Beato, Giovanni Maria

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


Giovanni Maria Beato o Beati o de Beatis di Rovigo, detto "Manfredino", è stato un eretico anabattista veneto del XVI secolo, esule religionis causa.

Dall'adesione all'anabattismo alla fuga in Moravia

Apparteneva a una delle più importanti famiglie cittadine “di Consiglio” che, attiva a Rovigo già dal XIII secolo e proveniente da Ferrara, discendeva da quel Manfredino, figlio di Alberto dei Turco, che aveva ottenuto in feudo dal marchese Azzo VII d’Este un vasto territorio nei pressi dell’Adige, nella zona di Concadirame. La Repubblica confermava più tardi tale privilegio ai suoi discendenti, molti dei quali praticarono il notariato: fin dal periodo estense i membri della famiglia, divisa in diversi rami, ricoprirono le più alte cariche civili ed ecclesiastiche. Quella di Giovanni Maria e del fratello Giovanni Giacomo poteva vantare su un cospicuo patrimonio fondiario e diverse investiture feudali.
La vicenda del Beato si intreccia con quella di Carlo Moscone, suo compagno di fede e di “avventura” verso luoghi stranieri, religionis causa. Veniva ascoltato una prima volta con altri testimoni, fra i quali molti rodigini, dal Sant’Ufficio di Venezia nel 1551 per aver partecipato l’anno precedente − insieme con i polesani Francesco Della Sega, Gerolamo Venezze e Giovanni Ludovico Bronzier − al sinodo anabattista, dove proprio Moscone aveva provveduto a saldare le spese di viaggio per gli amici. Il cancelliere del tribunale ecclesiastico veneziano dava di Giovanni Maria una breve descrizione: ««Zuan Maria Beato, altre volte Manfredino, cittadino di Rovigo […] giovane di statura mezzana con poca barba, con un segno di una persona sopra l’occhio destro, di età ut ex aspectu 24 in circa, vestito di una pelizza curta di color tanedo». Dalla sua testimonianza e da molte altre emergono importanti nomi e relazioni con altri eterodossi, le idee in materia di fede maturate da Beato attraverso frequentazioni e incontri, il più significativo quello con Benedetto d’Asolo conosciuto, come egli affermava, tramite tale Bernardo Regone mercante di panni di Serravalle, dove era attiva una comunità anabattista, citata da Alvise de’ Colti in occasione della delazione di Pietro Manelfi.
I rapporti fra Beato e Benedetto d’Asolo si fecero subito stretti, quando quest’ultimo iniziò la sua opera di proselitismo nel Polesine: le sue idee avevano affascinato Giovanni Maria, che lo aveva ospitato a Rovigo, dove Benedetto aveva ribattezzato i componenti della famiglia, esortandoli a disertare la messa e a bruciare le immagini sacre. Riferiva Beato durante la testimonianza veneziana: «Per quanto alla natività di Christo egli diceva ch’era nato di seme humano, allegando autorità al proposito suo, la qual cosa ni fece restare tutti stupidi, et gli dicevimo como dunque sta quel Evangelio che dice che fu mandato l’angelo a Maria Vergine, et li disse che nasceria de Spirito Santo, et ditto Benetto ne diceva che quel i era aggionto et falsificato […], in Christo non era doi nature, ma sola la natura humana, et non la divina, ma era ben vero che Christo era tutto pieno di Spirito Santo e di grazia, che l’era tutto compiacimento d’Iddio, et Dio era tutto in lui, et lui in Dio, et lo accettò per suo figliuolo peculiare, nel qualle et per il qualle volse redimere la natura humana». Sempre da Benedetto aveva “imparato” che due soli erano i sacramenti, battesimo e cena. L’impegno verso il “maestro”, durante il periodo nel quale predicò a Rovigo e nel Polesine fu totale, incurante dei rischi che la sua presenza comportava, così come lo fu quello con un altro anabattista, il celebre Tiziano − figura controversa, probabilmente di Conegliano o Ceneda, espulso dai Grigioni, dove si era convertito al “luteranesimo”, intorno al 1549 − anche lui di passaggio a Rovigo per andare a Ferrara a raccogliere proseliti.
Giovanni Maria infatti non solo lo ospitò, ma si prese cura anche del figlioletto ammalato, trovandogli un precettore che gli impartiva lezioni, alle quali assistevano Gerolamo Venezze e Francesco Della Sega (giustiziato a Venezia nel 1565). Poco altro sappiamo del soggiorno veneziano di Beato, se non che continuava a frequentare il gruppo anabattista al quale appartenevano anche i rodigini Venezze e il notaio Benedetto Aldiverti o Picenini, padre di Aristotele, anch’egli processato per anabattismo. Di certo, tornato a Rovigo, era stato processato, anche se il suo fascicolo venne successivamente rubato insieme con molti altri, che contenevano peraltro le abiure “private” di personaggi in vista della città (Antonio Riccoboni, Giovanni Battista Minadois). Alla sua detenzione e abiura accenna il cancelliere vescovile Sebastiano Bonifacio nella sua seconda denuncia (1558): «Giovanni Maria Beato, già abgiurato et al’hora detento et incarcerato […], il quale fu pronunziato relapso». Lo stesso Aristotele Aldiverti, durante il suo processo riferiva che «egli sapeva di haver il breve tachato al collo». In realtà la questione del furto di processi, compreso quello di Giovanni Maria, faceva parte di quelle “vicende eccezionali” (Del Col, pp. CXXXIII-CXXXVII) che avevano avuto come “protagonisti” il vescovo Giulio Canani e il podestà in carica in quegli anni.
Nel caso Beato, giudicato relapso dal vescovo Canani e dall’inquisitore di Adria fra Cornelio Divo, le lettere intercorse fra il primo e Michele Ghislieri testimoniano lo stato di tensione fra autorità civile e religiosa. Il presule esprimeva preoccupazione per il fatto che la sentenza di condanna “sarebbe stata valutata dall’Inquisizione di Venezia per vedere se ci fossero stati errori”; contemporaneamente riferiva di “libelli” fatti circolare in città contro di lui, nei quali si esortavano gli eretici a «far vendetta della persecuzione che patiscano». In forma assai incompleta il Canani si riferiva al dissidio fra il podestà allora in carica, Marino Donà e i giudici di fede: infatti secondo quanto il rappresentante veneziano riferiva al Consiglio dei Dieci, il processo Beato era stato svolto con particolare accanimento contro l’accusato, con «villanie» da parte dell’inquisitore e scarsa tutela dei suoi diritti alla difesa. I testimoni al riguardo, infatti − secondo il Donà − erano stati ascoltati in modo poco corretto, e l’inquisitore si era fatto «anco licito di far notare solamente quel tanto li pareva, premettendo quello favoreggiava il reo».
Era questa una chiara allusione a supposte imparzialità sia dei giudici di fede che dei notai nella trascrizione degli interrogatori; inoltre al giudizio e alla pena proposti da vescovo e inquisitore − che avevano giudicato relapso il Beato, condannandolo al carcere perpetuo − si contrapponeva quello dei due dottori laici e del podestà, che avevano ritenuto utile come pena la “correzione” per lo scandalo dato. Il Donà forniva al riguardo una sua personale e chiara spiegazione: «questi reverendi più presto per odio et rancore, per quanto in fatto si vede, procedono contra questo reo, che per causa ch’ora ne abbiano legittima», mentre di opposto atteggiamento erano stati con l’eretico Benedetto Aldiverti Piccenini [padre di Aristotele]. E il podestà chiudeva “spiegando” la causa: Beato aveva beni immobili personali per più di 6.000 ducati! Di più: “suggeriva” le pene che a suo avviso avrebbero dovuto essere comminate al reo. Prima che il vescovo partisse per un soggiorno a Padova chiese inoltre che, dietro fideiussione, Beato fosse liberato, ma alla risposta negativa lo fece cambiare di prigione e ancora, con il pretesto che era ammalato, lo rimise in libertà con cauzione di 1.000 scudi, senza farne parola con i giudici inquisitoriali.
Di certo il suo tentativo di influenzare i giudici di fede era stato pesante, e le lunghe e complesse vicende successive condotte con qualche “ingenuità” − il suo parere era stato registrato nel processo − tanto che la cosa aveva irritato non poco Venezia. I Dieci quindi decidevano di procedere ordinando che venissero raccolti e distrutti gli originali e le copie del fascicolo, e che fosse rifatto il processo, con la sostituzione dell’inquisitore. Non veniva risparmiata una bacchettata al Donà, perché «il far notare in scrittura l’opinion vostra et delli vostri consultori in materia di heresia […] è cosa contraria agli ordini nostri». Con rapidità e con uno zelo quantomeno esuberante, di notte venivano rubati tutti i processi “precedenti a tale data”, conservati nello studio privato di Sebastiano Bonifacio, potente cancelliere vescovile: nel frattempo Giovanni Maria fuggiva, come aveva fatto un altro eretico, quel Carlo Moscone inizialmente suo compagno di fede, il quale come lui aveva ospitato Benedetto d’Asolo.

La persecuzione contro il fratello Giovanni Giacomo Beato e gli altri membri della famiglia

Le vicende successive alla fuga di Beato si possono ricostruire attraverso due fascicoli del Sant’Uffizio di Rovigo a carico del fratello Giovanni Giacomo: il primo veniva aperto dal vicario vescovile che lo aveva fatto incarcerare, «invocato auxilio brachii», nel 1562; durante l’interrogatorio erano presenti il podestà, Vittore Bragadin e l’inquisitore Giulio Cortivo da Padova. Giovanni Giacomo affermava di abitare a Venezia, in casa di Giovanni Ludovico Bronziero, eretico abiurato, del quale aveva sposato la figlia Costanza. Era stato fermato durante una delle frequenti soste a Rovigo, dove si occupava delle sue proprietà che aveva dato in affitto; all’accusa di eresia si aggiungeva quella era di essere stato più volte «in regionibus lutheranorum». Giovanni Giacomo narrava i fatti accaduti qualche anno prima al fratello: il quale, dopo la fuga e con l’aiuto di Francesco Della Sega, si era recato in Moravia, ad Austerlitz, dove già vivevano i suoi famigliari − madre, moglie e due sorelle partite prima di lui − tornando di nascosto in patria qualche tempo dopo per portare in quelle terre il figlio Nicola, affidato, così come l’ingente patrimonio, al fratello.
Giovanni Giacomo, proprio per evitare ritorsioni, aveva preferito trasferirsi a Venezia, da dove poteva valicare più facilmente le Alpi per raggiungere la sua famiglia. In questa prima convocazione egli rivela che i suoi genitori, Giacomo e la madre Lucia, erano morti: «non ho più alcuno», il padre a Rovigo, la madre ad Austerlitz alcuni anni prima. Anche il fratello e la moglie erano deceduti, mentre restavano in terra straniera i suoi figli, Nicola e Giovanna, che lì era nata. Per vivere Giovanni Maria si dedicava al commercio di panni e sete, come molti altri esuli italiani che si trovavano con lui. Alla domanda dell’inquisitore «haverai hauto qualche mala opinione nel cervello», Giovanni Giacomo si affrettava a negare, promettendo «de condur de qua quelli miei nepoti»; nel successivo interrogatorio accennava quasi di sfuggita a persone di Rovigo che aveva incontrato a Venezia: Antonio Maria Mazzarelli, fratello di Domenico, entrambi eretici, e «ho sentito a dir che sonno stati presi et menati a Venetia alcuni fra quali uno Franceso fra Hosto [Francesco Della Sega, giustiziato nel 1565], et non so per che causa».
In realtà queste persone facevano parte del gruppo di eretici rodigini che in quegli anni avevano aderito, pur con orientamenti diversi, alle nuove dottrine eterodosse, cercando a Venezia contatti e solidarietà per recarsi − soprattutto i più compromessi − in quelle terre straniere ritenute in grado di accoglierli. Lo stesso Giovanni Giacomo, alla richiesta dell’inquisitore circa la fuga del fratello, non poteva che ammettere «perché mi par che li era perseguitato per conto de luterano», pur insistendo che non aveva mai cercato di convincere nessuno dei suoi famigliari delle sue opinioni. Qui l’interrogatorio terminava, Beato era rimesso in libertà, con la promessa da parte sua di riportare in patria i nipoti.
Evidentemente nel frattempo nulla cambiava, se due anni dopo il tribunale ecclesiastico ascoltava altri testi, che confermavano le frequentazioni ereticali di tutta la famiglia Beato, in casa della quale, prima della fuga di Giovanni Maria, si radunavano Domenico Mazzarelli, Aristotele e Cesare Aldiverti o Piccenini e altri che venivano da fuori, e tutti insieme leggevano libri proibiti. Si arrivava al 22 luglio 1569 con una nuova convocazione di Giovanni Giacomo, che rifiutava di rispondere data l’assenza del podestà. Due giorni dopo il tribunale al completo riprendeva, ritenendo Beato «vehementer suspectum de heresi», e intimandogli di non allontanarsi da Rovigo, sotto pena di 300 ducati «in casu contrafactionis». Una nuova pausa rimandava il tutto a settembre quando Beato ricostruiva davanti ai giudici la fuga del fratello, che in ogni modo aveva tentato di convincerlo alle sue idee. In un secondo interrogatorio, alla sola presenza dell’inquisitore, da lui esortato a dire la verità, poiché si era compreso che nei costituti del 1562 aveva mentito, in ginocchio e chiedendo perdono ammetteva molte cose sue e della sua famiglia. In un lungo contradditorio rivelava che il fratello «mi persuase a voler entrar nelle loro opinioni, ch’erano che fusse male confessarsi et comunicarsi, et molte volte mi indusse a voler viver malamente come voleva lui […] el mi persuase che non vi fusse purgatorio, et io gelo credeti […], el mi persuase a creder che fusse matierìe tenir imagine de Santi in casa […] della predestinazione che quello che doveva esser non mancharia mai, et mi diceva anche che si poteva mangiar carne d’ogni tempo».
Lo stesso valeva per indulgenze e voti, «batarìe de preti et de frati»; nulla insomma di quanto riguardava le pratiche liturgiche e i dogmi della Chiesa avveniva dove si trovava Giovanni Maria, dove le persone vivevano «parte luteranamente et parte come volevano, da bestie». Alle idee del fratello Giovanni Giacomo aveva aderito per quattro anni, poi si era ricreduto, e a suo dire ora viveva da buon cristiano. In realtà, nei successivi interrogatori finiva per ammettere di aver mentito, e da quando era ritornato «de terre de luterani» non si era più accostato ai sacramenti, anche se alla domanda dell’inquisitore «se l’ha mai creduto che non si debba batizar fin che l’homo non è grande», rifiutava di aver mai «creduta questa cosa horenda». Quanto alla moglie Costanza Bronziero, nella sua deposizione confermava che il padre era stato processato per eresia, ma le aveva insegnato a «viver christianamente», al contrario del marito, che voleva convincerla ad andare in Moravia; ma ora vivevano a Rovigo ormai da tre anni, lei era in attesa di un secondo figlio, e mai avrebbe lasciato la città.
Dopo queste rivelazioni il tribunale incarcerava Giovanni Giacomo, e di fronte al suo rifiuto di rivelare i nomi di eventuali complici decideva di portarlo «ad locum torturae». Due sedute con ripetuti tiri di corda non portavano ad alcuna rivelazione circa «alicui Rhodigino quod ipse cuperet manere Genevra ut posset vivere more suo»: Giovanni Giacomo ripeteva le stesse cose, i soliti nomi di coloro − Mazzarelli ormai fuggito, Aldiverti già processato − ormai non erano di alcuna utilità. Non restavano che la purgazione canonica e l’abiura, da lui firmata e «lecta ore proprio» dal pulpito della chiesa di Santo Stefano nel dicembre 1569: quanto alla pena, venivano comminati il carcere perpetuo e le consuete pene spirituali, insieme con l’ammenda di 500 ducati per la costruzione di una statua della Vergine «ponenda in loco eminentiori in plateis Rhodigii». L’anno successivo anche la moglie Costanza e il figlio Nicola leggevano la loro purgazione canonica: la prima nella chiesa di Sant’Antonio, il secondo in quella di Santo Stefano.
Giovanni Giacomo Beato rimase in carcere un anno, trascorso il quale gli veniva concesso − come quasi sempre accadeva, e con fideiussione di 1000 ducati − di sostituire la prigione con la sua abitazione; nel 1584 una sua supplica rivolta al Cardinale Giacomo Savelli della Congregazione romana, perveniva al Canani: il reo chiedeva di poter uscire di casa, dove era «costretto» da 14 anni, per recarsi a Ferrara, Padova e Venezia dove svolgere alcuni «uffici», poiché doveva occuparsi della dote di «due figlie» in età da marito. Il vescovo accoglieva la sua richiesta. Si può affermare che questo processo sia l’ultima testimonianza riguardo le complesse vicende ereticali che avevano coinvolto Rovigo nella seconda metà del Cinquecento; altresì i numerosi riferimenti in esso contenuti riguardo i casi di altri personaggi − dei quali il citato furto dei fascicoli resta una pesante lacuna − consentono quantomeno di “recuperare” diverse informazioni, colmando seppure in parte questo vuoto.

Fonti e bibliografia

  • Archivio della Curia vescovile di Rovigo, Cause Criminali, Processus de heresi formatus contra Jo. Jacobum Beatum, Nicolaum Batum et dominam Constantiam Beatam, uxorem Jo. Jacobi, 1560; inoltre Denuncia Bonifacio, I, 1558.
  • Archivio di Stato di Venezia, Sant’Uffizio, Processi, b. 158, reg. III: testimonianze circa il sinodo anabattista veneziano.
  • Luca Addante, Eretici e libertini nel Cinquecento italiano, Laterza, Roma-Bari 2010 (in part. p. 185).
  • Aldo Stella, Anabattismo e antitrinitarismo in Italia nel XVI secolo. Nuove ricerche storiche, Liviana, Padova 1969.
  • Gino Marchi, La Riforma tridentina in Diocesi di Adria nel secolo XVI descritta con il sussidio di fonti inedite, Rebellato, Cittadella (Pd) 1969.
  • I costituti di don Pietro Manelfi, a cura di Carlo Ginzburg, Biblioteca del Corpus Reformatorum Italicorum, Sansoni- The Newberry Library, Firenze- Chicago 1970.
  • Luigi Contegiacomo, Rovigo. Personaggi e famiglie, in Le “Iscrizioni” di Rovigo. Delineate da Marco Antonio Campagnella, Contributi per la storia di Rovigo nel periodo veneziano, Lint, Trieste 1986, pp. 436-513, in part. pp. 469-473.
  • Stefania Malavasi, Eretici, maghi e streghe nel Veneto del Cinque-Seicento, Minelliana, Rovigo 2005.
  • Adriano Prosperi, Eresie e devozioni. La religione italiana in età moderna, I-III, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2010, in part. III, Devozioni e conversioni.

Article written by Stefania Malavasi | Ereticopedia.org © 2018

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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