Vanini, Giulio Cesare

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


Giulio Cesare Vanini (Taurisano, 19/20 gennaio 1585 - Tolosa, 9 febbraio 1619), filosofo razionalista radicale agli albori dell'età moderna, condannato a morte per ateismo.

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1. La vita

Giulio Cesare Vanini nacque a Taurisano da Giovanni Battista e da Beatrice Lopez de Noguera. La data della nascita, presumibilmente la notte tra sabato 19 e domenica 20 gennaio 1585, si deduce da taluni riferimenti autobiografici contenuti nelle due opere a noi pervenute (Da., 129, 172, 322-323; 426, 491, 493; Amph., 25, 71) e da un attento studio delle effemeridi del Magini (Ephemerides Coelestium Motuum ad annos XL, ab anno Domini 1581 ad annum 1620,Venetiis 1582, p. 65). La datazione dell’anno è altresì confermata dal giuramento della laurea che cadde il 1° giugno 1606, allorché il Vanini doveva aver compiuto i ventuno anni d’età, in conformità ad un decreto del 1591, che, come sappiamo dalle ricerche del Cortese, aveva elevato l’età minima per l’accesso alla laurea da 17 a 21 anni (Nino Cortese, Storia della Università di Napoli, Napoli 1924, p. 366).
I Vanini godevano indubbiamente di una certa agiatezza economica. Il padre Giovanni Battista (1515-1606), intendente dei Gattinara, proveniva da Tresana nella Lunigiana. La madre, Beatrice Lopez de Noguera, apparteneva ad una famiglia di arrendatori delle regie dogane, i quali tenevano sotto controllo le imposizioni fiscali di tutta la Puglia e la Basilicata. Degli altri esponenti della famiglia sappiamo ben poco. Il fratello Alessandro è menzionato solo come continuatore delle funzioni esercitate dal padre nella contea di Castro. Abbiamo notizia di una zia Isabella e di uno zio Gabriele de Noguera, sacerdote, i quali erano rispettivamente sorella e fratello della madre Beatrice.
All’ambiente salentino è certamente riconducibile la prima formazione del giovane Vanini. Tuttavia la carenza delle fonti documentarie non ci consente di stabilire dove e quando seguì i classici corsi del trivium e del quadrivium prima di accedere alla Facoltà di Diritto presso lo Studio napoletano. Sicché resta un grave e forse incolmabile vuoto nel nostro approccio al Vanini: quello di ignorare quasi del tutto quale fu la sua prima formazione e che ruolo essa ebbe nella successiva assimilazione della religione carmelitana.
Tra il 1601 e il 1602 Giulio Cesare si trasferì a Napoli per seguirvi i corsi di diritto, per i quali occorreva attestare una frequenza di almeno cinque anni continui. L’anno successivo, secondo quanto si evince da una lettera del Carleton, datata 17 febbraio 1612, abbracciò la fede carmelitana (del ramo dei calceati o scarpati) ed entrò nel chiostro partenopeo del Carmine Maggiore, ove assunse il nome di fra’ Gabriele.
È presumibile che la sua scelta religiosa sia stata sincera e che non sia stata dettata da motivazioni economiche, né forzata da vincoli esterni. Non si trattò tuttavia di una vocazione profonda se si pensa che nel liquidare il suo patrimonio intorno al 1607 e il 1608 egli non avvertì lo scrupolo religioso di attenersi alle Costituzioni dell’Ordine (le più recenti erano quelle del Caffardi) le quali prevedevano la cessione dei beni al Convento di appartenenza. In ogni caso il primo giugno 1606 conseguì la laurea in utroque iurepresso il Collegio dei Dottori legisti, come attesta il suo giuramento giacente presso l’Archivio di Stato di Napoli (Collegio dei Dottori, vol. 71, ff. 41r – 43v).
A Napoli Vanini strinse amicizia con due confratelli, Bartolomeo Argotti e Giovanni Maria Ginocchio (fra’ Bonaventura in religione), il primo radicato nel chiostro di San Bartolomeo di Cremona e il secondo in quello di Genova. Nel 1608 i due confratelli decisero di scendere insieme, e per un breve periodo, nel Carmine Maggiore di Napoli. In tale data, infatti, la presenza di Ginocchio a Napoli è attestata dalla dedica di due carmina latina al Tempio Eremitanodi Ambrogio Staibano da Taranto, che proprio in quell’anno vedeva la luce per i tipi di Torquato Longo, e, come ci informa Spampanato (Nuovi documenti intorno a negozi e processi dell’Inquisizione (1603-1624), in «Giornale critico della filosofia italiana», V, 1924, p. 106), di un epigramma in onore di Pietro Crisologo da Imola, pubblicato negli Elogia del Capaccio. Nel corso di quello stesso anno Argotti e Ginocchio si accompagnarono al Vanini nella visita al Museo di Ferrante Imperato.
Nel febbraio 1610, in qualità di diacono carmelitano, sostiene nella diocesi arcivescovile partenopea gli esami per ottenere la licentia concionandi forse nella speranza di fare carriera come predicatore (Archivio Storico Diocesano di Napoli, Reg. II, ff. 15- 157). Nell’ottobre dello stesso anno si trasferisce a Padova, attratto dalla grande rinomanza dello Studium, nell’intento di conseguire la laurea in teologia o in artibus. La brevità del soggiorno padovano, che si protrasse per poco più di un anno, ci induce a ridimensionare l’ipotesi tradizionale secondo cui il pensiero vaniniano subì la forte influenza dell’aristotelismo veneto. Di contro la lunga permanenza nella capitale partenopea (1601-1610) induce a pensare che furono ben più salde le matrici napoletane del suo pensiero. Ciò non toglie che a Padova Vanini si sia accostato ai classici testi della medicina ippocratica e galenica, a quelli più recenti di Abano, Pomponazzi, Fracastoro, Lemnio, Cardano e agli scritti di pensatori arabi, come Abenragel, al Ghazali, Avicenna, Thabit Qurrat e Albumasar.
Il 28 gennaio 1612 un singolare episodio sconvolse la vita conventuale del Taurisanese ed impresse una svolta radicale alla sua vicenda umana: il generale dell’Ordine carmelitano, Enrico Silvio, adottò un provvedimento che costringeva lui e il confratello Ginocchio a trasferirsi sub poena arbitraria rispettivamente nella Terra del Lavoro e nel convento pisano. Ignoriamo le motivazioni del provvedimento che agli occhi del Vanini risultò una ingiustissima punizione. Si trattò comunque di una censura di carattere disciplinare, alla quale però non furono del tutto estranee motivazioni di squisito sapore dottrinale e teologico.
Nel timore di perdere la propria libertà intellettuale e di essere relegati in realtà culturalmente povere, i due frati decidono di tentare la fortuna in Inghilterra e prendono contatto con l’ambasciatore inglese a Venezia, Dudley Carleton, presentandosi come difensori della autonomia politico-religiosa del popolo britannico e come confutatori degli scritti antigiacobiti del Bellarmino. Ciò fa presumere che nel 1612 Vanini fosse in crisi sul piano della fede. La lunga frequentazione degli Studi napoletano e patavino, a contatto con filosofie marcatamente naturalistiche, aveva contribuito non poco a scardinare quelle più intime convinzioni che nel 1603 lo avevano indotto ad indossare il saio carmelitano.
L’ipotesi che Sarpi o i sarpiani abbiano in qualche modo garantito l’entratura del Vanini presso il diplomatico inglese è contraddetta da almeno due circostanze: la prima è che il soggiorno vaniniano a Venezia fu molto breve e non si protrasse oltre una ventina di giorni (dal 28 gennaio al 17 febbraio 1612); la seconda è che Carleton entrò in contatto con il Servita con la lettera del 12 agosto 1612, quando ormai i due carmelitani si erano rifugiati in Inghilterra. In ogni caso l’ambasciatore, assicuratosi della buona fede e onestà dei due frati in una serie di colloqui (conferences) personali, oltre che attraverso un’affrettata indagine de vita et moribus, condotta dal cappellano Horne, il 17 [7] febbraio 1612 [1611] inoltrò la loro supplica al Primate d’Inghilterra, George Abbot, e ne diede avviso al Tesoriere del Regno, nonché Segretario di Stato, Lord Salisbury, dopo averli prudentemente indotti a lasciare il territorio veneto.
L’arrivo a Londra dei due transfughi cadde il 20 [10] giugno 1612: ce ne dà notizia John Chamberlain, il quale in una lettera datata 21 [11] giugno afferma che il giorno precedente i due frati avevano cercato di contattarlo - senza però riuscirvi - a causa di una sua momentanea assenza dalla città. In ogni caso - assicurava - essi avevano raggiunto da soli la sede di Lambeth ed erano stati benevolmente accolti dall’arcivescovo di Canterbury, George Abbot. Questi muse subito in atto i preparativi per la loro formale apostasia. Infatti, la domenica dell’8 luglio nella Mercers’Chapel, detta anche Chiesa degli Italiani, alla presenza di un ospite illustre quale Sir Francis Bacon, sicuramente in veste politica, i due frati pronunciarono l’abiura dal cattolicesimo.
La loro defezione, come era facilmente prevedibile, mise in allarme i vertici dello Stato Pontificio. Il 2 agosto Ubaldini, Nunzio Apostolico di Francia, passò la notizia al Segretario di Stato, Scipione Caffarelli Borghese, e quindi al Santo Uffizio, e si attivò per il loro recupero attraverso canali riservati che facevano capo a Girolamo Moravo, cappellano dell’ambasciatore veneto a Londra Antonio Foscarini.
Ma l’Inghilterra non rappresentò per i due italiani la terra promessa in cui essi avevano riposto tutte le loro speranze di successo. Ben presto un muro di incomprensioni fece nascere in loro una scottante delusione. Fin dai primi giorni del 1613 si fecero più o meno palesi i primi segnali di malcontento. Una lettera del Chamberlain, datata 24 gennaio 1613, ci dà un quadro della situazione: entrambi i frati lamentano la mancanza di denaro ed avvertono il disagio di dover provvedere alle più elementari necessità; si sentono soffocati ed isolati nelle rispettive residenze ed anzi il Ginocchio, relegato in una villa di campagna a York, sigla disperatamente le sue lettere col nome Johannes in deserto.
La realtà è che essi sono riusciti a ristabilire i contatti con la chiesa cattolica e cominciano a nutrire la speranza di ottenere, con il perdono papale, la possibilità di vivere in abito secolare. Nel mese di marzo 1613 si affrettano a far pervenire a Roma un loro memoriale in cui chiedono l’assoluzione in foro fori, la liberazione dai voti della religione del Carmelo e la concessione dell’abito secolare. Il pontefice Paolo V li invita invece a comparire spontaneamente in Congregazione. La definitiva e positiva decisione del Santo Uffizio matura il 22 agosto 1613 ed è immediatamente comunicata dall’inquisitore Millini ai due nunzi di Fiandra e di Francia, i quali si dichiarano pronti a dare esecuzione agli ordini ricevuti da Roma. La medesima informativa viene trasmessa il 10 di settembre dal Millini al Velasco, ambasciatore spagnolo a Londra.
Nel frattempo fin dal novembre del ’13 l’arcivescovo di Canterbury è al corrente, attraverso vie tortuose e segrete, che Vanini aveva scritto alle autorità pontificie con il proposito di ottenerne il perdono. Nell’intento di smascherarlo, Abbot lo fa interrogare da una persona fidata; ma il Salentino non cade nella trappola e non scopre le sue carte. Al Primate, divenuto ormai fortemente sospettoso, non rimane che sottoporlo a stretta sorveglianza. Tra il dicembre e il gennaio i suoi sospetti si fanno più consistenti e, benché non abbia tra le mani elementi concreti, è pronto a giocare la carta dello spionaggio. Da tempo il filosofo gli aveva chiesto di poter visitare Cambridge e Oxford, attratto dalla fama dei due maggiori centri universitari dell’isola. Nel dicembre Abbot gli concede di recarsi a Cambridge. La visita ad Oxford cade, invece, intorno al 19 [9] di gennaio del 1614 [1613]. Questa volta il Primate gli mette alle calcagna alcuni emissari con l’incarico di sondarne i movimenti e le intenzioni. La lontananza da Lambeth incoraggia Vanini a tenere una condotta più libera e ad abbassare il livello di guardia. Ma proprio ciò lo fa cadere nella rete tesagli dall’astuto Abbot: si lascia ingenuamente sfuggire qualche confidenza e confessa - forse a Richard Sheldon, che, da prete secolare, si era convertito all’anglicanesimo nel 1612 - di avere in animo il progetto di rientrare in Italia con il consenso del re Giacomo I. Per il Primate è la conferma che tutti i suoi sospetti erano fondati e che i due transfughi erano rei di tradimento.
La domenica del 2 febbraio 1614, al rientro da Oxford, dopo avere predicato nella Cappella dei Merciai ed avere promesso all’uditorio un ulteriore intervento programmato per la domenica successiva, i due sventurati frati vengono sottoposti separatamente ad un primo interrogatorio e, il giorno seguente, ad un secondo interrogatorio. Ai reports abbotiani relativi a tale fase processuale è stata riconosciuta una indiscussa verità storica, ma di fatto essi erano solo il frutto della sarcastica ironia del Primate, come è emerso dalla documentazione dell’Archivio diocesano di Westminster ovvero dal verbale della second examination resa il 15 febbraio 1614 [5 febbraio 1613] alla presenza di tre testimoni, Richard Mocket, William Baker e Ascanio Baliani, davanti alla High Commission (presieduta dallo stesso Abbot e composta da James Montagu, Bishop of Bath and Wells, da John King, Bishop of London, da Richard Neile, Bishop of Lichfield and Coventry e da Lancelot Andrewes, Bishop of Ely).
I documenti di Westminster ci permettono di comprendere le motivazioni che indussero i due frati ad abbandonare il mondo cattolico. Dalla declaratio di Vanini sembra si possa dedurre che la sua fuga in Inghilterra aveva il carattere di una scelta provvisoria, limitata nel tempo fino alla conclusione del generalato di Enrico Silvio (desiderabam in aliquem tutum locum me recipere, donec ille generalatum absolveret).
In ogni caso i due ex-frati riescono a scampare il pericolo di punizioni più o meno severe. Ginocchio per primo mette in atto una rocambolesca evasione nella notte tra il 13 e il 14 febbraio e trova riparo presso l’ambasciatore spagnolo Don Diego Sarmiento de Acuña, futuro Conte di Gondomar, fino al 7 marzo successivo. Il clamore suscitato dalla sua evasione rende più difficile il còmpito di mettere in salvo Vanini, poiché il Primate lo fa trasferire da Lambeth «nel carcere pubblico» (en la carzel publica), ovvero nella Gatehouse. Nel frattempo un’abile intesa diplomatica tra Sarmiento e Giacomo I predispone i canali per la sua fuga di Vanini, la quale ebbe luogo la sera del 23 marzo 1614.
Il loro arrivo in Fiandra presso la nunziatura del Bentivoglio cade il 22 di marzo (per Ginocchio) e il 3 di aprile (per Vanini). In Belgio si rifiutano di sottoporsi all’abiura, adducendo a propria discolpa il pretesto di non avere offeso la verità della religione cattolica (ovvero di non aver peccato in foro conscientiae). Intanto essi lasciano Brussel. Ginocchio raggiunge Genova e Vanini si reca da Ubaldini per chiedere il permesso di pubblicare l’Apologia pro Concilio Tridentino, scritta probabilmente sul suolo britannico. La risposta del cardinale è evasiva e mira soprattutto a convincerlo a rientrare in Italia. Lasciata Parigi, il Salentino rimane in Francia; sosta per qualche giorno a Lione, poi a Nizza, a Marsiglia, a Baiona e a Cap Breton. A metà ottobre è di nuovo da Ubaldini, il quale fa mostra di essere favorevole alla stampa dell’Apologiae con una lettera di raccomandazione tenta di indurlo a raggiungere Roma. Ma Vanini preferisce fermarsi a Genova, ove stringe amicizia con il carmelitano Gregorio Spinola, da lui giudicato degno della porpora cardinalizia, e trova ospitalità presso Scipione Doria che gli affida la cura del figlio Giacomo.
Il 19 gennaio 1615 l’inquisitore genovese ordina al Capitano di Chiavari di procedere all’arresto di Ginocchio. Vanini si mette subito in allarme. Abbandona la capitale ligure, ripara a Lione ove in giugno dà alle stampe l’Amphitheatrum. Quindi riprende i contatti con Ubaldini con il preciso intento di sondarlo e di accertarsi se il Santo Uffizio ha aperto nei suoi confronti qualche procedimento. Le reticenze del Nunzio lo rendono sospettoso e perciò decide di rompere definitivamente i ponti con la chiesa cattolica e di tentare la fortuna nel milieu culturale parigino.
Qui Dempster, storico scozzese conosciuto a Londra, lo mette in contatto con Arthur D’Epinay de Saint-Luc che a sua volta lo introduce negli ambienti di corte, ponendolo sotto la protezione del potente Bassompierre. Nella capitale francese Vanini respira di nuovo, dopo Padova, un clima di libertà: frequenta personaggi del calibro del Montmorency, Cramail e Sillery. Entra nell’entourage dei poeti-filosofi libertini, che facevano capo a Théophile de Viau e godevano della protezione politica del Bassompierre, del Montmorency e del Cramail. Vanini ne diventa il teorico, il pensatore capace di dare consapevolezza filosofica alla loro inquietudine moderna e alla loro incoercibile istanza di emancipazione intellettuale. Nell’entusiasmo prodotto da tale libertineggiante clima culturale egli mette a frutto il suo razionalismo radicale nel De admirandis, dato alle stampe nel settembre 1616 e presto divenuto un bestseller. Ma è facile intuire che le autorità preposte alla censura non possono a lungo ignorare lo scandalo. I tempi di intervento della Facoltà di Teologia della Sorbona sono strettissimi: messa sull’avviso dagli stessi censori, Corradin e Le Petit, il 1° ottobre 1616, dopo appena un mese dalla pubblicazione, essa si affretta a condannare il testo.
Ormai l’aria di Parigi incominciava a diventare irrespirabile. I protettori di Vanini non potevano rischiare troppo. Il momento politico, caratterizzato dal conflitto civile tra la Regina madre, Maria de’ Medici, e il re Luigi XIII, era particolarmente difficile. Ma gli amici di Vanini non lo abbandonarono al suo destino o forse ebbero l’interesse a non farlo per evitare ulteriori e più pericolosi scandali. Essi preferirono la via della fuga organizzata e lo fecero trasferire in un luogo più sicuro e lontano da Parigi. Lasciato l’abito secolare Vanini assunse il nome di Pomponio Usciglio, più agevolmente pronunziato dai francesi Lucile, e si rifugiò a Tolosa fin dai primi mesi del 1617. Nella ville sainte egli fu tra gli assidui frequentatori del Petit Louvre del Cramail (1569-1632), ovvero del conte di Tolosa, Adrien de Monluc, uno dei Dix-sept Seigneurs o, come preferisce Tallemant, uno dei trois dangereux insieme a Termes e a Bassompierre. Monluc amava imitare lo sfarzo dei principi rinascimentali e darsi lustro di mecenate non meno rinomato del Montmorency. A Tolosa aveva dato vita ad un cenacolo filosofico-letterario che prese il nome di Accademia dei filareti o Amoureux de la vertu (ricordato dallo spagnolo Alejendro de Luna), nel quale confluivano intellettuali come Mainard, Sorel, Godolin, Olhagaray, Régnier, Dant, Du Cros e Rosset. L’apporto di Vanini in tale cerchia fu probabilmente di natura teorica e filosofica, tanto da guadagnarsi la fama di essere stato maestro del Cramail o di avere fatto proseliti tra gli ambienti aristocratici tolosani.
Ma Tolosa era la roccaforte del cattolicesimo ultramontanista e il Salentino non tardò a subirne i contraccolpi. Il 2 agosto 1618 fu arrestato dai Capitouls, Paul Virazel e Jean Olivier, i quali, dopo opportune informazioni assunte dal Cramail, lo reperirono nella casa degli eredi Noailles, nel quartiere della Daurade, e lo deferirono appena tre giorni dopo all’autorità della Cour de Parlement. Le Annales del 1618, redatte dal capo del concistoro, Nicolas de Saint-Pierre, ci fanno sapere che al momento dell’arresto egli fu trovato in possesso di plusieurs siens escriptz qui ne marquoient que de questions de théologie et de philosophie. Si trattava di testi manoscritti e forse anche impressi sui quali compariva a chiare lettere il nome di Giulio Cesare Vanini. Ma il nome fu interpretato, forse da Bertrand che conduceva l’istruttoria, come una divisa adottata in funzione dell’ateismo, quasi che il Salentino volesse emulare il dittatore romano, conquistatore delle Gallie, nell’intento di proporsi quale novello Cesare destinato a conquistare la Francia al verbo dell’ateismo. Perciò le autorità della Cour, sulla scorta della testimonianza del Cramail, credettero che il suo vero nome fosse quello di Pomponio Usciglio, dietro cui il salentino tentò di celare la propria identità.
Con l’accusa di ateismo (e quindi di lesa maestà) la Cour lo sottopose ad un lungo ed estenuante processo, su cui pesano ombre inquietanti e sul quale non mancarono di influire le malevolenze dei gesuiti. Il ruolo del Parlamento si esaurì nella pronuncia dell’Arrest de mort il 9 febbraio 1619. L’esecuzione ebbe luogo lo stesso giorno. Ad essi provvidero i Capitouls, che già prima del crepuscolo della sera fecero innalzare in tutta fretta il patibolo. Dai ruoli delle spese municipali, scoperti da Foucault (Documents toulousains sur le supplice de Vanini, in «La Lettre Clandestine», V, 1996, ma 1997, pp. 21-22) conosciamo le maestranze che predisposero il patibolo: George Aligre, ufficiale preposto alla salute pubblica, Jean Martin, capitano, Jean Gascot, rivenditore di ferramenta. Essi provvidero ad allestire il palo per l’impiccagione, il rogo e il carro trainato da tre cavalli per il trasporto dello sventurato condannato. Le spese per la legna da ardere, le fascine, i fili metallici, i chiodi da carpentiere e gli zipoli ammontarono a complessive 14 libbre 9 soldi e 9 denari più tre giornate lavorative di una maestranza e di due garzoni.
Ormai tutto era pronto per l’esecuzione. La folla (circa un migliaio di persone) cominciava ad accalcarsi nella grande piazza. Il condannato fu prelevato dalla conciergerie e condotto davanti alla Grande Porte della basilica di Saint-Etienne. Egli era fiero e nello stesso tempo ribelle, votato come in altre circostanze al martirio, consapevole che l’iniqua sentenza lo aveva d’un tratto elevato alla dignità di filosofo. Al commissario, che lo prelevò dalla prigione, rispose con fermezza in lingua italiana: «Andiamo, andiamo a morire allegramente da filosofo». La scena si svolse come da copione. Egli fu tradotto in camicia su un carro trainato da tre cavalli; una corda al collo reggeva un cartello su cui era sintetizzata la sentenza: «Atheiste et blasphemateur du nom de Dieu». Seguì l’abituale percorso che dalle rues de Nazareth e des Nobles lo condusse davanti alla Grande Porte dell’Eglise de Saint-Etienne.
Imponendogli di stare in ginocchio e di tenere in mano una torcia accesa, il commissario del Parlamento gli ingiunse di fare «amente honorable» a Dio, alla giustizia e al Re. Vanini gli oppose un orgoglioso rifiuto. L’ufficiale gli rinnovò l’invito e, se dobbiamo credere al Mercure François, dichiarando scopertamente il suo ateismo, Vanini gridò: «Non esiste né un Dio né il diavolo, perché se ci fosse un Dio gli chiederei di lanciare un fulmine sull’ingiusto ed iniquo Parlamento; se ci fosse un diavolo gli chiederei di inghiottirlo sotto terra; ma, poiché non esiste né l’uno né l’altro non ne farò nulla». Il macabro rito riprese secondo una prassi consolidata: il corteo percorse le vie Saint-Etienne, Croix-Baragnon, Place Roueaix, rue de la Trinité e giunse, attraverso la Grand’rue, alla Place du Salin.
Giunto sul patibolo, gli fu fissata la testa al palo. Per una sorta di istinto naturale Vanini si rifiutò di porgere spontaneamente la lingua al boia, che si vide costretto a strappargliela con la forza delle tenaglie. Ancora grondante di sangue, il corpo fu appeso alla forca e poi gettato sul rogo. Quando le sue spoglie mortali furono consumate dalle fiamme, le ceneri furono sparse al vento, affinché non restasse di lui alcuna traccia.

2. Vanini, la critica del pensiero religioso e i prodromi della scienza delle religioni

La riflessione critica sulle religioni positive, in particolare sul cristianesimo, sul giudaismo e sul paganesimo, è condotta da Vanini nello spirito del machiavellismo obliquo. Ma se l’interesse di Machiavelli è quello di costruire una scienza della politica, autonoma dalla morale, Vanini sembra voler costruire a suo modo una scienza che abbia ad oggetto le religioni e che ne spieghi la loro origine, la loro funzione politica, la loro fenomenologia, il loro radicamento presso le masse popolari, le loro strutture concettuali, le loro affinità e dissomiglianze. In ciò egli ebbe forse una larvale pre-intuizione della moderna scienza delle religioni. La sua indagine si sviluppa su due piani. Da un lato ha una portata generalizzante e mira a stabilire i confini e il perimetro della fisionomia delle religioni in un’ottica relativistica per cui i contenuti del pensiero religioso, pur esprimendosi in forme storiche e spaziali differenziate, presentano determinate costanze e un’evidente aria di famiglia. Dall’altro lato assume come bersaglio le singole religioni positive con il precipuo scopo di negare a ciascuna di esse la pretesa di essere depositaria di una verità assoluta. Naturalmente tutta l’analisi, data l’estrema pericolosità dell’oggetto del discorso, è condotta entro un contesto protettivo e nel gioco dialettico dell’ambiguità e della simulazione/dissimulazione.
Ma quali sono gli elementi che nella fenomenologia del pensiero religioso rientrano in una comune aria di famiglia? Sono tutti quelli che servono a determinare una vera e propria tirannia psicologica sui credenti. Sono tali le profezie, in tutte le loro forme storiche, le teofanie, la pretesa familiarità con il divino, le guarigioni miracolose, le resurrezioni e tutte le menzogne e gli inganni che i fedeli non riescono a smascherare. La chiave di lettura del fenomeno religioso è in Vanini scopertamente machiavellica, perché egli ritiene che le religioni costituiscano il supporto ideologico e culturale del potere politico. E il potere, qualunque fisionomia assuma, è sempre mosso dalla ragione politica.
Le religioni sono in primo luogo essenziali alla conversazione dello Stato. Perciò il principe non esita a giocare la carta della credulità popolare e ad alimentare la fede nei miracoli, nelle apparizioni gregoriane, negli oracoli, nei responsi sibillini, nelle profezie. Queste ultime – come insegna Machiavelli – sono tutte false e sono inventate dai principi, ma hanno la funzione politica di indurre lo sprovveduto popolino al rispetto delle leggi e all’adempimento dei propri doveri, cui non sempre è ben predisposto. A differenza di Cardano, che tenta di salvare in qualche modo l’autenticità dell’estro profetico delle sibille, Vanini la smentisce con argomentazioni razionali: le sibille o comunque i profeti – egli osserva – non sempre vaticinavano, né sempre divinavano il futuro. La divinazione e l’aruspicina furono largamente impiegate dai Romani che seppero fare un uso sapiente degli auguri fasti e nefasti con i quali inducevano il popolo a desistere dalla guerra o ad invocarla. Ma gli auguri di per sé non predicono nulla; infatti le cose buone e le cattive capitano tutti i giorni ed è facile supporre che a chiunque capitino auguri quotidiani. Quelli narrati dagli storici – scrive Vanini – sono appena un centinaio e per giunta fantasiosi. Analoga funzione hanno anche le statue parlanti o lacrimanti, gli animali che pronunciano parole umane o i serpenti che emettono latrati. Su tutta questa materia la critica razionalizzatrice del Salentino non ha smagliature di sorta (Da., pp. 372, 383, 396, 410, 414; Amph., p. 35).
Talune forme di profezia sono tipiche di una religione; non si spiegherebbe altrimenti perché i profeti fiorirono solo in Palestina, in una regione temperata; forse ciò è dipeso dalle loro abitudini; molti profeti abitarono nel deserto e si privarono dei piaceri dell’amore. Spesso le profezie, come gli oracoli, sono a priori incomprensibili e si comprendono appieno solo dopo la loro realizzazione. Taluni le ritengono espressioni della potenza del divino o addirittura tentazioni diaboliche, ma la realtà è che esse sono dovute all’umore melanconico, al quale sono soggetti anche gli indemoniati. Questi infatti non sono pervasi dal demone, come comunemente si crede, tant’è che, appena si cura la malinconia, guariscono. L’ossessione è una delle tante favole tipiche di determinate religioni. Infatti solo in Spagna e in Italia si crede nella esistenza degli ossessi; «in Francia ne trovi appena uno e in Germania e in Inghilterra nessuno». Ma anche in tali regioni quella credenza era diffusa quando era in vigore il cattolicesimo. Prova ne è che nessun dotto o filosofo è stato mai pervaso dal demonio né in Italia né in Spagna. Nella pagina successiva Vanini contesta le potenzialità esorcistiche riconosciute all’acqua benedetta da papa Alessandro I. Gli esorcismi che in apparenza hanno successo sono in realtà spiegabili in termini naturali. L’indemoniata che profferiva parole incomprensibili, tacque non appena le si versò sul capo l’acqua benedetta; ma tacque – puntualizza Vanini – non perché l’acqua era benedetta, ma perché era fredda (Da., pp. 397, 400, 406-408).
Come le profezie, gli auguri e gli oracoli anche i miracoli sono falsi, sono frutto di fantasia e sono creduti veri solo da povere vecchiette per lo più ignoranti che scambiano per miracoloso ciò che è manifestamente riconducibile alle cause naturali. Ciò nonostante il ruolo dei miracoli nella fondazione di una religione è fondamentale: il nuovo profeta, infatti, non è creduto tale se non è capace di compiere dei miracoli: «i popoli – scrive Vanini – non gli crederebbero se non vedessero con i propri occhi che egli è in grado di fare prodigi». In questo senso il miracolo è una categoria centrale del pensiero religioso perché agli occhi dei fedeli esso prova che esiste una sfera del divino e che c’è una intermediazione tra la provvidenza di Dio e la natura; conferma che la divinità non è autoreferenziale e che l’ordine naturale non è rigido e predeterminato in assoluto, ma può essere piegato al volere di Dio e conseguentemente alle speranze e ai desideri espressi dal popolo nella preghiera. Ma si tratta di speranze vane, perché le preghiere – osserva Vanini – non hanno il potere di mutare la volontà divina. Perciò in natura non esiste niente di miracoloso: tutto ciò che accade «non trascende le forze della natura»; gli eventi naturali accadono o con una certa frequenza o dopo lunghissimi intervalli di tempo; alla frequenza dei primi siamo abituati; i secondi sono da noi scambiati per miracoli, ma di fatto sono iscritti nell’ordine indefettibile delle cose (Amph., pp. 41, 52, 287-288; Da., pp. 391, 411, 461).
Vanini mette in atto tutta la sua abilità dissimulatrice per scardinare il concetto di miracoloso. Così a proposito delle stimmate di Francesco attribuisce a Lutero l’ipotesi dissacrante che il santo se le fosse procurate da sé; poi nega che esse fossero prodotte dalla forza dell’immaginazione ovvero che si fossero prodotte a causa «dell’ardente desiderio delle ferite del Cristo»; ma a distanza di qualche pagina tale ipotesi è surrettiziamente avallata, facendo notare che Francesco «meditò sempre con passione e con molto ardore su Cristo». In una memorabile pagina dell’Amphitheatrum la sottile derisione del prodigioso gli suggerisce un vero e proprio divertissement sul presunto miracolo di Presicce, secondo cui un contadino cieco dalla nascita avrebbe implorato in sogno la vergine di cui era stata rinvenuta un’icona bizantina e le avrebbe chiesto la guarigione; al risveglio si sarebbe ritrovato sì vedente, ma anche zoppo. Dopo una ridda di ipotesi vacillanti la spiegazione è data da un anonimo ateo tedesco per il quale il miracolato si sarebbe finto zoppo per continuare a mendicare, come faceva quando era cieco; poteva così continuare a spillare denaro alle vecchiette bigotte e credulone (Amph., pp. 67, 70-71, 73-77).
Dunque ciò che accomuna le religioni è il fatto che esse si fondano sull’inganno, sulla menzogna, sui miti e sulle favole, dando luogo ad una schiavitù psicologica. Citando Agostino, Vanini mostra di condividere il parere del pontefice massimo Scevola, secondo cui è lecito in materia di religione il ricorso alla menzogna. «Il mondo – aggiunge di suo – ama essere gabbato; dunque lo sia» (Amph., p. 36).
La menzogna e l’inganno tuttavia non sono di per sé sufficienti a imbrigliare il credente in uno stato di schiavitù psicologica, perché non sono duraturi e ciascuno può facilmente liberarsene per proprio conto. La schiavitù psicologica si instaura nel momento in cui diventa impossibile liberarsi dalla menzogna e smascherare l’inganno. Il che accade quando l’inganno fa presa sui bisogni e sui sentimenti più profondi dell’uomo, soprattutto su quelli che mettono a nudo la fragilità della condizione umana, come la paura, il terrore, lo spauracchio dell’ignoto, il timore della schiacciante potenza del sacro. Il timore – ripete Vanini in sintonia con Lucrezio – generò gli dèi. La suggestione non è meno efficace quando aggredisce sentimenti come la speranza, il desiderio, l’aspettativa di una indefinita prosecuzione della vita. Insomma gli inganni e le menzogne che hanno lunga durata e che garantiscono alla religione una lunga persistenza nel tempo sono quelli che giocano sulle speranze e sulle paure dei credenti. Per essere veramente tali gli inganni debbono configurarsi come trappole a circuito chiuso, senza vie d’uscita, debbono sfruttare i bisogni, le paure o comunque lo stato di precarietà di chi si rivolge al divino. Ne sono un esempio i voti. Quando per un caso fortuito il voto è esaudito il credente ringrazia il dio per la grazia ricevuta e gli offre sacrifici; se, invece, non è soddisfatto i sacerdoti sono pronti a persuaderlo che l’ostacolo è dovuto ai suoi peccati; se poi il fedele deluso dal voto è un uomo pio, i sacerdoti lo convincono a riconoscere che la misericordia divina punisce in questa vita, ma premia in quella oltremondana. E con la promessa di una vita futura di nuovo il circuito si chiude e spinozianamente si apre lo spazio per l’oscurantismo. Il che per Vanini significa subordinare – secondo il precetto paolino – l’intelletto alla fede (Da., pp, 368-369, 414-416, 383, 396, 419, 411-412).
Gli inganni dunque non sono altro che miti che esercitano sui fedeli una tirannia psicologica, intellettuale e sociale. Le religioni positive sono piene zeppe di ben congegnate e studiate mitologie. Ne è un esempio il mito dell’avvento del Messia che nella religione giudaica (e si potrebbe aggiungere nella religione cristiana) è così strettamente intrecciato con le aspettative del popolo da impedire la nascita di una nuova religione. Infatti gli Ebrei – osserva Vanini – benché siano passati più di duemila anni, attendono ancora il Messia e i cristiani attendono invano la fine dei tempi e il giudizio universale (Amph., p. 66).
I principi e i profeti esercitano sul popolo un’azione di seduzione e di plagio (Da., p. 453). Gli inganni più potenti e più resistenti sono quelli più difficili da smascherare. Lo stratagemma più comunemente adottato da principi o sacerdoti è quello di far credere al popolino di avere un rapporto diretto e privilegiato con la divinità. Fingendo di farsi interpreti del volere di Dio essi impongono le leggi e le mettono al riparo da ogni forma di opposizione; così la contestazione del potere costituito, che è emanazione diretta della divinità (a Deo Potestas), si configura come un sacrilegio ed è immediatamente percepita come opposizione al volere divino. A tale stratagemma fecero ricorso fin dai tempi antichi Romolo e Numa Pompilio i quali, facendo credere al popolino di avere un rapporto privilegiato con la divinità, diedero al loro ordinamento giuridico-politico un saldo fondamento (Da., p. 368). Allo stesso principio si ispirarono i sovrani che si inventarono false teofanie spesso per convincere i sudditi ad intraprendere imprese militari. Vanini ricorda alcuni esempi tratti dalla storia romana, da quella cristiana ed europea. Massimino, che subì una pesante sconfitta presso Aquileia, per evitare di essere messo sotto accusa assicurava di aver visto il dio Apollo combattere a sostegno degli Aquilensi. Kenneth, re degli Scoti, e Alpin, re dei Pitti, ricorsero a ben congegnate apparizioni per indurre i maggiorenti del regno ad ingaggiare battaglia contro il nemico. Hungus, re dei Pitti, fece credere di aver avuto in visione la croce di Sant’Andrea. Edgar, re degli Angli, si proclamò protetto in battaglia dal vessillo di S. Cuthbert. Lo stesso fece il patriarca Giacobbe, che, per indurre la sua gente a pensare che avesse un rapporto diretto con Dio, fece credere di aver visto una scala di angeli che salivano fino al cielo. Più noto è l’episodio di Costantino il Grande che nella battaglia di Ponte Milvio finse di aver avuto in visione la croce (Da., p. 369).
In qualche caso le menzogne dei sovrani erano più smaccate. Taluni non esitarono ad attribuirsi prerogative divine e, per consolidare il loro potere, fecero credere di essere dotati di poteri taumaturgici. I cristianissimi re di Francia si proclamano dotati dello speciale potere di sanare gli scrofolosi. Altrettanto fece Vespasiano, il quale organizzò la sceneggiata di una guarigione miracolosa; in realtà egli pagò discrete somme di danaro per indurre due dei suoi sudditi a fingersi l’uno cieco e l’altro zoppo e a mostrarsi guariti, una volta toccati dall’imperatore. All’episodio si può dare una lettura machiavelliana se si supporre – argomenta Vanini – che all’astuzia l’imperatore abbia associato la crudeltà; sicché, per impedire che la frode fosse smascherata, abbia incaricato qualcuno di uccidere i due malcapitati. La stessa strategia avrebbe adottato Maometto che fece nascondere in un pozzo un suddito affinché lo proclamasse profeta a nome di Dio quando fosse passato di lì con tutti i suoi seguaci, ai quali, per impedire che la frode fosse scoperta, ordinò di gettare nel pozzo delle pietre fino a colmarlo (Da., pp. 367, 430, 433, 438, 440-442).
Come si vede il filo conduttore della lettura vaniniana del fatto religioso è il machiavellismo obliquo. Tra giudaismo, cristianesimo e islamismo non c’è differenza; tutte le religioni sono subordinate alla ragione politica. Vanini non si fa scrupolo di smascherare anche la religione giudaica. Quando Mosè guidò l’esodo degli ebrei dall’Egitto, ordinò loro di rubare oro ed argento agli Egiziani e, quando si sentì in un luogo sicuro, stabilì di consacrare quel giorno a Dio come se la divinità avesse stipulato con lui un patto che vincolava nel sangue e nella fedeltà allaTorah l’intero popolo, il quale – scrive Vanini – «così indottrinato, fu più facilmente tenuto nella servitù mosaica». La religione mosaica dunque non è esente da falsità e da menzogne. Il racconto della creazione del mondo e della separazione delle acque non ha consistenza ed è degno di essere cancellato con «spugna e carbone». Il passaggio del Mar Rosso – come sostengono i detrattori del testo biblico – avvenne quando le acque, ritirandosi a causa della marea, lasciarono scoperte le parti più basse della costa. I precetti della religione mosaica hanno una motivazione politica. Infatti il divieto della carne suina fu imposto perché essa era nociva agli ebrei che erano travagliati dalla lebbra; il precetto della circoncisione non era affatto un segno dell’alleanza con Dio ma era più semplicemente un costume di derivazione egizia; il levirato e l’obbligo delle unioni intra-etniche, con conseguenti rischi di incesto, pur essendo esecrabile, era legittimato dal fatto che il regno ebraico era chiuso in angusti confini e dal calcolo politico secondo cui il matrimonio tra affini avrebbe rafforzato l’unione coniugale con vincoli di sangue e avrebbe posto un limite alla facilità con cui gli ebrei ripudiavano le mogli (Da., pp. 8, 46, 123, 325, 327, 361, 428).
Ciò significa che la religione è per Vanini parte essenziale dello Stato; anzi ne è il supporto o il cemento ideologico-culturale che lo tiene in vita. Il principe fonda la religione esattamente come fonda lo Stato. È la ragione politica che impone le menzogne e gli inganni e con essi impone le reti protettive che ne impediscono lo smascheramento. Se la religione costituisce l’apparato ideologico dello Stato, non può essere soggetta a contrasti e contestazioni. Il potere non ama essere contestato ed è avverso ad ogni forma di libera espressione: La condanna di Socrate fu per tutti i filosofi un ammonimento. Aristotele abbandonò Atene per evitare che si commettesse un nuovo delitto contro la filosofia. Di fronte alle menzogne e alla crudeltà dei tiranni i filosofi, incalzati dal timore del pubblico potere, furono costretti al silenzio; sicché schioccarono le condanne e i roghi dei libri; le opere di Protagora furono bruciate nella pubblica piazza, in un clima di intolleranza non diverso da quello dell’età controriformistica: «dico questo – scrive Vanini – perché non si pensi che sia una cosa nuova che ai nostri giorni si bruciano i libri degli eretici» (Da., pp. 367, 392; Amph., p. 90).
La sua denuncia contro il potere è dunque netta e inequivocabile. In lui non c’è nessuna attenuazione di tipo averroistico; nessun residuo di presunte dottrine della doppia verità. I contenuti della fede non sono una verità altra o altrimenti detta o narrata: essi sono puri e semplici inganni e menzogne, illusioni e favole. Il popolino ci crede e cade nella trappola a causa della sua semplicità e della sua ignoranza. I dotti, di contro, non si lasciano soggiogare, ma considerano la religione come mezzo e non come fine, ovvero la ritengono, nell’ottica del machiavellismo obliquo, un utileinstrumentum regni. Ben consapevoli che le leges sono un essenziale supporto al loro potere, i principi ne traggono vantaggio e promettono premi eterni a chi versa il proprio sangue per lo Stato. Gli Spartani furono in ciò maestri, perché nelle statue rappresentarono gli dèi armati così da indurre i giovani a invocarli solo quando fossero in armi (Da., pp. 366-367; Amph., p. 153). Altrettanto fecero i Turchi e i Romani, i quali veneravano come eroi e come divinità coloro che combattevano per la patria. E forse in ciò si nasconde una latente concessione all’evemerismo.
L’attacco alla religione cristiana è naturalmente più sofisticato e più mascherato; spesso Vanini attacca apertamente e senza scrupoli la religione pagana, ma tiene d’occhio quella cristiana. Ed è come dire: «chi vuole intendere, intenda». Nella Ex. viii, con la copertura protettiva del Machiavelli, insiste sulla semplicità dei cristiani e sui danni psicologici prodotti dalla loro fede, la quale – egli dice – «indebolisce l’animo degli uomini con la paura dell’inferno, rende gli uomini vili nello stesso momento in cui sopisce in loro il desiderio di ribellarsi». Altrove, probabilmente con lo stesso intento, richiama alla mente il versetto evangelico «Estote simplices ut columbae et prudentes sicut serpentes» (Mt., x, 16), in cui la semplicità è maliziosamente accostata all’astuzia serpentina (Amph., pp. 31, 50, 60). Quando accenna in apparente ingenuità alla decadenza della religione cristiana, pone il lettore di fronte all’enigmatico interrogativo: «com’è possibile che accada ciò, se essa è fondata da Cristo su una solida roccia?». La risposta a tale interrogativo è che la salvezza fu assicurata da Francesco e Domenico che promossero il ritorno alla povertà e alla umiltà, quali valori primigeni del cristianesimo delle origini. Ma è pura strategia perché in un altro passaggio ricorda che le religioni che puntavano sui valori della povertà, come quella di Apollonio di Tiana, furono deboli, entrarono in conflitto con gli interessi costituiti ed ebbero breve durata. Poi aggiunge, per esplicitare meglio il suo pensiero, che è nell’ordine delle cose che gli ordinamenti deboli periscono rapidamente mentre quelli più potenti durano a lungo (Da., pp. 357-359, 454). Il sottinteso è che le religioni, mosaica e cristiana, ebbero vita lunga perché si sposarono con il potere dominante. E il concetto è ribadito in modo più diretto allorché afferma che i miracoli furono «inventati dai sacerdoti, rappresentanti di Cristo, a fini di lucro» (Amph., pp. 47,. 51; Da., 391, 412).
L’arma della critica non risparmia neppure la sacra scrittura, talvolta denominata Sacro Codice, il cui testo originale – egli scrive – non è mai stato trovato da nessuna parte. Non a caso sulla sua autenticità e veridicità «gli atei hanno la stessa fede che io ho nelle favole di Esopo o nei sogni delle donnicciole o nelle superstizioni turche del Corano». La denominazione Sacro Codice ha evidentemente una valenza giuridica; con essa Vanini vuole segnalare che il testo è zeppo di pene inflitte da Dio agli empi e per giunta le citazioni bibliche addotte fanno pensare ad un Dio vendicatore. Gli atei tuttavia non credono che Dio punisca i delitti commessi dagli uomini, per il semplice fatto che nessuno ne è veramente immune. Quando uno Stato è in preda a delitti di ogni genere, il principe accorto si rende conto che non può ricorrere a punizioni generalizzate se non a rischio di mandare in rovina lo Stato. Per questo i teologi rinviano astutamente le punizioni in una vita futura, in modo che la frode non possa essere scoperta; essi infatti affermano che la provvidenza divina dispone i premi e i castighi nel mondo ultraterreno e inventano appositi luoghi di afflizione, come l’inferno e il purgatorio; ma guarda caso «una verità così lampante – osserva Vanini – non convince gli atei che respingono le pene infernali come fossero deliri di vecchiette»; essi dicono, sulla scorta di Diodoro Siculo, che l’esistenza dell’aldilà è frutto di superstizioni di origine egiziana o cretese. E se non c’è un oltremondo, non ci sono neppure i demoni, la cui esistenza non può essere provata dalla ragione naturale. I filosofi che negano l’esistenza dei demoni non tengono in alcun conto le storie sacre degli Ebrei e insieme con la demonologia smantellano anche l’angelologia cristiana, trattata in modo ridicolo e paradossale nellaSteganographia di Tritemio, «uomo di nessun ingegno e giudizio» (Amph., pp. xiv, 67, 83-85, 219; Da., pp. 366, 427, 453, 480).
L’impianto teologico delle religioni è per lo più sfumato, non ha contorni razionali netti. Il perimetro entro cui si alimenta il pensiero religioso è di per sé sfuggente. Su questo punto Vanini invoca l’autorità del salmista, per il quale lo stesso concetto di Dio è avvolto nella nebbia: «il divino – scrive Davide – è circondato da nuvole e caligine». Gli stessi decreti della divina provvidenza sfuggono alla ragione. Per i teologi essi sono imperscrutabili, ma in realtà sono razionalmente incomprensibili perché spesso Dio lascia che il giusto conduca una vita di sofferenze e di tribolazioni e concede agli empi e ai malvagi una vita di piaceri e di vantaggi. Per uscire dall’impasse il teologo asserisce che i buoni conseguono la massima felicità nelle afflizioni che sono da essi desiderate. Anche in proposito Vanini chiama in causa Davide. Le tribolazioni meritano, secondo il salmista, la misericordia divina, perché «la misericordia di Lui è al di sopra di tutte le sue opere». Il che è quanto dire che la misericordia fa aggio sulla giustizia. Sulla stessa linea – nota Vanini – si muove la parabola della pecorella smarrita in cui Cristo antepone la penitenza del peccatore alla giustizia dei buoni» (Amph., pp. 86, 87, 119). In realtà la radice della sofferenza è nella figura del Cristo sofferente. La profonda aspirazione del cristiano al martirio non nasce che dal desiderio di imitare Cristo e di patire come lui. Perciò – scrive Vanini – il salmista ha elogiato il martirio come cosa gradita a Dio: «al cospetto di Dio – dice Davide – è preziosa la morte dei santi». Tuttavia nell’uno e nell’altro caso le argomentazioni teologiche non reggono; in primo luogo perché se la misericordia presuppone il peccato, Dio è responsabile e artefice del peccato; in secondo luogo perché il martirio non può verificarsi senza la crudeltà dei tiranni; e se il primo è gradito a Dio, è gradita anche la seconda (Amph., pp. 92, 116-121, 310-311).
Altrettanto debole è il concetto teologico di salvezza, fondata esclusivamente sulla fede in Cristo; la fede è intesa come la grazia sufficiente per ottenere la salvezza. Ciò implica che dalla salvezza siano esclusi tutti i popoli non cristiani ovvero tutti i popoli ai quali è negata la fede in Cristo. Se poi i teologi asseriscono che gli infedeli si salvano per mezzo della osservanza della legge naturale, Vanini obietta che tale «assioma è pagano, non cristiano». La verità è che le religioni fomentano l’odio e i conflitti tra i popoli. Trattandosi di una affermazione fortemente dissacrante, Vanini la lascia passare tra le pieghe della ambiguità e della dissimulazione. Infatti, trattando della causalità astrologica, cui Pomponazzi e Cardano attribuiscono la nascita dei culti religiosi, nasconde la sua critica dietro una domanda apparentemente innocua: «com’è possibile che per il bene dell’universo gli astri istituiscano le religioni, se queste sono così diverse tra loro?». Se si esclude la conflittualità ideologico-religiosa, «da dove si originano le contese e le stragi?». Il che, uscendo dall’ambiguità del testo, significa che le religioni sono diverse e contrapposte l’una all’altra da un odio insanabile, che spesso sconfina nel tentativo di reciproco sterminio (Amph., pp. 58, 107-108; Da., p. 420).
Il quarto libro del De admirandis, intitolato De religione Ethnicorum rappresenta un vero e proprio trattato di critica delle religioni in tutte le loro più peculiari manifestazioni. Al suo interno il Dial. l, intitolato De Deo, è un vero e proprio capolavoro non solo sotto il profilo letterario, ma anche sotto quello scientifico di analisi del fenomeno religioso. Il testo parte escludendo ogni finalismo nel processo creativo: né l’uomo è un fine per Dio, né Dio è un fine per l’uomo. La comparsa dell’uomo nel mondo non è riconducibile che al caso. Tra Dio e il mondo non c’è alcun rapporto causativo. Nella realtà etico-politica del suo tempo Vanini crede di scorgere elementi di crisi del cristianesimo. Checché ne dicano i teologi, la fede – a suo avviso – vacilla come dimostra il fatto che «pochissimi sono attratti dall’amore per la vita eterna»; nessuno rinuncia volentieri ai piaceri della vita terrena e appena «uno solo è l’uomo che, benché infelicissimo, desidera morire». Se la fede cristiana regge è solo per l’ingenuità e la semplicità dei credenti. Essi sono generati tali da genitori che si attengono scrupolosamente al precetto paolino di accoppiarsi solo in funzione della riproduzione. L’assillo della semplicità, della castità e della purezza – scrive Vanini – fa sì che i coniugi, attenendosi al precetto paolino di contenere gli amplessi nei limiti dei doveri coniugali, fanno l’amore «sonnecchiando languidamente», emettono seme insufficiente e di conseguenza generano «figli stolti e inattivi e perciò abbastanza idonei a ricevere la religione cristiana che ai poveri di spirito promette la beatitudine» (Da., pp. 354, 356).
Il discorso procede come se per cerchi concentrici si passasse dalla periferia al centro della questione. Ed in effetti l’attenzione di Vanini si sposta sulla figura di Cristo, interpretato come profeta astuto. Il retroterra culturale da cui egli prende le mosse è ovviamente quello del machiavellismo soprattutto in riferimento alla contrapposizione tra profeti armati e disarmati, rappresentati rispettivamente da Mosè e da Cristo. Mosè impose senza difficoltà la fede giudaica perché era armato. In un solo giorno uccise 24.000 idolatri che erano avversi alla sua legge. Cristo di contro fu un profeta disarmato e sarebbe stato sopraffatto, se non avesse fatto ricorso alla più raffinata arma dell’astuzia. Per perpetuare la religione da lui fondata, il novello profeta deve esercitare un dominio culturale che si estenda oltre la sua morte. Da ciò lo stratagemma della resurrezione o dell’assunzione in cielo. Mosè si gettò in un abisso in modo che il popolo lo credesse resuscitato. Lo stesso fecero Empedocle ed Elia. E il sottinteso, neppure tanto velato, è che lo stesso fece Cristo per consolidare la neonata ‘servitù cristiana’ (Da., pp. 361, 390).
La figura del Cristo è disegnata da Vanini secondo i parametri dell’astuzia volpina di stampo machiavelliano: fingendo di conservare o di portare a compimento la religione giudaica, Cristo la sovverte dalle fondamenta e istituisce al suo posto la religione cristiana. Poi, per preservarla dal rischio dell’inevitabile corruzione, mette in circolazione la profezia dell’anticristo cioè di «un oppositore della sua legge, odiato da Dio, seguace dei demoni, feccia di tutti i vizi»; una figura dai tratti così negativi che nessuno avrebbe osato spacciarsi per anticristo e quindi nessuno avrebbe potuto demolire la lex cristiana. Il nuovo profeta cioè si comporta alla stessa stregua del principe novello: per consolidare il proprio potere, che nella fase iniziale è più debole, deve impiegare l’astuzia o le armi. Cristo scelse di fondare la legge cristiana, immolandosi ed esponendosi ad una morte ignominiosa, in modo che il suo esempio non fosse appetibile da parte di altri sedicenti Messia (Da., pp. 360-361). Per la verità – dice Vanini – un «erudito filosofo» potrebbe portare a compimento tutte le predizioni che Daniele e gli altri profeti hanno vaticinato sull’anticristo; probabilmente l’erudito filosofo è lo stesso Vanini, in quanto capace di smascherare con l’arma della critica razionale le menzogne della religione cristiana. In ogni caso l’idea dell’anticristo è pensata da Cristo come stratagemma per garantire alla religione cristiana una lunga durata. Paolo ne predicò l’avvento come imminente, ma in realtà sono passati 1600 anni senza che se ne sia avuto alcun indizio. Ulteriori esempi di sapienza-astuzia di Cristo sono dati dagli episodi dell’adultera, del tributo a Cesare e della legittimità del suo insegnamento. Ai Giudei che gli chiedevano se si dovesse lapidare l’adultera, non potendo contestare la Legge, Cristo rispose: «chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra»; agli scribi che gli domandavano se si dovesse pagare il tributo a Cesare, non potendo dire di no per non essere accusato di lesa maestà, né dire sì per non sovvertire la legge mosaica, rispose: «date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». Ai farisei che gli chiedevano per quale potere insegnava alle genti, non potendo rispondere né per un potere umano né per un potere divino, replicò ponendoli di fronte ad una analoga difficoltà domandando loro per quale potere aveva battezzato Giovanni il Battista.
Nessuna religione positiva, nessuna civiltà storica ha una durata infinita: Vanini ha un forte senso della storicità delle istituzioni civili e religiose: le città, i regni, le religioni sono soggetti alla ferrea legge del divenire naturale. Su questo terreno le affinità con Pomponazzi sembrano spingersi fino alla perfetta convergenza. Ma le distanze tra i due pensatori restano e sono tanto più evidenti se si pensa che l’astrologismo pomponazziano, come del resto quello cardaniano, è respinto dal Salentino come affatto fabuloso. Ne consegue che occorre procedere con molta cautela nel valutare la dipendenza testuale dell’uno dall’altro. Vanini riproduce sì parti consistenti del De incantationibus, ma persegue un proprio specifico obiettivo che non è del tutto coincidente con quello del Peretto. In lui per esempio non c’è – o almeno non c’è negli stessi termini – l’idea pomponazziana del ritorno periodico delle medesime credenze e dei medesimi organismi sociali. Per Pomponazzi la ciclicità degli eventi è iscritta nello schema epistemologico della causalità astrologica che è, a sua volta, strettamente legata alla ciclicità dei moti celesti. Quando si allontana dal canovaccio perettiano, Vanini tende a porre un più forte accento sulla legge naturale della generazione e della corruzione di tutte le cose: omnia orta occidunt – sentenzia – «tutto ciò che nasce è destinato a perire». Nulla dura in eterno: i valori, i costumi, le tradizioni, i modi di pensare, le credenze, le norme etiche, le organizzazioni civili e religiose: tutto è travolto dalla legge del divenire. Cosa c’era di più santo e di più nobile del nome di Giove secondo la fede dei Gentili? E cosa c'è di più vile e di più esecrando di esso nella fede cristiana? I regni e le religioni sono prodotti storici: nascono, crescono, raggiungono l’apice della loro vitalità, ma poi iniziano il loro inesorabile processo di senescenza e di esaurimento. I popoli «venerano ora una religione ora un’altra, ora una vergognosissima, ora una santissima». L’universo è retto da perenni vicissitudini, per cui tutto muta e nulla è veramente eterno. Ogni religione ha i suoi miracoli delle origini; ognuna ha i suoi fondatori, che esercitano un predominio incontrastato a cui non si può opporre resistenza: essi sembrano predestinati a grandi cose e, come se fossero prescelti, sembrano dotati di poteri straordinari e parlano in nome della divinità. Nella fase della nascita della nuova religione i miracoli sovrabbondano, perché il profeta deve apparire come figlio di Dio o come un suo inviato; poi lentamente vanno scemando, fino a scomparire del tutto. Infine ad una religione se ne sostituisce un’altra. E poiché il mondo è eterno, i riti e la tipologia dei culti ritornano periodicamente: quelli oggi in vigore sono stati attivati migliaia di volte e torneranno di nuovo in vigore, non però nella forma della loro individualità, ma in quella della loro specie (Da., pp. 386-388).
La differenza rispetto al Peretto non è tanto nel testo, quanto nello spirito delle rispettive posizioni filosofiche: nel ricorso alla legge naturale Vanini esclude una fondazione metafisica della religione. Per Pomponazzi, invece, la causalità astrologica è di per sé espressione del volere divino e le Intelligenze motrici ne esercitano le funzioni ministeriali; perciò la religione, in quanto mediata dai corpi celesti, è in qualche modo un’istituzione divina. Vanini, di contro, nega decisamente l’esistenza delle Intelligenze motrici o assistenziali e riconosce alla religione solo la funzione di mantenimento e di tenuta del tessuto sociale, indipendentemente dalla sua origine umana o divina. La lex esercita una funzione sociale anche se falsa. Finché è ritenuta vera (dummodo vera credatur), «doma la crudeltà d’animo, pone un freno ai piaceri e rende i sudditi ossequiosi nei confronti del principe». Ciò significa che la sua funzionalità dipende dalla soggettiva credenza popolare, non dalle sue origini divine. Ma v’è ancora un ulteriore elemento che segna un discrimine netto tra il Peretto e il Salentino ed è il riferimento all’operatività e all’industriosità umana. Quando Pomponazzi accenna alla rapidità di successo dei grandi fondatori di regni, come Romolo, Capis, Ciro, Gelone ed Abide, sembra credere che la straordinarietà degli eventi possa trovare spiegazione solo in uno straordinario favore accordato ad essi dalle stelle e, quindi, in ultima analisi dal volere divino. Vanini, al contrario, pone l’accento sull’operosità umana. Si notino le diverse sfumature che assume nei due pensatori la fortuna di Romolo: Pomponazzi è stupito dall’incredibile ascesa del pastore al culmine della gloria: un evento siffatto non può essere causato che dai moti celesti; Vanini di contro esalta l’operosità e l’abilità personale (si sarebbe indotti a dire la virtù in senso machiavelliano) con cui Romolo pervenne dalla vita pastorale allo scettro (Da., p. 389).

Bibliografia essenziale ragionata

Opere

  • Amphitheatrum aeternae providentiae, Harsy, Lugduni 1515 (rist. fotom.: Congedo, Galatina 1979).
  • De Admirandis Naturae Reginae Deaeque Mortalium Arcanis Libri quatuor, Perier, Lutetiae 1516. (rist. fotom.: Congedo, Galatina 1985).

Edizioni critiche

  • Giulio Cesare Vanini, Opere, Giovanni Papuli, Francesco Paolo Raimondi (ed.), Congedo, Galatina 1990.
  • Giulio Cesare Vanini, Tutte le opere, Francesco Paolo Raimondi (ed.), Bompiani, Milano 2010.

Traduzioni italiane

  • Giulio Cesare Vanini, Anfiteatro dell’eterna provvidenza, Francesco Paolo Raimondi, Luigi Crudo (ed.), Introduzione di Antonio Corsano, Congedo, Galatina 1981.
  • Giulio Cesare Vanini, I meravigliosi segreti della natura, regina e dea dei mortali, Francesco Paolo Raimondi (ed.), Congedo, Galatina 1990.

Atti di convegni

  • Francesco Paolo Raimondi (ed.), Giulio Cesare Vanini e il libertinismo, Atti del Convegno di Studi, 28-30 ottobre 1999, Congedo, Galatina 2000.
  • Francesco Paolo Raimondi (ed.), Giulio Cesare Vanini: dal tardo Rinascimento al Libertinisme érudit, Atti del Convegno di Studi, Lecce-Taurisano 24-26 ottobre 1985, Congedo, Galatina 2003.
  • Francesco Paolo Raimondi (ed.), Giulio Cesare Vanini: filosofia della libertà e libertà del filosofare, Atti del Terzo Convegno Internazionale di Studi, 7-9 febbraio 2019, Aracne, Roma 2019.

Letteratura secondaria

Saggi biografici

  • Francesco Paolo Raimondi, Giulio Cesare Vanini nell’Europa del Seicento, Con una appendice documentaria, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa-Roma 2005 (2a ed.: Aracne, Roma 2014).

Saggi sul pensiero

  • Antonio Corsano, Per la storia del pensiero del tardo Rinascimento, II, G. C. Vanini, in «Giornale critico della filosofia italiana», 37, 1958, pp. 201-244.
  • Émile Namer, L’Oeuvre de Jules-César Vanini (1585-1619): Une anthropologie philosophique, in Studi in onore di Antonio Corsano, Lacaita, Manduria 1970, pp. 465-494.
  • Andrzej Nowicki, Centralne Kategorie filozofii Vaniniego, Warszawa 1970 (tr. it. Le categorie centrali della filosofia di Vanini, in Giovanni Papuli (a cura di), Le interpretazioni di G. C. Vanini, Congedo, Galatina 1975, pp. 153-316).
  • Giovanni Papuli, Introduzione a Giulio Cesare Vanini, Opere, cit., pp. 11-156.
  • Maria Teresa Marcialis, Natura e uomo in Giulio Cesare Vanini, in «Giornale critico della filosofia italiana», 71, 1992, pp. 227-247.
  • Jean-Pierre Cavaillé, Dis/simulations : Jules-César Vanini, François La Mothe Le Vayer, Gabriel Naudé, Louis Machon et Torquato Accetto. Religion, morale et politique au XVIe siècle, H. Champion, Paris 2002.
  • Francesco Paolo Raimondi, Monografia introduttiva, in Giulio Cesare Vanini, Tutte le opere, cit., pp. 7-313.

Risorse in rete

Article written by Francesco Paolo Raimondi | Ereticopedia.org © 2020

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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