Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444
Giovanni Vincenzo Bolgeni (Bergamo, 22 gennaio 1733 – Roma, 3 maggio 1811) è stato un teologo gesuita tra i massimi rappresentanti del fronte filo-curiale e filo-papale.
Sommario
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Biografia
Il primo periodo romano: la formazione teologica e filosofica
Giovanni Vincenzo Bolgeni nacque a Bergamo il 22 gennaio 1733. Nel 1747 fu accolto come novizio nella provincia romana dei Gesuiti. Trasferitosi a Roma studiò filosofia dal 1751 al 1754 e teologia dal 1759 al 1763 presso il Collegio Romano, dove ebbe come maestro Giovanni Battista Faure, uno dei più importanti teologi di orientamento molinista della prima metà del XVIII secolo.
Durante questo periodo di formazione precedente alla pronuncia solenne dei voti, avvenuta il 2 febbraio 1766, Bolgeni ebbe l’opportunità di elaborare i principi della propria visione dottrinale, apprendendo dal proprio maestro lo stile controversistico che fu la cifra stilistica della sua vasta produzione.
Una volta ricevuta l’ordinazione sacerdotale, Bolgeni fu inviato dai superiori della Compagnia presso il collegio di Fermo nel quale, dal 1766 al 1769, insegnò filosofia e successivamente a Macerata, dove ricoprì il ruolo di docente di teologia morale dal 1769 al 1773.
Il periodo maceratese (1766-1787)
Il periodo trascorso a Macerata costituisce una tappa decisiva nella vita di Bolgeni. Nella città marchigiana Bolgeni compose le sue prime opere ecclesiologiche e di controversia dottrinale, grazie alle quali divenne famoso anche al di fuori del contesto maceratese. Tra il 1785 e il 1787 Bolgeni diede alle stampe quattro opere: Esame della vera idea della Santa Sede, operetta divisa in due parti e stampata in Pavia nel 1784 (Macerata, 1785) che il teologo compose allo scopo di confutare la visione ecclesiologica di Pietro Tamburini, principale esponente del movimento giansenista italiano, Il critico corretto, ossia ricerche critiche di Giovanni Vincenzo Bolgeni sopra la lettera III di un Teologo Piacentino indirizzata a Mosignor Nani vescovo di Brescia e stampata in Piacenza nel 1785(Macerata, 1786) nella quale, nuovamente in chiave anti-giansenista, Bolgeni difese il vescovo di Brescia Giovanni Nani dalle critiche rivoltegli da Tamburini, Risposta al quesito: Cosa è un Appellante? Ossia osservazioni teologico-critiche di Gian Vincenzo Bolgeni sopra due libri stampati in Piacenza 1784, e intitolati, Cosa è un Appellante? E Continuazione dell’ Appellante(Macerata, 1787) che si poneva nello stesso alveo degli scritti precedenti e infine Stato de’ bambini morti senza Battesimo esposto da Gian Vincenzo Bolgeni in confutazione d’un libro del Signor Gianbattista Guadagnini arciprete di Civitade di Valcamonica(Macerata, 1787) in cui Bolgeni, confutando il pensiero di un altro importante esponente del giansenismo italiano, Giovanni Battista Guadagnini, prese parte al dibattito, particolarmente accesso nel corso del XVIII secolo, concernente il destino dei bambini morti senza battesimo. Bolgeni riconobbe che i bambini morti senza aver ricevuto il battesimo sono privati eternamente della visione beatifica di Dio, ma, in opposizione al pensiero rigorista e giansenista di cui Guadagnini si fece portavoce, rifiutò l’idea che essi fossero costretti a subire le pene corporali dell’inferno. Fu questa la prima occasione in cui il teologo poté dare prova della visione benignista che egli aveva sviluppato durante il periodo di studio romano.
Il secondo periodo romano
A dispetto della soppressione della Compagnia di Gesù avvenuta nel 1773 e grazie al successo editoriale riscontrato dagli scritti maceratesi, Bolgeni fu convocato a Roma, città nella quale tornò diventando, in breve tempo, uno dei più influenti consiglieri di Pio VI. La stima goduta da Bolgeni nell’ambito curiale è attestata dai rilevanti incarichi che gli furono assegnati, tra i quali spicca la prefettura della Biblioteca del Collegio Romano nel quale aveva studiato e, a coronamento di una brillante carriera, nel 1795, il ruolo di teologo della Sacra Penitenzieria Apostolica. Cursus honorum che fece del gesuita bergamasco il più importante teologo filo-curiale del secondo Settecento.
In conformità alla nuova strategia romana, basata sulla consapevolezza che il mantenimento dell’egemonia culturale passava per l’utilizzo della stampa ad maiorem Dei gloriam e non più solamente per un’azione censoria che l’Indice e il Sant’Ufficio non erano più in grado di sostenere1, Pio VI intravide nelle doti stilistiche e controversistiche di Bolgeni un valido strumento contro l’avanzare della filosofia illuminista e della teologia giansenista.
Non a caso nel 1787, appena giunto a Roma, Bolgeni, che sino ad allora si era occupato principalmente di materie dottrinali, si vide commissionata, direttamente da Pio VI, un’opera di natura eminentemente ecclesiologica, dedicata all’analisi dei rapporti tra episcopato e pontefice. Da tale impegno nacque l’opera più importante del teologo, nella quale, superando la contingenza controversistica, poté dare prova delle sue doti speculative e della sua preparazione teologica: L’Episcopato, ossia la potestà di governare la Chiesa. Dissertazione divisa in due parti che vide la luce in prima edizione a Roma nel 1789 e che conobbe numerose ristampe anche in lingua straniera.
Al fine di confutare la propaganda anti-curiale e giansenista che negli anni Ottanta del XVIII secolo conobbe il massimo sviluppo, Bolgeni si impegnò a sostenere il principio dell’unità della Chiesa, la cui piena attuazione poteva essere raggiunta solamente facendo leva sulla figura del pontefice. La Chiesa, comunità composta da tutti i fedeli, ha in Gesù Cristo il proprio capo assoluto, il quale garantisce l’unità resa visibile e concreta dalla persona di san Pietro e dai suoi successori. Così come la Trinità presenta una sola essenza divina, una sola è l’origine dell’episcopato, ovvero il pontefice, espressione vivente dell’unità cattolica2.
La logica argomentativa di Bolgeni era volta a confutare ogni genere di affermazione conciliarista e gallicana, impegno che la celebrazione del sinodo di Pistoia avvenuta nel 1786 rendeva impellente.
Grazie al successo editoriale dell’Episcopato– molte furono le recensioni positive che importanti esponenti del fronte curiale romano quali ad esempio Alfonso Muzzarelli e Francesco Antonio Zaccaria pubblicarono sul Giornale ecclesiastico di Roma– Bolgeni divenne il principale rappresentante della “scuola romana”, il gruppo che riuniva i teologi curialisti e filo-papali attivi nella seconda metà del XVIII secolo.
L’Episcopato rappresentava il compimento concettuale di un altro scritto intitolato Fatti Dommatici ossia della Infallibilità della Chiesa nel decidere sulla Dottrina buona, o cattiva de’ libri che Bolgeni aveva composto nel 1788. In tale opera il teologo bergamasco espose per la prima volta e in modo organico la propria visione riguardo alla costituzione della Chiesa di Roma, tema che il teologo affrontò prendendo parte al dibattito concernente il rapporto tra materie dogmatiche e disciplinari. Anticipando quanto successivamente formulato nell’Episcopato Bolgeni sostenne, attraverso un’accurata analisi biblica, patristica e canonistica, la prerogativa papale di formulare giudizi infallibili – ai quali dunque era necessario conformarsi in coscienza – non solo a proposito delle materie di fede, ma anche riguardo alle questioni disciplinari, come ad esempio la censura libraria3.
L’impegno volto alla difesa delle prerogative papali non impedì a Bolgeni di dedicarsi alla stesura di scritti di altra natura, attività che ne fece uno dei più prolifici autori cattolici del secondo Settecento.
Tra il 1788 e il 1792 Bolgeni diede alle stampe altre quattro opere: Della Carità o Amor di Dio (Roma, 1788), nella quale, in opposizione alla lettura ricorrente, il teologo sosteneva che Dio era amato dall’uomo solo per “concupiscenza”, ossia per l’eterno ringraziamento che egli doveva a Dio, e non per “benevolenza”, ossia come sommo bene in sé, Schiarimenti dati da Giovanni Vincenzo Bolgeni in Confermazione, e difesa della sua Dissertazione sopra la Carità, o Amor di Dio (Foligno, 1790) e Apologia dell’Amor di Dio detto di Concupiscenza (Foligno, 1792) con le quali Bolgeni si difesa dagli attacchi sferrati in primo luogo dall’ambiente giansenista e Specchio istorico da servire da preservativo contro gli errori correnti tratto da alcuni Opuscoli Francesi (s.d., 1789), scritto di mera polemica antigiansenista che conobbe diverse edizioni anche in lingua spagnola.
La diffusione dei principi democratici e lo scoppio della rivoluzione francese condussero un uomo ancora saldamente legato all’antico regime come Bolgeni a riflettere sulla società politica. In questo contesto prese forma il pamphlet intitolato Problema se i Giansenisti siano Giacobini, che il teologo pubblicò a Roma nel 1794. Nello scritto, composto sulla scia dell’opera Lettere teologico-politiche sulla presente situazione delle cose ecclesiastiche che Tamburini diede alla luce a Pavia nello stesso anno, Bolgeni si impegnò a dimostrare la responsabilità diretta della teologia giansenista nello scoppio della rivoluzione francese. Nella prospettiva bolgeniana l’orientamento anti-papale e conciliarista dell’elaborazione giansenista, volto all’instaurazione di un governo della Chiesa maggiormente democratico, avrebbe avuto un’immediata conseguenza sulle istituzioni secolari. In altri termini il mancato riconoscimento della supremazia papale si sarebbe trasposto, attraverso la diffusione dei principi di libertà e uguaglianza, sul piano politico conducendo alla rivoluzione.
L’assimilazione tra illuminismo, secolarismo, ateismo, deismo e giansenismo costituì il principale filo conduttore della strategia censoria della Chiesa sin dagli anni Sessanta del XVIII secolo, strategia di cui il pamphlet bolgeniano rappresenta una chiara attestazione.
Nell’opera più immediatamente politica della sua produzione, Bolgeni ebbe dunque l’opportunità di fondere, in un unico scritto, i due obiettivi contro i quali egli aveva concentrato la sua azione confutatoria: i principi rivoluzionari e la dottrina giansenista.
La pubblicazione dei Diritti dell’uomo di Nicola Spedalieri
Nel 1791 Bolgeni fu coinvolto nella pubblicazione dell’opera De diritti dell’uomo pubblicata nello stesso anno dal filosofo siciliano Nicola Spedalieri. Pio VI incaricò Bolgeni, che già in quel periodo ricopriva un rilevante ruolo in seno alla Penitenzieria Apostolica di cui tre anni più tardi sarebbe diventato teologo, di formulare un giudizio riguardo allo scritto che rappresentava, nell’ambito della produzione di stampo cattolico, il tentativo più avanzato di trovare una sintesi tra nuovi fermenti culturali settecenteschi e principi cattolici.
Intorno all’ambizioso progetto di Spedalieri si scatenò un serrato dibattito: da una parte vi erano coloro che reputavano lo scritto del filosofo siciliano un potenziale strumento di destabilizzazione socio-politica di cui occorreva vietare la pubblicazione ‒ fu questa la posizione su cui si attestarono figure quali il cardinal Sigismondo Gerdil e Tommaso Maria Mamachi – e dall’altra quanti ritenevano che l’opera di Spedalieri, che già aveva formulato molte delle tesi sostenute nei Diritti dell’uomo in opere precedenti mai passate al vaglio della censura, potesse essere pubblicata4.
Allineandosi al parere formulato da teologi quali Giovanni Marchetti e il cardinal Giuseppe Garampi, Bolgeni si dimostrò favorevole alla pubblicazione dell’opera di Spedalieri, suscitando la reazione di quanti ritenevano tale presa di posizione dannosa per la difesa della religione cristiano-cattolica.
Mosso da uno spiccato realismo, Bolgeni intravide nello scritto di Spedalieri un necessario e non più rinviabile tentativo attraverso il quale preservare il ruolo sociale della confessione cattolica, in altri termini un valido progetto politico attraverso il quale riassorbire nell’alveo della cultura cattolica i principi illuministici nei quali la nascente borghesia aveva intravisto il fulcro sul quale fare leva per raggiungere la propria autoaffermazione socio-politica.
La Repubblica romana: il biennio 1798-1799
La discesa delle truppe napoleoniche nella penisola italiana e l’instaurazione della Repubblica romana segnano la parte conclusiva della vita di Bolgeni.
Come di fronte alla dibattuta e controversa questione concernente la pubblicazione dei Diritti dell’uomo, anche davanti all’occupazione di Roma da parte delle armate rivoluzionarie, il teologo bergamasco diede prova di un lungimirante realismo politico e di una spiccata flessibilità intellettuale.
L’instaurazione del governo repubblicano e la cessazione del potere temporale del pontefice rappresentarono agli occhi di Bolgeni fenomeni irreversibili nei confronti dei quali mantenere, per lo meno nel breve periodo, una posizione di equilibrata moderazione, funzionale a prevenire ulteriori e peggiori conseguenze per la santa Sede. Il teologo della Penitenzieria si impegnò in due principali direzioni: salvaguardare il potere spirituale del pontefice e impedire che le istituzioni fondamentali della Chiesa di Roma fossero ulteriormente colpite.
Nella prospettiva bolgeniana era necessario evitare comportamenti eccessivamente reattivi che, agli occhi della pubblica opinione europea, avrebbero legittimato risposte ancora più violente da parte della Francia e delle ali più estremistiche del giacobinismo.
Sulla scia di tale realistica presa di coscienza Bolgeni accettò la distinzione tra potere ecclesiastico e secolare e avanzò alcune qualificate concessioni riguardo alla cessazione del potere temporale del pontefice. Idee che egli espresse in modo sistematico nell’opera intitolata Sentimenti de’ Professori della Università del Collegio Romano sopra il Giuramento prescritto dalla repubblica Romana, pubblicata a Roma nel 1798.
Di fronte all’eccezionalità rappresentata dalla situazione politica romana sullo scorcio finale del XVIII secolo, Bolgeni si spinse verso posizioni ancor più progressiste. Lo stesso anno, nello scritto intitolato Parere di Gian Vincenzo Bolgeni sul giuramento civico, si schierò apertamente a favore del giuramento civico imposto dal governo repubblicano a tutti i sudditi, compreso il clero. Il breve emanato da Pio VI il 30 giugno 1798, con il quale il pontefice condannava il giuramento civico, non richiedeva infatti conformazione in coscienza in quanto secondo Bolgeni non era insignito dei requisiti necessari per essere considerato alla stregua di una definizione di fede.
Lo scritto di Bolgeni suscitò molte reazioni critiche soprattutto tra coloro che erano stati i più stretti collaboratori dell’ex-gesuita. Il fatto che tali aperture verso il nuovo regime politico fossero avanzate proprio da Bolgeni, considerato il capofila nella battaglia contro ogni tentativo di ridimensionare le prerogative romane e pontificie, comportò in seno alla curia romana e agli ambienti filo-papali un generale disorientamento tra quanti non riuscirono a comprendere la complessità della posizione bolgeniana.
Tra il 1798 e il 1799 furono pubblicate molte opere indirizzate alla confutazione del pensiero di Bolgeni, quali ad esempio Lettera al cittadino Gio. Vincenzo Bolgeni sul parere da lui pubblicato intorno al Giuramento (1798) composta dall’ex-gesuita Luis Marie Bucchetti, Riflessioni teologiche sopra il giuramento civico, e sopra la vendita dei beni ecclesiastici contro il parere di un Teologo Romano (1798) di Giambattista Gentilini e Parere di F. T. sul Giuramento e sull’alienazione de’ beni ecclesiastici, pubblicato dall’ex-gesuita svedese Ignazio Thiulen, nonché un rilevante numero di recensioni negative che importanti esponenti della “scuola romana” pubblicarono sul Giornale ecclesiastico di Roma.
L’apertura offerta da Bolgeni nei confronti del regime repubblicano si traduceva agli occhi degli ambienti filo-curiali in un pericoloso cedimento di fronte al nuovo governo, atteggiamento che avrebbe comportato la negazione del magistero della Chiesa e la completa distruzione della confessione cattolica.
A dispetto delle accuse rivoltegli, nel 1798 Bolgeni diede alle stampe un’altra opera, come le precedenti, gravida di conseguenze negative, intitolata Parere del Cittadino Exgesuita Gio-Vincenzo Bolgeni, teologo della S. Penitenzieria, sull’alienazione de’ Beni ecclesiastici, nella quale, coerentemente con le idee formulate nello scritto sul giuramento civico, Bolgeni avanzò alcune aperture verso l’alienazione di una parte dei beni posseduti dalla Chiesa di Roma. Il teologo ex-gesuita propugnava la possibilità che il clero fosse mantenuto dallo Stato, e che esso, di fronte a situazioni di estrema e conclamata necessità, avesse nelle proprie mani il potere di alienare i beni dei privati cittadini. Inoltre, nella prospettiva bolgeniana lo Stato, essendo in possesso della piena giurisdizione riguardo alle materie attinenti alla sfera temporale, aveva il diritto di alienare i beni ecclesiastici senza bisogno del placet apostolico.
Posizioni contro le quali, nuovamente, si sollevò la reazione delle frange filo-curiali. Emblematica è in tal senso l’opera intitolata Lettera del Canonico Ferminio Terrini al cittadino Giovanni Vincenzo Bolgeni sulla vendita de’ fondi delle chiese, nella quale l’abate empolese Marchetti contestò il principio secondo il quale il clero potesse essere trasformato in un corpo di funzionari statali e l’idea che lo Stato avesse potestà sui beni ecclesiastici.
Gli attacchi subiti e l’approssimarsi della caduta della Repubblica romana costrinsero Bolgeni ad una pubblica ritrattazione. Nel febbraio del 1799 fu pubblicata l’opera intitolata Ritrattazione di Giovanni Vincenzo Bolgeni, diretta a Monsignor Vicegerente di Roma, nella quale l’ex-gesuita si impegnò a ritrattare le idee precedentemente formulate riguardo all’alienazione dei beni ecclesiastici e al giuramento civico.
A proposito del primo argomento, allineandosi alle tesi formulate da Marchetti, Bolgeni ammise l’obbligatorietà del placet apostolico come strumento indispensabile per rendere legittima l’alienazione dei beni ecclesiastici da parte dell’autorità secolare. Riguardo al giuramento civico il teologo bergamasco mantenne un atteggiamento più guardingo, dimostrandosi disponibile a ritrattare la sua opinione più per salvaguardare il bene della cattolicità che per un’intima convinzione.
Una volta completata la ritrattazione Bolgeni inviò una copia del proprio scritto al vice-gerente di Roma e un’altra al conclave riunito a Venezia, dove, sotto protezione imperiale, nel marzo del 1800 il cardinal Barnaba Chiaramonti fu eletto pontefice con il nome di Pio VII.
Consapevole dei problemi derivanti dalle aperture dimostrate nei confronti del governo repubblicano, Bolgeni decise di dare alla luce un’altra opera, intitolata Metamorfosi del dott. Giovanni Marchetti, da Penitenziere mutato in Penitente, pubblicata nel 1800, nella quale si impegnò a dare ragione del suo operato durante il biennio 1798-1799.
Ritiro a vita privata e morte
I tentativi messi in campo da Bolgeni non diedero tuttavia i frutti sperati. Con il rientro a Roma del pontefice, avvenuto nel luglio del 1800, l’ex-gesuita si vide revocati tutti gli incarichi curiali che nel corso della sua carriera aveva accumulato, compreso il titolo di teologo penitenziere.
A seguito di questa complessa vicenda Bolgeni si ritirò a vita privata.
Morì a Roma il 3 maggio 1811.
L’influenza dell’ecclesiologia di Bolgeni
L’analisi della biografia intellettuale di Bolgeni rappresenta un punto di osservazione privilegiato per comprendere l’evoluzione dalla politica ecclesiastica negli ultimi trent’anni del XVIII secolo. Il teologo bergamasco fu il “più coerente sistematore e difensore della più rigorosa tradizione ortodossa cattolica, soprattutto per quanto concerneva la difesa delle prerogative del pontefice, la sua primazia e la sua infallibilità”, come ha scritto Renzo De Felice. Fu, in altre parole, un uomo al servizio della Chiesa di Roma e della cattolicità il quale, impegnandosi senza posa, si fece concreto interprete degli indirizzi dettati dalla santa Sede.
Solo tenendo presente tale impegno è possibile comprendere, nella sua complessità storica, il comportamento di Bolgeni durante il periodo repubblicano. Particolarmente interessante risulta a tal proposito fare riferimento alle tre categorie con cui De Felice classifica i cattolici italiani in base al loro comportamento durante il periodo rivoluzionario5: coloro i quali accettarono il governo repubblicano senza entusiasmo, cercando di fare in modo che l’autorità spirituale e materiale della Chiesa non fosse intaccata, quanti, aderendo sinceramente al nuovo regime repubblicano – definiti dall’autore “democratico-cattolici” – riconobbero la necessità che la Chiesa fosse oggetto di sostanziali riforme, quali ad esempio la vendita dei beni ecclesiastici e la cessazione del potere temporale del pontefice e, infine, i cosiddetti “evangelico giacobini”. In questa schematica classificazione Bolgeni si pone a metà strada tra la prima e la seconda categoria. Si espresse favorevolmente nei confronti delle riforme ecclesiastiche, l’unica strada che avrebbe garantito la preservazione delle istituzioni che nel corso della sua lunga attività aveva strenuamente difeso, ma non aderì mai sinceramente al nuovo regime democratico. In altre parole, le idee espresse nel biennio repubblicano furono il frutto di una realistica analisi politica e non di una opportunistica e premeditata strategia.
A dispetto della vicenda che ne contraddistinse la parte finale della vita, segnata dall’estromissione da tutti gli incarichi ricoperti all’interno della curia romana, Giovanni Vincenzo Bolgeni continuò a godere, per tutto il XIX secolo, di una notorietà e di una fama notevolissime. La visione ecclesiologica formulata nei Fatti dommaticie nell’Episcopato costituì infatti un irrinunciabile punto di riferimento per i teologi che, durante il Concilio Vaticano I, lavorarono alla stesura della Pastor Aeternus, la costituzione con cui, oltre un secolo più tardi rispetto all’attività di Bolgeni, la dibattuta materia dell’infallibilità pontificia trovò una definitiva risoluzione.
Bibliografia
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Article written by Marco Rochini | Ereticopedia.org © 2013
et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]