Giurisdizionalismo

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


Il giurisdizionalismo è una dottrina giuridica nata tra il XVII e il XVIII secolo, per la quale lo Stato deve intervenire negli affari ecclesiastici regolandoli e controllandoli nel nome dell'interesse collettivo. In Italia si affermò e si sviluppò in particolare nel Regno di Napoli. Politiche giurisdizionaliste vennero poi adottate dai governi riformatori degli Stati della Penisola durante il XVIII secolo.

Anticurialismo e giurisdizionalismo a Napoli

Nella seconda metà del XVII secolo nei principali centri culturali d’Italia si erano ampiamente diffuse le nuove idee filosofiche, che facevano riferimento al pensiero di Cartesio, Gassendi, Malebranche e degli altri razionalisti, e particolarmente negli ambienti giuridici. Il successo del pensiero razionalista fu particolarmente forte a Napoli: la riflessione sulla «libertas philosophandi» spinse alla rottura rispetto alla tradizione aristotelica-tomista, nel nome di una libera ricerca della verità, che liquidava ogni pregiudiziale metafisica, nel nome della Ragione e nel progresso scientifico, rifiutando ogni autorità costituita e basandosi sull'esperienza e sulla verificabilità.
Tra i principali esponenti delle nuove idee filosofiche a Napoli vi furono Tommaso Cornelio e Costantino Grimaldi: la loro ricerca si orientava verso un sapere probabilistico, verosimile e si fondava sul rifiuto delle leggi eterne e principi immutabili retaggio della filosofia tomistica.
La distinzione tra res cogitans e res extensa giustificava i limiti della conoscenza umana e al contempo un'esaltazione della forza critica della ragione, anche nel campo della riflessione storica e politica, favorendo una visione relativistica della realtà; dalla teoria cartesiana delle passioni derivava una concezione politica fondata sulla necessità di una guida razionale del corpo sociale, in grado di controllare l’irrazionalità e la passionalità del «popolo» e guidarlo alla civile convivenza.
Comunque, i filosofi napoletani non furono dei semplici seguaci o imitatori a Napoli di Cartesio e degli altri razionalisti: le opere di questi venivano meditate e reinterpretate tenendo conto innanzi tutto della loro portata innovatrice e di rottura rispetto alla tradizione, che veniva radicalmente contestata. Pur nell'eclettismo delle singole prospettive teoriche, un elemento comune era sempre presente: l'esaltazione dell'«esperienza».
Queste nuove idee non mancarono di suscitare l’attenzione e la preoccupazione dell’Inquisizione: è celebre l’indagine a carico degli «atomisti» napoletani, avviatasi nel 1688 con la delazione di Francesco Paolo Mannuzzi e culminata con alcune condanne di giuristi e letterati che aderivano e diffondevano le idee di Cartesio e Gassendi.
Le nuove idee si diffusero anche nell’ambito universitario: l’Università di Napoli era d’altronde il luogo privilegiato di formazione di un «ceto civile», altrimenti detto ceto togato, che si andò sviluppando prepotentemente a partire dalla metà del Cinquecento. L'Università fu fondamentale per l'affermazione e lo sviluppo del ceto togato, attraverso la valorizzazione del diploma in legge, che permettevano l'accesso a ruoli sociali sempre più di primo piano. Non a caso i principali legisti dell'università partenopea si trovarono spesso in forte contrasto con le autorità spagnole il cui sforzo fu a più riprese teso a moderare l'avanzata sociale e l'influenza dei dottori in legge.
D’altronde l’accesso al titolo di dottore in legge e la carriera giuridica costituivano un importante veicolo di mobilità sociale che innalzava i «borghesi» alle più alte sfere del potere. Uno studio della Del Bagno mostra, già tra i laureati in diritto civile ed ecclesiastico dello Studio di Napoli tra 1584 e 1648, una nettissima prevalenza dei borghesi (87,6%); una minoranza non trascurabile era costituita dagli ecclesiastici (11,8%), ma, dato assai significativo, la percentuale dei nobili era praticamente nulla (0,3%).
Si veniva consolidando così un ceto togato con piena coscienza di sé che aspirava ad essere ceto dirigente e che di fatto lo era diventato nella seconda metà del Seicento: un ceto molto attento alla formazione e selezione dei funzionari e alla valorizzazione del loro peso sociale, per cui il Viceregno è stato definito una «repubblica di togati». Fondamentale in questo ambito era il ruolo svolto dal Collegio dei Dottori, che riconosceva il dottorato ai giovani giuristi formati nell'università: «Nella città di Napoli – ricordava il Giannone – i gradi del dottorato non si conferiscono dall'Università degli studi, sicome è in altra città, ma dal Gran Cancelliero del Regno e suo Collegio de' Dottori» . Il prestigio sociale dei togati era dunque a Napoli molto superiore rispetto alla Spagna, e questo portò a non pochi contrasti con le autorità spagnole che cercarono di limitare l'influenza del ceto togato.
Accanto all'università sorsero delle scuole private, il cui ruolo fu altrettanto importante e forse superiore come veicolo delle nuove idee e che fiorirono nella seconda metà del Seicento. Quelle dei più illustri giuristi, docenti all'università, erano le più ambite da frequentare da parte dei giovani studenti in legge. Anche queste scuole ovviamente risentivano del nuovo clima culturale e gli insegnamenti non si limitavano al solo ambito della giurisprudenza, ma si allargavano alla filosofia, alla storia, alla scienza medica e alle scienze sperimentali.
In questo contesto trovò fertile linfa per il suo sviluppo il giurisdizionalismo: un certo «regalismo anticurialista» era presente a Napoli sin dalla seconda metà del Cinquecento, teso a limitare i privilegi e gli abusi derivanti dallo status ecclesiastico, soprattutto in seguito alla pubblicazione della bolla In coena Domini (1568) da parte da parte di papa Pio V e della Cum alias nonnulli (1591) da parte di Gregorio XIV, che ribadivano i grandi privilegi e l’autonomia giurisdizionale del clero. Nel 1650 nel Regno di Napoli si trovavano un terzo degli ecclesiastici della penisola: la professione ecclesiastica era considerata particolarmente attraente e nelle file del clero si trovavano molti opportunisti e profittatori. L’esigenza di una «guida razionale del corpo sociale», diffusa dalla filosofia razionalista, spingeva a regolare in modo razionale anche i rapporti tra Stato e Chiesa. La Santa Sede da parte sua si opponeva a qualsiasi intervento da parte dell'autorità statale teso ovviamente a limitare le rendite ecclesiastiche e disciplinare la questione.
I principali giureconsulti partenopei si trovarono spesso coinvolti nei contrasti tra Stato e Chiesa, nel ruolo di difensori degli interessi dello Stato contro i privilegi ecclesiastici. Gaetano Argento, che nel 1707 era entrato nel Sacro Regio Consiglio e quindi nel 1708 come avvocato del fisco nella Giunta di Stato, si trovò in prima linea nel difendere e giustificare il provvedimento dell'imperatore Carlo VI d'Asburgo, appena impossessatosi del Regno di Napoli, di sequestro dei benefici e delle rendite ecclesiastiche del Regno, che causò un grave contrasto con papa Clemente XI, e da allora in poi l'Argento si trovò coinvolto in tutte i principali conflitti giurisdizionali tra lo Stato e le autorità ecclesiastiche, avvalendosi ovviamente anche della preziosa collaborazione del giovane Giannone, il quale ricordava quanto quelle vicende così importanti fossero state fondamentali per la sua formazione: «Queste contese somministrarono più occasioni di studiare sopra tali materie; e per opporsi con maggior vigore, non si rimase […] a' solo essempi ed alle loro massime, cavate da un immaginario e non ben sodo e stabile diritto canonico, ma si passò più avanti, a gli origini, a' canoni, alle dottrine de' Padri, ed all'antica ed incorrotta disciplina della Chiesa; sicché si cominciavano a dimostrare con maggior evidenza le usurpazioni ed attentati e, per conseguenza, e più fortemente resistergli. Le investigazioni delle quali cose, poiché l'Argento per alleviar tanta fatica solea valersi della mia opera e di altri suoi allievi, fecero che io maggiormente stendessi le mie conoscenze e toccassi più a fondo le origini, onde tante contese giurisdizionali provenissero, ed a che deboli ed arenosi fondamenti si appoggiassero le macchine che la Corte romana, più che per altrui debolezza e ignoranza, che per propria virtù, avea innalzate, e che la sola dottrina delle origini e la sola istoria delle occasioni de' loro progressi bastava a rovesciarla».

Conseguenze del giurisdizionalismo

Le politiche riformistiche adottate dai governi italiani in particolare nella seconda metà del XVII secolo intaccarono pesantemente i privilegi della Chiesa. L'azione dei governi spinse ad una riduzione quantitativa del clero per diminuire le aree di esenzione e immunità fiscale, con l'obiettivo di integrarlo in maniera funzionale nell’organizzazione della cura delle anime, esaltando la funzione del sacerdote come funzionario pubblico, non senza contrasti con la Santa Sede (per appianare i contrasti si ricorse all’espediente del Concordato). Essa favorì il declino degli ordini religiosi, soprattutto allorché i governi passarono da una politica concordataria a una decisamente anti-curiale ed anti-fratesca. Ne fecero le spese, com’è noto, soprattutto i gesuiti. Il che fece sì il ruolo egemone nella pastorale ecclesiastica venisse preso in mano definitivamente dal clero parrocchiale (la rivoluzione francese e l'età napoleonica completarono questo processo). Gli stessi vescovi si divisero in due fronti, uno filopapale ad oltranza ed un altro giansenista e giurisdizionalista: in Toscana, in particolare, vi furono le premesse per la costituzione di una chiesa “nazionale”.

Infine, tra le conseguenze delle politiche riformistiche ci fu l'abolizione dei tribunali del Sant'Uffizio in tutti i principali stati italiani (tranne che lo Stato della Chiesa).

Bibliografia

  • M. Agrimi, Descartes nella Napoli di fine Seicento in Descartes: il metodo e i saggi, a cura di G. Belgioioso, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma 1990, pp. 545-586.
  • A. Borromeo, Abolizione dei tribunali, Italia in DSI, vol. 1, pp. 6-8.
  • I. Del Bagno, Legum doctores. La formazione del ceto giuridico a Napoli tra Cinque e Seicento, Jovene, Napoli 1993.
  • Ead., Il collegio napoletano dei dottori: privilegi, decreti, decisioni, Jovene, Napoli, 2000.
  • A. Lauro, Il giurisdizionalismo pregiannoneo nel Regno di Napoli. Problemi e bibliografia (1563-1723), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1974.
  • M. Rosa (a cura di), Clero e società nell'Italia moderna, Laterza, Roma-Bari 1992.
  • P. L. Rovito, Respublica dei togati. Giuristi e società nella Napoli del Seicento, Jovene, Napoli 1981.
  • A. Stella, Chiesa e Stato nelle relazioni dei nunzi pontifici a Venezia. Ricerche sul giurisdizionalismo veneziano dal XVI al XVIII secolo, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1964.

Article written by Daniele Santarelli | Ereticopedia.org © 2013

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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