas (attuale quartiere La Vega18).Di questo edificio, purtroppo, non si hanno notizie dettagliate.
A partire dal 1563, con lo spostamento del Tribunale a Sassari, la nuova sede diventa il castello della città. Fatto edificare a partire dal 1326 dagli aragonesi che all’epoca avevano conquistato gran parte dell’Isola, la sua funzione originale era quella di controllare una città che, dopo l’esperienza del Libero Comune, si era dimostrata ribelle ai nuovi dominatori. L’edificio venne completato nel 1342, e circa un secolo dopo fu dotato di un fossato19.
Le prigioni segrete erano probabilmente ospitate in alcune cavità sotterranee, mentre il fossato venne utilizzato come discarica20. Alcune notizie arrivano dalla relazione della visita dell’inquisitore Pedro de Hoyo nel 1596, che indica che «i locali destinati alle carceri si trovano nella parte alta del castello» ma anche «al di sotto della scalinata del patio»21. La sovrapposizione di una pianta del XIX secolo con il rilievo archeologico eseguito durante gli scavi dei primi anni Duemila, consente di identificare il suddetto locale sotterraneo con il silos, realizzato nelle prime fasi di vita dell’edificio per conservarvi derrate alimentari. La conferma dell’uso a prigione viene da alcuni graffiti realizzati sulle pareti del locale, con forme di croci o disegni antropomorfi. I graffiti vennero realizzati probabilmente con le ossa degli animali destinati al pasto, ritrovate durante le operazioni di scavo. Da un inventario del 1591, si sa che la cárcel del secreto era composta da due ambienti: el secreto vero e proprio, dove avevano accesso solamente gli inquisitori e gli accusati, e un anticamera dotata di panche dove gli accusati aspettavano prima di entrare. In quest’ambiente era presente anche un altare dove il cappellano del Sant'Uffizio celebrava quotidianamente la messa.
Sempre Pedro de Hoyo informa dell’esistenza di locali destinati alla reclusione delle donne (cárcel de las mujeres)22, e di 12 celle tutte con nomi di santi23.
I documenti menzionano inoltre la casa dell’inquisitore, l’aula dove si svolgevano i processi, le cosiddette carceri segrete e due sale delle torture (cámara e cárcel del tormento). Esisteva anche una sala di attesa per gli avvocati, una biblioteca e le celle, in misere condizioni, con tavole per potersi sdraiare e rudimentali materassi riempiti con fogliame secco.
Un inventario del 1591, oltre all’elenco delle stanze e dei beni in esse contenute, permette di conoscere alcuni strumenti di tortura usati durante i processi: dieci paia di ceppi, un martello per serrarli, morsi e bavagli che venivano fatti indossare ai rei perché non lanciassero maledizioni o non inveissero contro gli inquisitori24.
Altri documenti testimoniano l’esistenza di una prigione speciale destinata ai famigli25 la sala delle torture (cárcel del tormento), l’appartamento dell’alcalde della prigione (una sorta di direttore/custode)26, e le carceri pubbliche per i prigionieri accusati di reati non di fede27.
Gli autodafè si svolgevano principalmente nella piazza antistante il castello, nel luogo detto Campu de Carra (attuale Piazza Sant’Antonio), nella cattedrale e in alcune delle parrocchie cittadine28.
Le condizioni del castello non erano comunque adatte agli standard previsti dalla Suprema: sono numerosi i documenti delle visite in cui si denunciano le condizioni precarie in cui venivano custoditi i prigionieri, e anche i problemi strutturali dell’edificio: l'inquisitore Alonso de Lorca denunciò che gli ambienti risultavano «privi di pavimento, senza serrature, quegli spazi sembravano essere stati attraversati da un combattimento col Turco», attribuendo le responsabilità di tali miserevoli condizioni non solamente alla scarsità delle rendite disponibili, ma anche alla cattiva gestione del suo collega Diego Calvo29.

I familiares

I familiares (famigli) stavano quasi alla base della piramide della struttura amministrativa dell’inquisizione, ma erano di importanza primaria per il funzionamento del tribunale a livello locale. Non erano membri effettivi, ma collaboratori scelti fra la piccola borghesia rurale fatta di proprietari terrieri e di allevatori, notai e piccola nobiltà. Sebbene la loro esistenza sia attestata dai primi anni dell’istituzione, il loro ruolo, numero e funzioni variò nei secoli e a seconda delle aree geografiche. A titolo di esempio, nel regno di Castiglia erano scelti fra i nobili, criterio opposto a quello in vigore nei territori dell’Aragona, in cui si evitava di nominare persone con già troppo potere nel territorio. Un altro criterio era quello della residenza nel paese di competenza, per evitare l’assenteismo.
Ai famigli non spettava alcun compenso economico, tuttavia i loro servizi erano ricompensati attraverso il godimento di alcuni privilegi. Il più importante era certamente l’esonero dal tribunale ordinario: il foro competente per tutte le cause che li riguardavano era il Sant’Uffizio stesso. In tal modo, avevano la libertà di attuare contro giudici e funzionari della giustizia ordinaria senza temere conseguenze. Avevano anche, in genere, il permesso di portare armi, anche se il loro uso era regolamentato da prammatiche specifiche che, solitamente, ne limitava l’utilizzo ai soli fini del tribunale inquisitorio.
Le loro funzioni, spesso meno regolate dei privilegi, erano le seguenti:

  • Protezione e accompagnamento di inquisitori, ministri e ufficiali;
  • Ausilio al Sant’Ufficio e al suo personale;
  • Arresti, sempre su mandato dell’inquisitore e spesso in ausilio all’alguazil;
  • Custodia dei prigionieri inquisiti per reati non di fede, incluso nel loro domicilio quando vi era assenza di carceri dei familiari;
  • Denunce e funzioni di polizia;
  • Varie (pubblici editti, ecc.).

Riguardo le funzioni di polizia, nonostante questo compito sia quello che più è entrato nell’immaginario collettivo, caratterizzando la figura del famiglio come di una spia al servizio del tribunale, la documentazione spagnola mostra come le denunce provenivano raramente da queste figure. Il Sant’Uffizio infatti spingeva per la cosiddetta pedagogia della paura, che portava le persone a denunciarsi vicendevolmente, spesso addirittura all’interno delle famiglie.
Per la Sardegna, un elenco parziale dei familiares è desumibile dal verbale della visita del 1613: per 183 paesi su un totale di circa 400, si contano 371 famigli30.

Il funzionamento dei processi

La filosofia del tribunale

Come sottolineato da Francioni31, l’inquisizione si basava su una concezione del diritto fondamentalmente antiromanistica. Mentre infatti nel diritto romano era categoricamente esclusa la punizione di una persona per via delle sue idee, tale concezione fu il cardine della caccia agli eretici e alle streghe. È rilevante inoltre il fatto che, durante tutto il processo inquisitoriale, l’imputato venisse chiamato reo, secondo un principio di presunzione di colpevolezza.
In quest’ottica si incardina una seconda «fondamentale divaricazione fra la prospettiva romanistica e quella inquisitoria […] data dal fatto che, nel secondo caso, spetta all'imputato — e non al giudice-accusatore — l'onere di dimostrare che il capo o i capi d'accusa sono inconsistenti. Nel secondo sistema trionfa dunque un "principio di disuguaglianza", perché alle due parti non viene riconosciuta — come prevede il diritto romano — la stessa possibilità d'azione»32.
Sebbene l’inquisizione spagnola, rispetto a quella medievale, prevedesse l’introduzione di un avvocato difensore (se ne ha evidenza nell’esempio “illustre” di Sigismondo Arquer), tale figura era scelta direttamente dagli inquisitori, per cui l’operato a supporto dell’imputato era fortemente limitato dalle difficoltà di fare carriera nel caso di schierarsi apertamente con la parte accusata. Di fatto, come dimostra anche il caso di Julia Carta di Siligo33, l’avvocato difensore non poteva conferire privatamente con il suo assistito, non esisteva l’arringa difensiva finale né il controinterrogatorio dei testimoni, come invece avviene nei processi moderni. Anche molti dei dettagli dell’accusa rimanevano segreti e conosciuti solo ai funzionari addetti alla causa.

Le tipologie di reati

Innanzi tutto, è da sottolineare come i perseguiti erano considerati prima di tutto dei peccatori. In questo senso, il sacramento della confessione era spesso usato come veicolo per incominciare un’azione inquisitoriale: «il penitente che andava a confessarsi, infatti, era previamente interrogato se avesse qualcosa da rivelare al Sant’Uffizio. In caso affermativo, doveva sporgere denuncia, altrimenti non riceveva l’assoluzione finché non l’avesse fatto»34. Obiettivi del Tribunale erano le lotte contro l’apostasia e le eresie, queste ultime considerate non solo un attentato all’unità cristiana, ma una minaccia alla pace sociale: «ciò implicava una nozione di eresia indeterminata, ambigua ed elastica rispetto a quella della teologia, tanto che alcuni studiosi hanno parlato di due nozioni distinte e, per molti aspetti, inconciliabili: l’eresia inquisitoriale e quella teologica»35.
Ricostruire l’attività del tribunale in Sardegna non è un’operazione semplice, poiché della documentazione originale custodita nel castello aragonese di Sassari (stimata, in una relazione del 1763, in venticinque carri di materiale) non è rimasta la benché minima traccia. Tutte le notizie in possesso degli studiosi sono ricavabili dalla documentazione della sede centrale, oggi custodita nell’Archivo Histórico Nacional di Madrid. Dal materiale esaminato da Loi si possono stimare circa 1742 cause (1422 uomini e 320 donne)36, ma si tratta di una stima al ribasso a causa della suddetta mancanza della documentazione originale e del fatto che non sempre di questa si mandava copia alla sede centrale.
Nella tabella 2 sono mostrate, sinteticamente, le tipologie di reato e il numero di persone perseguitate in base a esse.

Delitto Uomini Donne Totale % sul totale
Giudaismo 82 27 109 7,7
Musulmanismo (rinnegati) 213 (153) 7 (2) 220 (155) 15,6
Luteranesimo 50 0 50 3,5
Proposizioni (bestemmie) 233 (32) 15 (0) 248 (32) 17,6
Bigamia 119 10 129 9,1
Sollecitazione 30 0 30 2,1
Contro il Sant’Ufficio 288 12 300 21,2
Superstizione (stregoneria) 90 (18) 203 (78) 293 (96) 20,8
Diversi 31 3 34 2,4
Totali 1136 277 1413 100

Sebbene in maniera non determinante, è possibile suddividere le precedenti persecuzioni in periodi ben definiti. In una prima fase, l’attività dell’Inquisizione in Sardegna si concentrò sulla persecuzione degli ebrei (1486–1516); successivamente, dal 1522 (inizio della carica dell’inquisitore Andrea Sanna) al 1555 (trasferimento della sede da Cagliari a Sassari) si focalizzò sui processi per superstizione e stregoneria. Il periodo dal 1562 (inizio delle attività con sede a Sassari) al 1623 fu caratterizzato da numerosi conflitti e dalle corpose visite ispettiva; la novità in questa fase fu la caccia ai “luterani” (termine-ombrello usato per alludere a qualsiasi tipo di protestantesimo). L’ultimo periodo (1624–1717) si discosta dai precedenti non per il diverso tipo di cause, ma per la drastica riduzione di attività.

La tortura

Le torture inflitte ai prigionieri in Sardegna non si discostano da quelle usate negli altri territori della Corona de Aragón. Nei documenti sono specificate tre modalità principali: la garrucha, il potro e la toca, potendo essere usate singolarmente o in successione dalla meno dura (la garrucha) alla peggiore (la toca). Nell’Isola sembra fosse più usata la prima: si legava l’accusato ai polsi e lo si appendeva al soffitto con le braccia dietro la schiena. Ogni tanto si allentava la fune in maniera brusca, generando forti strattoni; spesso si legavano dei pesi alle dita dei piedi per aumentare la trazione. La pratica, oltre ai dolori lancinanti della slogatura delle spalle, causava gravi problemi respiratori.
Il potro o escalera era una sorta di scala a pioli o una tavola, in cui il condannato stava disteso con la testa più in basso rispetto ai piedi. Intorno agli arti venivano fatte passare delle funi sottili che, tese sempre con più forza attraverso dei bastoni girevoli, penetravano nella carne.
La toca consisteva invece nel fissare il condannato sul potro o su una tavola: una forcella manteneva aperta la bocca, dentro alla quale veniva spinto un panno di lino (la toca propriamente detta) immerso all’altro capo in una tinozza d’acqua, in modo che il lento ma inesorabile gocciolamento facesse inghiottire al malcapitato un’enorme quantità d’acqua, provocandogli allo stesso tempo la sensazione di annegamento.
Nell’inventario del 1591 sono inoltre menzionati dei «guanti speciali per torturare le mani dei malcapitati, dieci paia di ceppi, un martello per serrarli, morsi e bavagli che venivano imposti ai penitenti affinché non lanciassero invettive e maledizioni contro i ministri del tribunale»37.
La tortura comunque non sembra fosse una pratica molto usata: i documenti la riportano applicata a 86 persone (di cui 21 donne), circa il 5,5% del totale.

Le condanne

Gli studi mostrano che, sul totale delle condanne conosciute, la maggior parte comportarono l’abiura de levi, a testimonianza che «il tribunale perseguì colpe da esso stesso ritenute leggere»38. In ogni caso, anche quando si determinarono colpe più gravi — o quando vi era la certezza della colpa — le sentenze furono quasi sempre di rilascio e/o riconciliazione. Tali sentenze riguardarono prevalentemente stregoneria, giudaismo, musulmanesimo o luteranesimo.

Delitto Assoluzione Sospensione Riprensione Abiura levi Abiura vehementi Riconciliazione Rilascio (pena di morte) Totale
Giudaismo 0 0 0 0 4 42 62 108
Musulmanesimo (rinnegati) 87 (80) 2 (2) 0 (0) 15 (7) 11 (8) 64 (37) 5 (2) 184 (136)
Luteranesimo 3 5 2 3 4 16 5 38
Proposizioni (bestemmie) 29 (2) 20 (3) 21 (1) 66 (14) 16 (2) 1 (0) 2 (0) 155 (2)
Bigamia 3 3 0 100 4 0 0 110
Sollecitazione 1 4 2 11 0 0 1 19
Superstizioni (stregoneria) 11 (6) 16 (2) 9 (0) 105 (20) 23 (14) 32 (25) 20 (20) 216 (87)
Altro 4 3 4 6 1 1 0 19
Totale 138 53 38 306 63 156 95 849

Riguardo le pene di morte, l’azione dell’Inquisizione in quanto a roghi e Autodafè ebbe proporzioni ridotte rispetto a quanto generalmente si crede: come si evince dall’ultima riga della precedente tabella, le sentenze di morte furono 95; 97 se si considerano due pene inflitte nel 1575 per reati contro il Sant’Uffizio. Il termine rilascio, relaxación in castigliano antico, indicava la consegna del condannato al braccio secolare, in quanto il Tribunale ecclesiastico non poteva infliggere la morte. Il rilascio non implicava necessariamente l’eliminazione fisica della persona: se questa era riuscita a fuggire, si bruciava una statua che la rappresentava (relaxación en estatua), mentre in caso di morte, si dovevano bruciare le ossa del defunto, dopo averle riesumate.
Per la Sardegna, non è dato sapere quanti furono esattamente i rilasci in persona o in statua, poiché il dato in molte sentenze non è specificato. C’è però da dire che la maggior parte delle condanne a morte avvenne nei primi anni di attività: l’ultima sentenza di questo tipo avvenne nel 1600, a carico di un francese accusato di luteranesimo. Su 32 persone per cui vi è certezza della messa al rogo, 21 erano donne accusate di stregoneria. Ai numeri precedenti si deve aggiungere anche l’Autodafè fatta eseguire da Diego Calvo nel 1565, in cui morirono tredici persone (dieci uomini e tre donne). In seguito, si riconobbe la loro innocenza e se ne riabilitò «l’onore e la memoria».

Alcuni accenni sul Settecento: gli ultimi anni

Dalla seconda metà del 1600, il fenomeno inquisitoriale si scontrò con diverse problematiche che ne ridussero gradualmente, ma drasticamente, i poteri. La perdita di privilegi, specialmente per i gradini più bassi della piramide amministrativa, fece calare il numero dei famigli, sostituiti dai varas, originariamente semplici nunzi incaricati di recapitare messaggi o di chiamare i testimoni. Il fenomeno sardo era in controtendenza rispetto ad altri territori della Corona, come per esempio la Galizia e l’Aragona, dove si assistette invece a una «aristocratizzazione dei quadri amministrativi e territoriali»39.
A ciò si aggiungevano ulteriori difficoltà, per esempio ripetute irregolarità che provocarono l’invio, da parte della Suprema, di numerose ispezioni; la sempre minore tolleranza della popolazione verso l’istituzione e i suoi abusi (nel 1696, dopo la sospensione dell’inquisitore De Castro per le gravi violazioni alle norme rilevate dal visitatore Juan Murillo, una sagoma rappresentante il De Castro — già partito per la nuova sede di Palermo — venne bruciata pubblicamente in piazza a Sassari; nel 1701 venne ucciso l’inquisitore Garrido Lozano, anche se la causa non sembra essere la vendetta o la ritorsione, si rendeva palese la crescente debolezza della struttura). La poca appetibilità della Sardegna come sede per gli inquisitori si faceva ancora più evidente: fra il 1700 e il 1703 ben tre candidati rinunciarono all’incarico, nonostante le minacce di un trasferimento forzato da parte della sede centrale. Negli ultimi anni del Seicento anche il potere viceregio cercò di limitare quello del Tribunale: in particolare, le Cortes del 1677–78 riaffermavano la riduzione giurisdizionale, già stabilita qualche decennio prima, mentre in quelle successive del 1688 si istituì la figura di un giudice speciale che dirimesse le numerose controversie sulle competenze concorrenti. Le richieste comunque non furono accolte dal sovrano, che rispose sempre con un atteggiamento evasivo e temporeggiatore.
Il XVIII secolo si aprì inoltre con la plateale cacciata dell’inquisitore Juan Corvacho40, in seguito ai suoi scandalosi contrasti con l’autorità regia e con la diocesi. Il Corvacho si era ribellato alle decisioni emanate dalla Reale Udienza e addirittura dalla Regina reggente, che avevano stabilito nulle le pretese dell’inquisitore in quanto non toccavano materia di fede o religione (il prelato pretendeva la scarcerazione di un uomo accusato di furto presso una chiesa di cui il tribunale riceveva parte delle rendite, ma il cui territorio era afferente al feudo della Romangia). L’inquisitore, il 7 novembre 1702, giunse a lanciare una scomunica contro il regno di Sardegna, facendo irrompere nella cattedrale di Sassari alcuni funzionari che interruppero la messa. Lo scandalo e il caos che derivarono da quest’azione decretarono le sue sorti, per il quale il 25 novembre la regina decise l’espulsione dall’Isola. La folla che accompagnò l’inviato viceregio incaricato di condurre l’inquisitore a Porto Torres per l’imbarco verso la Spagna dimostra il profondo cambio nel clima culturale e nella mentalità della popolazione rispetto al secolo precedente.
Nonostante si fossero nominati i successori del Corvacho fino al 1718, questo episodio segna irrimediabilmente la fine dell’Inquisizione spagnola nell’Isola, complice anche il passaggio (solo formale) della Sardegna all’Austria nel 1708. In questo contesto spicca l’abbandono spontaneo dell’Isola da parte dell’inquisitore Juan Antonio Olivas, che si rifiutò di giurare fedeltà al sovrano austriaco (l’Inquisizione era infatti apertamente schierata dalla parte dei Filippisti).
Le competenze del tribunale dell’Inquisizione vennero parzialmente assunte dalle diocesi, il cui atteggiamento fu però assai diverso rispetto tanto nella filosofia quanto nelle modalità. L’Inquisizione spagnola non fu restaurata neppure nella breve riconquista del 1717–1720, rendendo gli ultimi inquisitori figure puramente formali senza alcun ruolo effettivo, in quanto non giunsero mai in Sardegna: con il trattato di Londra del 1718 e quello dell’Aia del 1720, l’Isola passò definitivamente alla casa Savoia, ponendo fine a più di due secoli e mezzo di persecuzioni per questioni di fede.

L’inquisizione diocesana settecentesca e le credenze popolari fino al 1900

Gli studi sull’inquisizione diocesana in Sardegna sono attualmente parziali e possiedono ancora grandi margini di sviluppo: se nel 2013 lo studioso Salvatore Loi affermava che le uniche notizie conosciute riguardavano le diocesi di Cagliari con le sue unite Iglesias, Suelli e Galtellì, nel 2015 la dottoressa Alessandra Derriu, dell’Arxiu Històric Diocesà di Alghero, ha riportato alla luce un fondo fino ad allora sconosciuto, composto da numerosi processi relativi alla diocesi dal 1713 al 1764 (per un totale di 138 unità archivistiche)41.
Una prima “presa di possesso” dell’ufficio inquisitorio da parte dei vescovi si ebbe dal 1708 al 1714 quando, in seguito alla guerra di Successione, la Spagna abbandonò l’Isola. Si è già accennato al fatto che nella breve parentesi della riconquista furono nominati gli ultimi inquisitori da Madrid. In attesa del loro arrivo (che non avvenne mai) i vescovi continuarono a esercire come responsabili del Sant’Uffizio, nonostante le istruzioni del nuovo sovrano Vittorio Amedeo II di Savoia arrivarono solamente il 20 maggio 1720:
farete insinuar alli vescovi di dover intanto sino a che abbiano sovra ciò preso le nostre determinazioni, esercitare la loro giurisdizione per quelle cause de’ quali l’Inquisizione ha la cognizione42.
Lo scopo dell’amministrazione regia era avere il controllo sui tribunali territoriali, che a differenza di quello di epoca spagnola erano indipendenti l’uno dall’altro43, evitando così che nel regno operassero inquisitori nominati direttamente dalla Santa Sede. Ciò vide l’opposizione di Roma che, attraverso diversi dispacci e mandati, ribadiva le facoltà dei vescovo di agire liberamente secondo le materie di fede e in modo autonomo dallo stato.
I Savoia volevano inoltre che i vescovi operassero la loro funzione inquisitoriale come una parte del loro ministero diocesano, senza tutti i privilegi di cui invece godevano i funzionari dell’Inquisizione spagnola. Ciò, soprattutto nei primi tempi, causò parecchi malumori fra i prelati44. La soppressione di un tribunale apposito fece scomparire anche le cariche minori a esso correlate, come i varas e i famigli. Un altro grande cambio rispetto al passato fu che l’amministrazione economica e burocratica era gestita da funzionari regi e non più dal tribunale ecclesiastico.
Dal punto di vista della struttura amministrativa, i tribunali diocesani mantennero molte delle figure tipiche dell’epoca spagnola, ma le modalità mutarono profondamente: da un atteggiamento punitivo si passò a quello correttivo. I confessori spingevano le persone ad autodenunciarsi, smorzando così progressivamente lo spirito di spionaggio e denuncia che aveva caratterizzato la pedagogia del terrore. Questa posizione più blanda consentì un maggiore controllo sulla popolazione, reso palese da un maggior numero di denunce45.
La figura del vescovo come inquisitore rimase comunque separata da quella di giudice del tribunale ecclesiastico, che si occupava delle cause ordinarie di infrazione della legge morale o di determinate prescrizioni della curia. Come giudice inquisitorio, invece, si focalizzava delle eresie. In questo periodo si registra un calo del fenomeno della caccia alle streghe e, al contempo, un aumento delle cause per superstizione: malie, incantesimi e venefici erano ritenuti pericolosi in quanto, approfittando dell’ingenuità delle persone, minavano profondamente la fede. Emblematica in tal senso è la relazione dell’arcivescovo di Oristano del 1745, dove oltre a questi fatti si lamentava delle numerose convivenze fuori dal matrimonio, spesso anche in presenza di figli46.
La situazione morale della popolazione migliorò a fine secolo, seppure in alcune zone — spesso a causa del loro isolamento — si registravano ancora episodi di genti che vivevano lontano dalla fede.
L’avvento del XIX secolo, anche se vide mitigarsi il fenomeno dell’inquisizione, presentava ancora strascichi di antiche credenze, che in alcuni casi giunsero addirittura al tribunale civile: è emblematico il caso di Giovannangela Piroddi, processata dal tribunale civile di Nuoro tra il novembre del 1901 e il maggio 1902 per il reato di truffa aggravata. La donna, originaria e residente nel paese di Orotelli, esercitava «l’arte delle malie» attraverso le carte con cui sosteneva di predire il futuro e aiutare le persone a trovare l’amore o a rintracciare oggetti perduti. La donna morì a Lei (Nuoro) il 30 maggio 1902, e nell’ottobre successivo la causa venne chiusa per decesso dell’imputata47.

Cronotassi degli inquisitori

Vedi https://www.ereticopedia.org/lista-inquisitori-sardegna

Bibliografia

Per la bibliografia di riferimento vedi le opere citate nelle note che seguono.

Article written by Salvatore Pinna | Ereticopedia.org © 2023

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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