Inquisizione romana

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


L’Inquisizione romana o Sant’Uffizio dell'Inquisizione fu la rete di tribunali che a partire dalla riorganizzazione decretata con la bolla Licet ab initio (21 luglio 1542) di Paolo III si occupò della repressione delle eresie e del controllo dell'ortodossia con competenza, principalmente, sui territori degli Stati dell'Italia centro-settentrionale. L’azione dell’Inquisizione romana si limitò quasi esclusivamente a queste zone della penisola italiana, giacché, al momento della sua istituzione, in Spagna (dal 1478) e Portogallo (dal 1536) esistevano già Inquisizioni "nazionali", strutturate, efficienti ed integrate nei rispettivi sistemi monarchici. In Francia invece la "moderna" Inquisizione non fu mai introdotta essendo la persecuzione dell’eresia demandata ad un’apposita commissione detta Chambre ardente istituita da Francesco I nel 1535 (puramente nominale fu la sopravvivenza dei tribunali inquisitoriali di Tolosa, Carcassonne e Besançon, mentre quello di Avignone, l'unico veramente attivo sul suolo francese, risiedeva in territorio formalmente appartenente allo Stato della Chiesa e governato da un legato apostolico). Nel Regno di Napoli e nella Repubblica di Lucca la competenza inquisitoriale fu demandata ai vescovi, mentre la Sicilia e la Sardegna rientravano nelle competenze dell’Inquisizione spagnola.

Storia e geografia dell'Inquisizione romana

L'avvio della "nuova" Inquisizione e la repressione del protestantesimo in Italia

Antecedenti sotto Clemente VII

Nell'ottobre 1532 Gian Pietro Carafa faceva pervenire a Clemente VII un celebre memoriale da Venezia per sollecitare il papa ad agire con la massima durezza davanti a una situazione ormai insostenibile che vedeva una larga penetrazione delle nuove idee religiose nella penisola. Il 4 gennaio di quello stesso anno Clemente VII, che non aveva una grande considerazione di Carafa ma cominciava a preoccuparsi molto della situazione, aveva nominato l'agostiniano Callisto Fornari, uomo di sua fiducia, predicatore apostolico e "inquisitorem generalem… haeresis lutheranae tantum per totam Italiam". Tale nomina tuttavia non fu particolarmente efficace e non poteva bastare per far fronte al grave stato delle cose.

L'istituzione della Congregazione del Sant'Uffizio da parte di Paolo III e il progressivo affermarsi della linea intransigente

Nel 1542 Paolo III cedeva dunque alle pressanti richieste del cardinal Gian Pietro Carafa per una riorganizzazione ed un potenziamento dell’Inquisizione resi urgenti dal dilagare di Riforma protestante e movimenti ereticali nella Penisola. Già l'anno precedente d'altronde (concistoro del 15 luglio 1541) Paolo III aveva preposto Carafa stesso e Girolamo Aleandro alla riorganizzazione dell'Inquisizione. Veniva istituita adesso la congregazione cardinalizia del Sant’Uffizio incaricata di coordinare la repressione e l’attività dei tribunali locali, nei quali sin dagli esordi medievali operavano principalmente frati francescani e domenicani e anch’essi destinati ad essere riorganizzati e potenziati. La composizione iniziale di questa congregazione cardinalizia rifletteva l’esigenza di rispettare gli equilibri tra rigore, repressione e tendenze più concilianti, giacché al momento la partita tra correnti ireniche, non contrarie a un accordo coi protestanti, e intransigenti, fautrici della più dura repressione, all'interno della Curia romana era ancora aperta. Oltre al cardinal Carafa, posto alla testa della Congregazione, ne erano membri il canonista Pietro Paolo Parisio (morto nel 1545), uomo di fiducia di Paolo III, Dionisio Laurerio (morto nel settembre 1542, quindi poco dopo l’istituzione della congregazione), vicario generale dei serviti ed altro uomo di fiducia della famiglia Farnese, l’intransigente cardinale lucchese Bartolomeo Guidiccioni (morto nel 1549), il “moderato” Tommaso Badia, maestro del Sacro Palazzo, e Juan Alvarez de Toledo, fratello del viceré di Napoli Pedro de Toledo e uomo di Carlo V. Il primo effetto immediato e clamoroso dell’istituzione del nuovo organo fu la fuga all’estero di Bernardino Ochino, generale dei cappuccini, accusato di eresia e convocato a Roma per discolparsi.

Malgrado il fiorire degli studi sull’Inquisizione in Italia a partire dagli anni novanta del XX secolo, né le dinamiche di inclusione/esclusione dei membri del Sant’Uffizio né gli eventuali dibattiti interni alla Congregazione sono stati ben approfonditi. Importanti passi avanti si sono avuti grazie a studi molto recenti di Massimo Firpo e Chiara Quaranta. Si può dire che a poco a poco la Congregazione fu egemonizzata dagli uomini più intransigenti fedeli al cardinal Carafa. Nella compagine originaria del 1542 gli intransigenti duri e puri erano soltanto due su sei (cioè Carafa e Guidiccioni).  Nel 1545 si aggiunse un altro uomo vicino alle posizioni degli "spirituali", il cardinale benedettino Gregorio Cortese. Contemporaneamente era incluso nella Congregazione anche Francesco Sfondrati, giurista milanese riconvertitosi alla carriera ecclesiastica. Dalla fine degli anni quaranta i due nuovi membri intransigenti Marcello Cervini e Rodolfo Pio di Carpi (morto nel 1564) assunsero sempre più peso all’interno della congregazione. Per giunta i due membri "moderati", Badia e Cortese, morirono rispettivamente nel 1547 e nel 1548, senza essere sostituiti. Nel 1549 moriva anche l'intransigente Guidiccioni, e nel 1550 anche Francesco Sfondrati. Per sopperire, sotto il papato di Giulio III, furono immessi nella Congregazione Girolamo Verallo (morto nell’ottobre 1555) e Giacomo Puteo, quest’ultimo assai intransigente e vicino al Carafa. Più estemporanea, sempre sotto Giulio III, fu la partecipazione alle riunioni del Sant’Uffizio dei legati al concilio di Trento Marcello Crescenzi e Sebastiano Pighini.
Una volta assunto il dominio della congregazione il Carafa e i suoi sodali la usarono per affermare la propria egemonia all'interno della Curia romana stessa: il Sant’Uffizio, insomma, divenne sempre più strumento nelle mani del Carafa che lo utilizzò contro i suoi nemici interni in curia: nel 1549 proprio i sospetti di eresia impedirono l’elezione papale, che sembrava cosa ormai già fatta, di Reginald Pole.
Contemporaneamente si poneva il problema dell'installazione delle sedi locali della "nuova" Inquisizione, il che andava trattato di volta in volta con le varie autorità civili, spesso gelose della propria autonomia giurisdizionale. In due casi si crearono sistemi "misti", nei quali le autorità civili si preoccuparono di affiancare all'Inquisizione ecclesiastica dei magistrati laici. A Lucca, dove il potere inquisitoriale rimase nelle mani del vescovo, fu istituita nel 1545 la magistratura dell'Offizio sopra la religione. A Venezia invece il potere inquisitoriale fu spartito tra il nunzio, l'inquisitore di nomina papale, il patriarca della città e la magistratura dei tre Savi sopra l'eresia, istituita nel 1547.

La battaglia decisiva negli anni del papato di Giulio III

Una battaglia decisiva si svolse negli anni del papato di Giulio III, che odiava profondamente il cardinal Carafa, nondimeno a stento riusciva a moderare il suo impeto inquisitoriale. Giulio III avviò un politica a favore dell'indulto e della delazione. Ne approfittò subito don Pietro Manelfi, la cui delazione del 1551 consentì lo smantellamento dell'anabattismo veneto. Peraltro Giulio III tentò di mettere un freno all'intransigenza e alla sete di potere dei cardinali inquisitori: fu proprio negli anni del suo papato che il Sant’Uffizio avviò l’indagine a carico del cardinal Morone: Giulio III impose la cassazione del processo, ma il Carafa si rifiutò di obbedire. Inoltre il Sant’Uffizio fece arrestare e mise sotto processo il vescovo di Bergamo Vittore Soranzo, protetto dai cardinali Pole e Morone, e ancora una volta l’intervento papale fu provvidenziale per salvare l’imputato. Ma la battaglia fu infine vinta dagli inquisitori, tant’è che di lì a poco, nel 1555, divennero pontefici: prima Marcello Cervini (Marcello II), poi il Carafa stesso (Paolo IV).

Il papato di Paolo IV: l'esplosione della lotta contro l'eresia

Alla fine del papato di Giulio III la Congregazione del Sant’Uffizio risultava composta dai cardinali Carafa, Carpi, Toledo, Verallo, Cervini e Puteo. Glo "intransigenti" avevano ormai "conquistato" la Congregazione. La tappa successiva sarebbe stata la "conquista" del papato e dell'intera curia romana. Cosa che avvenne pienamente con Paolo IV, sotto il cui regno il Sant’Uffizio ampliò a dismisura il suo potere e le sue competenze. I cardinali membri del Sant’Uffizio, ridottisi a quattro (con le elezioni al trono pontificio del Cervini – seguita dalla sua prematura morte – e quindi del Carafa), furono in breve aumentati fino a quindici, con l’immissione nella compagine di fieri intransigenti fedelissimi di Paolo IV: per esempio, Michele Ghislieri, già commissario generale del Sant’Uffizio, nominato per l’occasione cardinale e inquisitor magnus et perpetuus, e gli altri neocardinali Giovanni Antonio Capizuchi, Bernardino Scotti, Scipione Rebiba, Virgilio Rosario.
Il partito degli “spirituali” subì una violenta aggressione frontale con l’arresto e processo del cardinal Morone, la revoca della legazione inglese al Pole, richiamato a Roma per essere esaminato (ma il cardinale inglese, protetto dalla regina Maria Tudor, si guardò bene dall’obbedire all’ordine del pontefice), il nuovo processo in contumacia del Soranzo e vari altri arresti, processi ed esecuzioni. Da Roma l’impulso all’intensificazione della lotta agli eretici in tutta Italia fu molto forte, pertanto il papato di Paolo IV costituì una svolta significativa.

Il papato di Pio IV: il Sant'Uffizio perde terreno

Tuttavia con Pio IV si voltò momentaneamente pagina, tornando a orientamenti simili a quelli di Giulio III: il cardinal Morone fu prosciolto e inviato a dirigere il concilio di Trento, i nipoti di Paolo IV, Carlo e Giovanni Carafa, di contro furono messi a morte, il Sant’Uffizio fu ridimensionato nel numero dei cardinali e soprattutto nelle sue competenze e nella sua influenza. Nella congragazione vennero confermati soltanto Michele Ghislieri, Rodolfo Pio di Carpi (morto nel 1564), Pedro Pacheco (morto nel marzo 1560), Giacomo Puteo e Bernardino Scotti. In seguito Pio IV ritoccò a più riprese la composizione della commissione: tra i nuovi inclusi, Gian Battista Cicala (che, ostile a Paolo IV, durante il suo papato si era allontanato da Roma per risiedere nella natia Genova) e il cardinale umanista Marcantonio Da Mula, entrambi uomini di fiducia di Pio IV. Il cardinal Ghislieri, pur rimanendo formalmente alla testa del Sant’Uffizio, subì una dura politica di isolamento da parte di Pio IV. Ma venne infine anche per lui il tempo della vendetta, con la sua elezione al papato nel 1566, che sancì il trionfo definitivo dell’Inquisizione e la rovina di tutti gli orientamenti a lei avversi.

Da Pio V a Sisto V: il trionfo dell'Inquisizione

Pio V riorganizzò di nuovo il Sant’Uffizio, affidandolo ai cardinali Scipione Rebiba, Bernardino Scotti (morto nel 1568), Francisco Pacheco e Gian Francesco Gambara. Spiccavano nella compagine inquisitoriale i nomi di Bernardino Scotti, antico teatino e collaboratore di Paolo IV, e, con una posizione di preminenza, del siciliano Rebiba, anch'egli fedelissimo di Paolo IV e duramente perseguitato da Pio IV per i suoi legami con la famiglia Carafa. Un altro personaggio la cui influenza cominciò a imporsi fu Giulio Antonio Santori, già consultore della congregazione dal 1566, che entrò a pieno titolo nella compagine inquisitoriale alla sua nomina cardinalizia nel 1570. Contemporaneamente veniva premiato con il cardinalato anche un altro inquisitore di professione, Felice Peretti (il futuro Sisto V). Sotto Pio V il Sant’Uffizio completò il debellamento della fazione degli “spirituali” con il processo e la condanna a morte di Pietro Carnesecchi. Esso affermò la propria preminenza sulle altre congregazioni romane sorte in seguito all’applicazione dei decreti tridentini (tra le quali la congregazione dell’Indice, istituita dallo stesso Pio V nel 1571, che assorbiva una parte delle competenze del Sant’Uffizio), preminenza che venne confermata dal successore Gregorio XIII e ratificata infine da Sisto V nel 1588 con la bolla Immensa aeterni. L'apogeo del Sant'Uffizio si ebbe negli anni del segretariato di Giulio Antonio Santori (dal 1586 al 1602).

Dalla repressione del protestantesimo al controllo dell'ortodossia e dei comportamenti sociali

Ampliamento di competenze

Gli anni sessanta e settanta del XVI secolo furono anni di intensa persecuzione inquisitoriale, nel corso dei quali quel che restava del movimento protestante italiano, che aveva già subito duri colpi nei due precedenti decenni, fu definitivamente annientato. A partire da questo momento in poi, molta parte dell'attenzione del Sant'Uffizio si spostò su magia diabolica e stregoneria. Una svolta importante fu rappresentata dalla bolla Coeli et terrrae (1586) con la quale Sisto V condannò senza mezzi termini astrologia e magia colta, con cui la Chiesa rinascimentale aveva convissuto. Ma nel mirino c'erano anche le superstizioni popolari. Magia diabolica e stregoneria erano terreni tradizionalmente di competenza dei tribunali vescovili, ma l'Inquisizione strappò a poco a poco la competenza in materia ai delegati vescovili. Il che rientrava in un processo di ampliamento di competenze della nuova Inquisizione ai danni degli organi tradizionali del clero secolare e regolare.
Le competenze del Sant'Uffizio si allargarono progressivamente altresì alla bestemmie e ai reati connessi alla sfera sessuale (sodomia, bigamia…). Il Sant'Uffizio ottenne la competenza anche sui reati di adescamento in confessione, la cosiddetta sollicitatio ad turpia. La questione venne definita da Gregorio XV nella bolla Universi dominici gregis (1622).
Sul terreno della repressione delle idee, sgominato il pericolo protestante in Italia, l’attenzione si concentrò sul controllo delle minoranze religiose (valdesi, cristiani ortodossi, ebrei), degli intellettuali (è passato alla storia il rogo di Giordano Bruno del 1600, e altrettanto significativa è la vicenda di Tommaso Campanella, sottoposto a torture e ad una lunga carcerazione; particolarmente aspro fu altresì lo scontro con la nuova cultura scientifica, col caso clamoroso del processo a Galileo), nonché sulla censura della stampa, in collaborazione con la Congregazione dell'Indice. Particolare attenzione fu rivolta altresì alla cultura popolare e ai fenomeni di santità spontanea.

Organizzazione e consolidamento della rete dei tribunali

Negli ultimi decenni del Cinquecento la rete dei tribunali locali si consolidò ed assunse la fisionomia che la caratterizzò fino alle abolizioni settecentesche. Attorno al 1580 si era completato un processo per cui la nomina degli inquisitori locali era passata dagli ordini rispettivi di appartenenza alla Congregazione del Sant'Uffizio. I cardinali inquisitori istruivano e addestravano i delegati locali attraverso la corrispondenza (si diffusero anche manuali per inquisitori, ma ebbero un ruolo meno rilevante). Le sedi inquisitoriali locali accrebbero la propria autonomia rispetto alle autorità civili, e i rapporti tra sedi inquisitoriali locali e la Congregazione del Sant'Uffizio furono ben regolati. I delegati locali, che risiedevano in città, si dotarono di vicari nelle aree rurali, vero e proprio collante tra città e campagna nell'amministrazione della repressione, la cui nomina non era decisa autonomamente ma era posta sotto il controllo della Congregazione del Sant'Uffizio. Il che creò un sistema accentrato ed efficiente, anche se non esente da un certo spirito paternalistico nella dialettica tra cardinali inquisitori e delegati locali, come risulta ampiamente dalla corrispondenza.
Questo in tutte le aree della Penisola in cui la nuova Inquisizione si era installata. Non nel Regno di Napoli, dove la giurisdizione inquisitoriale rimase saldamente in mano ai vicari vescovili. L'unica concessione fu nel 1585 l'instaurazione a Napoli di ministri del Sant'Uffizio con competenza su tutto il Regno, ma il loro ruolo fu di fatto sempre limitatissimo anche nella capitale, dove il potere inquisitoriale rimase sempre stabilmente in mano alla curia arcivescovile.
Altrove i tribunali inquisitoriali guadagnarono sempre più autonomia rispetto alle autorità civili, riuscendo talvolta a condizionarne pesantemente le politiche. Beninteso, l'alleanza tra Stato e Chiesa si fondava su interessi comuni e il controllo dei comportamenti e la preservazione dell'ortodossia costituivano per le autorità civili rilevanti problemi di ordine pubblico, il che giustifica l'accondiscendenza spesso mostrata da parte di quest'ultime verso le prerogative inquisitoriali.

Aspetti procedurali

L'obiettivo primario del Sant'Uffizio non era spargere sangue senza ritegno ma preservare l'ortodossia.
La procedura del processo inquisitoriale si definì compiutamente nel periodo di massimo apogeo del Sant'Uffizio, a cavallo tra Cinquecento e Seicento. L'indagine si apriva in genere a seguito di una denuncia o esposto scritto, raramente d'ufficio. Quindi venivano raccolte le prove a carico dell'imputato. Se esse non erano sufficienti seguiva l'archiviazione, altrimenti si procedeva ad incarceramento ed interrogatori del reo. Questa fase era detta processo offensivo: il reo doveva difendersi da solo, e gli inquisitori potevano servirsi della tortura, anche se il suo uso venne progressivamente regolato. Essa infatti a partire dal 1591 non poteva essere applicata autonomamente da delegati locali, ma doveva essere approvata obbligatoriamente dai cardinali inquisitori.
La fase successiva era quella difensiva: i capi d'accusa erano formalizzati ed erano ammessi avvocati difensori se l'imputato decideva di avvalersene. Quindi si ritornava agli interrogatori, e infine si perveniva alla sentenza.
La pena di morte era in genere comminata agli impenitenti e ai relapsi, e l'esecuzione poteva essere orribile e accompagnata da forme brutali di accanimento se il reo non mostrava alcun segno di pentimento (cosa che accadeva raramente: fu il caso, per es. di Pomponio Algieri nel 1556, di Giordano Bruno nel 1600 e di Giulio Cesare Vanini nel 1619, le cui esecuzioni furono particolarmente atroci). In caso contrario in genere, come atto di clemenza, il reo veniva decapitato, quindi si procedeva al rogo del cadavere. A Venezia, caso particolare, le autorità civili imposero a quelle ecclesiastiche come forma prevista dell'esecuzione capitale degli eretici l'annegamento nella laguna.
Nei casi meno gravi le pene previste in alternativa alla condanna a morte erano l'immurazione (cioè la reclusione in una cella piccolissima e senza finestre) o il servizio coatto ai remi sulle galere.
Procedure speciali e trattamenti di favore erano previsti per chi collaborava e si presentava spontaneamente, in linea di continuità con la politica dell'indulto inaugurata sin dagli anni di papa Giulio III.

Il lento declino dell'Inquisizione romana fino all'abolizione dei tribunali

La prosecuzione dell'attività repressiva

Nella seconda metà del Seicento ed ancora all'inizio del Settecento la rete dei tribunali fu pienamente efficiente. In questa fase si diffuse il fenomeno delle conversioni e dei battesimi forzati degli ebrei nello Stato della Chiesa, proseguì l’offensiva contro la stregoneria e la magia (i casi del Friuli e di Siena sono particolarmente significativi) e contro la santità spontanea e mistica (in particolare si ebbe la repressione del movimento pelagino in Valcamonica; anche la condanna del quietismo va nella medesima direzione). Il giansenismo venne duramente represso, così come le teorie giurisdizionaliste: in quest'ultimo ambito il caso più clamoroso fu la carcerazione di Pietro Giannone. L’Inquisizione processò altresì filosofi (celebre fu il processo contro gli ateisti napoletani del 1688-1697) e massoni (di rilievo fu l'offensiva contro i massoni fiorentini la cui vittima più illustre fu Tommaso Crudeli, arrestato nel 1739).

Lo scontro con i governi riformatori: verso l'abolizione dei tribunali

Dalla metà del Settecento in poi la Chiesa romana subì in modo sempre più veemente la contestazione illuministica e l'Inquisizione ne fece le spese: l’attività delle sedi periferiche fu limitata dai governi riformatori, quindi esse furono soppresse una dopo l'altra. Nel 1765-68 l'Inquisizione fu abolita nel ducato di Parma; nel 1775 Maria Teresa d'Austria stabilì che i delegati locali dell'Inquisizione nello Stato di Milano non sarebbero più stati sostituiti alla loro morte; nel 1782 il Sant'Uffizio fu abolito nel Granducato di Toscana; nel 1785 fu la volta di Modena, dove negli ultimi decenni della sua storia, l'attività del tribunale era stata ancora intensa (così come a Siena e a Malta, mentre altrove essa andava verso un inesorabile declino). Negli anni novanta l'attività dell'Inquisizione nella Repubblica di Genova e nella Repubblica di Venezia era di fatto esaurita. A fare il resto ci pensò Napoleone, durante le sue campagne italiane.

La "rottura" napoleonica

Il periodo napoleonico rappresentò una rottura significativa. Alla fine di esso niente più restava della un tempo efficiente e temibile rete dei tribunali dell'Inquisizione romana. Il Sant'Uffizio restava operativo solo nello Stato della Chiesa. Nel Lazio, peraltro, l'Inquisizione non aveva mai operato attraverso giudici locali poiché da Roma la Congregazione del Sant'Uffizio poteva governare agevolmente la situazione.

L'unità d'Italia e la chiusura delle ultime sedi periferiche

Alla fine dell'epoca napoleonica come sedi periferiche del Sant'Uffizio erano quindi rimaste in vita solo quelle nello Stato pontificio fuori dal Lazio. Queste cessarono di esistere nel 1860, con l'annessione dei territori pontifici, Lazio escluso, al neonato Regno d'Italia. Nel 1870, quindi, con l'annessione di Roma e del Lazio all'Italia e la fine dello Stato della Chiesa, la Congregazione del Sant'Uffizio perdeva definitivamente la sua rete giudiziaria territoriale.

Bibliografia

Approfondimenti e voci correlate

Approfondimenti storiografici

Voci correlate

Article written by Daniele Santarelli | Ereticopedia.org © 2013-2017

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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