Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444
Gregorio Barbarigo (Venezia, 16 settembre 1625 – Padova, 18 giugno 1697) è stato un vescovo e cardinale, membro della Congregazione dell'Indice. La Chiesa cattolica lo venera come santo (fu beatificato da Clemente XIII nel 1761 e canonizzato da Giovanni XXIII nel 1960).
Biografia
Gregorio Barbarigo nacque a Venezia il 16 settembre 1625, primogenito di Gianfrancesco e di Lucrezia Lion. La famiglia Barbarigo a Santa Maria Zobenigo apparteneva alla ristretta cerchia del patriziato veneziano, anche se non era tra quelle di nobiltà più antica e nemmeno poteva dirsi tra le più facoltose; quanto agli orientamenti ideologici il casato, che all’epoca della controversia dell’Interdetto era stato schierato a favore di una linea di fermezza nei confronti di Roma (l’omonimo nonno del Barbarigo, in particolare, era stato strettamente legato ai circoli sarpiani veneziani e allo stesso frate servita), già prima della metà del ‘600 aveva mutato orientamenti di politica ecclesiastica, collocandosi su posizioni decisamente più moderate, se non decisamente “papaliste”.
Il giovane Gregorio compì i primi studi a Venezia, sotto la diretta supervisione del padre, mostrandosi particolarmente interessato alle materie scientifiche, e in particolare alla matematica. Primogenito di una solida casata aristocratica, era naturalmente destinato all’attività politica, e pertanto, dopo alcuni anni dedicati alla formazione culturale di base, venne avviato dal padre alla carriera pubblica, attraverso il canale diplomatico. Nel 1643 accompagnò infatti l’ambasciatore veneziano Alvise Contarini al congresso di pace di Westfalia, trattenendosi a Münster fino al 1648: ivi si familiarizzò con le principali questioni politiche internazionali, seguendo da vicino la lunga e complessa trattativa finalizzata alla composizione della guerra dei Trent’anni. A Münster intrecciò un particolare legame con Fabio Chigi, nunzio papale in Germania, il quale, richiamato a Roma alla fine del 1651, dopo pochi mesi divenne cardinale, e nell’aprile del 1655 sarebbe stato eletto papa con il nome di Alessandro VII. Rientrato a Venezia, e compiuto un rapido cursus honorum, in breve tempo il Barbarigo ottenne l’accesso al Senato (consiglio dei Pregadi), mentre d’altra parte in lui andava maturando una personale vocazione di tipo religioso. Incerto sulla strada da percorrere, stante una certa attrazione verso la spiritualità contemplativa, che lo portò tra l’altro ad incontrare personalmente il discusso mistico laico milanese Giacomo Filippo Casolo, nel 1653 ricorse al consiglio del Chigi, allora Segretario di Stato di Innocenzo X, il quale lo indirizzò verso il sacerdozio secolare, e nel contempo verso lo studio del diritto civile e canonico all’università di Padova. L’ingresso nella vita ecclesiastica, ritardato dalle resistenze paterne, avvenne di fatto nell’aprile 1655, anno in cui il Barbarigo, ormai trentenne, da un lato venne ordinato sacerdote, dall’altro conseguì la laurea in utroque iure, che gli apriva la possibilità di una carriera ecclesiastica di curia. Nel marzo 1656 Alessandro VII Chigi lo chiamò a Roma, nominandolo dapprima referendario delle due Segnature e prelato domestico, nonché canonico della cattedrale di Padova, e successivamente (luglio 1657) vescovo di Bergamo. Entrato a Bergamo nel marzo 1658, il Barbarigo vi esercitò l'episcopato per circa sette anni, sviluppando un’energica azione pastorale, ispirata ad una concezione severa ed impegnata dell’onere vescovile, e condotta secondo un disegno già abbastanza organico del governo diocesano, dispiegato poi più ampiamente durante gli anni dell'episcopato padovano. Traslato nel marzo 1664 da papa Chigi alla diocesi di Padova, si trasferì nella nuova sede, ove rimase per trentatré anni, fino alla morte, seguita il 18 giugno 1697.
La quarantennale attività del Barbarigo nelle due sedi del Dominio veneto si sviluppò sulla base di una concezione severa ed impegnata dell’onere episcopale, e in particolare della dignità e responsabilità personale del vescovo in cura d’anime, che egli in parte mutuava da Carlo Borromeo, in parte aveva elaborato in proprio, specie per quanto concerne la dimensione teologico-spirituale e culturale dell’ufficio pastorale: negli anni successivi alla battuta d’arresto registrata a Westfalia dalla strategia espansiva di lungo periodo messa in campo da Roma in ordine alla riconquista del terreno perduto a causa della ribellione protestante, il Barbarigo appare come una figura che seppe avvertire e tradurre in linea d’azione operativa la necessità di una vera e propria inversione di rotta che, recuperando lo spirito e la lettera del dettato tridentino su problematiche spesso più enunciate che effettivamente affrontate, fondasse sull’opera di vescovi residenti ed attivi un nuovo processo profondamente riformatore in seno alla Chiesa cattolica (Billanovich).
Tradizionalmente, la storiografia locale orobica ha descritto l’episcopato barbadiciano come un momento fondamentale nell’opera di rinnovamento della Chiesa di Bergamo secondo le direttive tridentine. Di fatto, a Bergamo il Barbarigo dedicò le sue prime cure pastorali al clero, con numerose iniziative finalizzate ad elevare la formazione sacerdotale dei preti in cura d’anime, tra cui un esame particolare dei confessori, e potenziando le funzioni di controllo e coordinamento in capo ai vicari foranei; desiderando inoltre avere a disposizione un ‘nuovo’ clero, formato secondo le proprie direttive, si adoperò a limitare drasticamente le ordinazioni, rivitalizzando il seminario diocesano con l’ausilio di professori, assistenti spirituali e collaboratori amministrativi esperti e competenti, reclutati prevalentemente avvalendosi di contatti personali diretti con l’ambiente del Collegio gesuitico di Brera, istituto più volte scelto dal veneziano come ‘surrogato’ del seminario diocesano, specie per gli studi teologici. In parallelo a tale azione, egli ottemperò con assiduità al dovere pastorale della sacra visita, impegnandosi a visitare di persona tutte le parrocchie della diocesi, ed imperniando su questo atto fondamentale, condotto con metodico scrupolo, la maggior parte dei suoi interventi rivolti al popolo. Nel settembre 1660, nell'intento di precisare meglio e di consolidare la sua azione di riforma, il Barbarigo condusse a termine a Bergamo un sinodo diocesano, centrato specialmente sul tema degli ‘abusi’ dei sacerdoti in cura d’anime: convocato fin dal marzo precedente, tale sinodo era stato rinviato, perché il 5 aprile 1660 Alessandro VII aveva promosso il vescovo di Bergamo al cardinalato, chiamandolo quindi a Roma. La decisione del papa, che dava compimento ad una scelta maturata da tempo, consolidava ruolo e fortuna del veneziano, confermando inoltre la rapidità della sua ascesa, visto che la nomina giungeva a meno di due anni dal suo ingresso in diocesi di Bergamo, e a cinque anni esatti dall'ordinazione sacerdotale: il percorso curiale barbadiciano appare del resto atipico non tanto per la celerità della carriera, in sé non eccezionale, quanto piuttosto per il fatto che esso si era interamente compiuto sotto la diretta regia papale, che aveva curato di mantenere il giovane prelato veneziano costantemente al riparo dalle insidie e dalle vischiosità burocratiche tipiche del normale tran tran cortigiano.
Il conflitto latente tra la dignità cardinalizia, con gli annessi obblighi, tra i quali la presenza almeno saltuaria presso la Corte pontificia, e l’onere pastorale dell’episcopato, con la necessità di una continua e costante residenza in diocesi – che il Barbarigo riteneva obbligante in coscienza, in quanto de iure divino -, travagliarono a più riprese il prelato veneziano, per il quale l’impegno pastorale costituiva l’orizzonte esistenziale fondamentale. D’altro canto, l’azione di governo diocesano svolta con costanza dal cardinale venne indubbiamente rafforzata, specie negli anni padovani, dal fatto che a condurla fosse un membro del Sacro Collegio via via sempre più autorevole e stimato, il quale peraltro non concepiva la propria esperienza in un’ottica puramente ecclesiastica, ma agiva secondo moduli che ricordano per certi aspetti quelli adoperati dai rettori veneziani di Terraferma: in questo modo egli si inseriva - con un di più di esigente tensione religiosa - all’interno della consolidata tradizione di vescovi appartenenti al patriziato della Dominante, in grado di svolgere allo stesso tempo il ruolo di prelato ‘confidente’ della Repubblica, e di ‘magistrato alle anime’ consapevole di appartenere al corpo politico-sociale dirigente dello Stato. Nel momento in cui a Padova si impegnava a costruire un vero e proprio ‘sistema diocesano’, in grado di influire sulla società, capace di durare nel tempo e di essere tramandato, il Barbarigo operava dunque con un’autorità che, lungi dal porsi come dato unicamente gerarchico-ecclesiale, o – peggio – meramente ispettivo/burocratico, si poneva tendenzialmente come elemento di governo complessivo del territorio, che assumeva la parrocchia come struttura cardine della diocesi, attraverso la quale modellare il popolo cristiano in profondità, uniformandone la pratica religiosa, ed era poco disponibile, in tale ottica, a condividere con altre istituzioni ecclesiastiche (Ordini religiosi, Capitoli e corpi canonicali), o con altri centri di potere e di interesse della società laica (ad eccezione del braccio secolare statale, per quanto concerneva i casi più gravi rientranti nella sfera civile), la facoltà di intervenire nella regolazione e nel controllo del modo di vivere ed esprimere socialmente la fede da parte dei fedeli sottoposti alla sua giurisdizione. In tal senso, appare particolarmente significativa la circostanza per cui in più di un’occasione il cardinale di fatto scelse di agire come ‘inquisitore in proprio’, gestendo in prima persona situazioni che di per sé avrebbero dovuto essere rimesse alla competenza del Sant’Uffizio, a partire dal caso della ‘falsa santa’ Maria Janis, e del suo confessore e direttore spirituale Pietro Morali, curato di Zorzone, incontrati dal cardinale nel corso di una visita pastorale alle valli bergamasche nel 1658, in un periodo quindi in cui era assai vivo l’allarme per il fenomeno sociale e religioso degli oratori pelagini, i quali cionondimeno non vennero perseguiti dal vescovo, che si limitò a prendere informazioni sommarie sulla loro condotta. Ben più spinosa, poi, la vicenda di don Pietro Zanone, parroco di Alano di Piave particolarmente incline al misticismo, e fondatore di uno strano ‘convento’, annesso alla parrocchiale del paese, in cui alcune contadine e un terzetto di donne veneziane di condizione civile vivevano almeno dal 1678 in condizioni approssimativamente definibili come semi-monastiche, ma certamente non regolari sul piano del diritto canonico, oltre che sospette sotto il profilo religioso, in quanto avviate dallo Zanone, loro direttore spirituale, ad una pratica religiosa caratterizzata dall’orazione mentale e dal passivo abbandono in Dio: anche in questo caso il Barbarigo, venuto a contatto con tale situazione durante una visita pastorale nel 1686 – dunque in un periodo in cui era al suo apice la stretta antiquietista -, e presi immediatamente alcuni provvedimenti contingenti di carattere limitativo, procedette comunque con moderazione, evitando di porre il caso in mano al Sant’Uffizio, e impegnandosi – peraltro con scarso successo – a risolverlo nell’ambito della propria giurisdizione di ordinario diocesano, ricorrendo agli strumenti della persuasione più che a quelli della repressione, e giungendo solo nel 1694 a sciogliere il sodalizio e a colpire l’ostinato parroco con la sospensione a divinis, pena comunque piuttosto lieve a paragone di quelle che questi e le sue protette avrebbero potuto riportare nel caso di un processo inquisitoriale. Più in generale, la stessa attitudine a gestire in proprio le questioni relative alla fede la ritroviamo nel cardinale in relazione ai problemi emergenti in rapporto ai non cattolici, specie in diocesi di Padova: anche in tali casi, infatti, se da un lato – per esempio in relazione alla presenza di studenti protestanti presso lo Studio patavino o di medici ebrei operanti in città – si preoccupava di controllarne la presenza, le frequentazioni e le attività, allo scopo di evitare possibili influenze o proselitismi di tali categorie di persone sui cattolici padovani, dall’altro si impegnò attivamente in una politica conversionistica, segnata tuttavia da spirito “pastorale” e viva attenzione culturale più che da un’attitudine esclusivamente repressiva.
Impegnato a Padova, come già a Bergamo, nella riforma del clero in cura d’anime, nella città veneta mise in campo un’iniziativa di portata eccezionale, impegnandosi fin dal 1669 a rivitalizzare e potenziare fortemente, sul piano istituzionale ed economico, ma soprattutto a livello religioso e culturale, il seminario diocesano; nel 1671 vi dedicò un apposito codice disciplinare, l’Institutionum ad universum Seminarii Patavini regimen pertinentium epitome, derivato dalle analoghe Institutiones di Carlo Borromeo, e nel 1690, mettendo a frutto una ultradecennale esperienza teorico-pratica, ne licenziò una Ratio et institutio studiorum Seminarii Patavini, derivata dalla Ratio studiorum gesuitica del 1599, ma modificata in alcuni punti, specie per quanto concerne l’almeno parziale sostituzione della sintesi teologica scolastica con un approccio fondato in termini maggiormente ‘storico-positivi’. In tali documenti il cardinale forniva direttive precise sull’ordine delle materie da insegnare, su autori e testi da adottare, su orari e modalità di lezione, e in parallelo a ciò spingeva il proprio zelo fino a richiedere personalmente agli inquisitori di Padova e Venezia eventuali licenze di lettura per libri proibiti a beneficio dei docenti dell’istituto da lui ingaggiati per l’insegnamento di materie quali l’ebraico o l’arabo. Fortemente interessato alla promozione dell’istruzione religiosa del popolo, si impegnò nell’impiantare scuole di dottrina cristiana in ogni singola parrocchia, esortando sistematicamente i parroci al compimento del loro dovere in materia, e controllando – direttamente e personalmente in occasione delle visite pastorali, indirettamente attraverso la rete dei vicari foranei, a ciò appositamente sensibilizzati – l’effettivo andamento dell’iniziativa.
L’atteggiamento eminentemente pragmatico del cardinale, preoccupato soprattutto di affinare e mettere a punto gli strumenti di governo pastorale già esistenti, magari rimotivandoli culturalmente, piuttosto che di emanare nuove disposizioni canoniche, si riflette anche nella circostanza che in entrambi i sinodi diocesani da lui riuniti a Padova si limitò a confermare in gran parte le disposizioni dei propri predecessori; va inoltre ricordato che egli non lasciò nulla di scritto, all’infuori di costituzioni, editti, istruzioni e lettere pastorali. La medesima impostazione dominò anche la sua visione teologica, poco incline alle sottigliezze metafisiche, e saldamente ancorata al magistero dei Padri ed alle disposizioni contenute nei canoni conciliari. Unica parziale eccezione fu l’opposizione risoluta al quietismo, che egli tuttavia combatté sul piano pratico della pastorale e non su quello teorico, pur avendone percepita la pericolosità con chiarezza ed anche in anticipo rispetto alla condanna ufficiale di Innocenzo XI, visto che – a parte il sostegno offerto agli sforzi antimolinosisti dei gesuiti Segneri e Belluomo – si impegnò direttamente a contrastare in diocesi la diffusione, specie presso alcuni monasteri femminili cittadini, degli scritti di Pier Matteo Petrucci, andò di persona a predicare contro i quietisti in alcune chiese conventuali di Padova, e soprattutto, il 14 novembre 1682, in accordo con l’inquisitore patavino, il conventuale Oliviero Tieghi da Ferrara, emanò un Editto contro le conventicole de’ falsi contemplativi, con il quale colpiva direttamente i quietisti della diocesi, minacciandoli apertamente di scomunica. Iniziative, specie questa ultima, che vennero ampiamente richiamate in occasione del processo di beatificazione del cardinale, avviato nel 1699 e coronato da successo nel 1761, mentre nello stesso procedimento vennero prudentemente omesse, oltre alle simpatie sarpiane dei suoi ascendenti paterni, sia il rapporto del giovane veneziano con il Casolo, sia il legame di tutta la casata dei Barbarigo con la veneziana Cecilia Ferrazzi, oggetto nel 1664-65 di un processo inquisitoriale per affettata santità, che si concluse con la condanna della stessa a sette anni di reclusione, poi ridotti a quattro, probabilmente proprio in seguito ad un intervento in suo favore del cardinale, che ne aveva ottenuto la custodia giudiziaria.
La perdita dell’archivio padovano del Sant’Uffizio non consente di focalizzare nel dettaglio i rapporti tra il cardinale e gli inquisitori della città veneta, francescani conventuali, ma esistono indizi documentari che consentono di intuire una situazione caratterizzata da un lato da una stretta collaborazione tra vescovo e Sant’Uffizio locale nella repressione dell’eterodossia conclamata (per esempio nel caso del pelagino Bartolomeo Griffi, custodito nel 1684 nel palazzo episcopale dopo che l’Inquisizione di Padova lo aveva condannato alla relegazione in un convento, senza che tuttavia fosse stato possibile reperire in città una struttura conventuale disponibile a riceverlo), dall’altro da una precisa e puntuale riaffermazione dei propri ruoli e prerogative da parte del vescovo, che non solo non era disponibile a sostenere gli inquisitori padovani nel corso delle loro liti contro i canonici della cattedrale in materia di precedenza ed onore, ma che nel 1682 – alla vigilia dell’editto antiquietista cui si è già accennato - non si peritava di negare all’inquisitore il pagamento di una robusta pensione ecclesiastica sulla mensa episcopale a favore del Sant’Uffizio patavino. Circostanza, quest’ultima, ancora più interessante alla luce del fatto che il Barbarigo era stato inserito già da Alessandro VII tra i membri della Congregazione dell’Indice, dicastero alle cui riunioni il cardinale presenziò nel corso dei suoi soggiorni romani del 1663 (quattro sedute), e soprattutto del 1676-79 (dieci sedute), durante il periodo iniziale del pontificato di Innocenzo XI Odescalchi.
Fonti
- ACDF (= Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede), Index, Diarii, vol. VII (1665-1682).
- Giovanni Chiericato, Lettere pastorali, editti, decreti pubblicati in diversi tempi dall’Eminentissimo e Reverendissimo Gregorio Cardinale Barbarigo […], Padova, Tipografia del Seminario, 1690.
Bibliografia
- Liliana Billanovich, Pierantonio Gios (a cura di), Gregorio Barbarigo patrizio veneto, vescovo e cardinale nella tarda Controriforma (1625-1697), Istituto per la storia ecclesiastica padovana, Padova 1999.
- Liliana Billanovich, Esperienze religiose negate nel tardo seicento: il parroco e le devote di Alano fra vescovo e comunità rurale. In Billanovich, Liliana (a cura di), Studi in onore di Angelo Gambasin. Dagli allievi in memoria, Neri Pozza, Vicenza 1992, pp. 43-131.
- Pierantonio Gios, L’itinerario biografico di Gregorio Barbarigo. Dal contesto familiare all’episcopato. Lettere ai familiari (1655-1657), Istituto per la storia ecclesiastica padovana, Padova 1996.
- Pierluigi Giovannucci, Il processo di canonizzazione del card. Gregorio Barbarigo, Herder, Roma 2001.
- Pierluigi Giovannucci, Il decennio finale dell’episcopato padovano. Lettere di Gregorio Barbarigo ai familiari (1688-1697), Istituto per la storia ecclesiastica padovana Padova 2011.
- Pierluigi Giovannucci, «Gesuiti desiderosissimi del suo servitio». Le relazioni epistolari tra Gregorio Barbarigo e i membri della Compagnia di Gesù, Istituto per la storia ecclesiastica padovana, Padova 2016.
- Anne Jacobson Schutte, Gregorio Barbarigo e le donne: “buone cristiane” e “false sante”, in Liliana Billanovich, Pierantonio Gios, Gregorio Barbarigo patrizio veneto, vescovo e cardinale nella tarda Controriforma, pp. 845-866.
- Catia Magni, Governare la diocesi nei conflitti. Lettere di Gregorio Barbarigo ai familiari (1671-1676), Istituto per la storia ecclesiastica padovana, Padova 2011.
- Pio Pampaloni, Gregorio Barbarigo alla corte di Roma (1676-1680). Lettere familiari e di governo, Istituto per la storia ecclesiastica padovana, Padova 2009.
- Gianvittorio Signorotto, Inquisitori e mistici nel Seicento italiano. L’eresia di Santa Pelagia, il Mulino, Bologna 1989.
Article written by Pierluigi Giovannucci | Ereticopedia.org © 2017
et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]