Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444
Elisabetta I Tudor (Greenwich, 7 settembre 1533 – Richmond Upon Thames, 24 marzo 1603), conosciuta come la “Regina Vergine” (The Virgin Queen), è stata una delle più grandi sovrane della storia inglese, seconda figlia di Enrico VIII e della sua seconda moglie, Anna Bolena, e guida dell’Inghilterra per quarantaquattro anni.
Biografia
Infanzia e giovinezza
Elisabetta I d’Inghilterra fu una figura sicuramente insolita per il suo tempo: nata principessa e poco dopo disconosciuta, riabilitata alla linea di successione e costretta poi a tribolare tra pericoli e congiure, salì infine al trono inglese e governò con piglio deciso, stabilendo di rimanere vergine e nubile e di non legarsi mai a nessun uomo. Considerava come suo unico marito l’Inghilterra e come suoi figli il popolo inglese, popolo che l’amò incondizionatamente e la sostenne fino alla sua morte.
La sua epoca fu ricca di avvenimenti politici, sociali, artistici e culturali e venne ricordata come “età elisabettiana” o “età dell’oro” (The Golden Age).
Nata nel settembre del 1533 dal grande sovrano Enrico VIII e dalla sua seconda moglie, Anna Bolena, Elisabetta disilluse subito tutte le speranze che i genitori avevano riposto in quel figlio tanto atteso e desiderato: nonostante le più rosee previsioni degli astrologi di corte, nonché le rassicurazioni della Bolena, non nacque l’agognato figlio maschio che Enrico VIII attendeva, ma una femmina.
Inizialmente, circolò la voce che la nuova principessa avrebbe avuto come nome Maria, «prendendo sia il nome sia il posto della figlia di Caterina d’Aragona, per soppiantarla definitivamente»1, ma il giorno del battesimo fu annunciata col nome di Elisabetta, nome sia della madre di Enrico, Elisabetta di York, sia della madre di Anna, Elisabetta Howard.
I suoi primi anni di vita furono tranquilli e sereni, trascorsi perlopiù con balie e governanti: la stessa sorellastra Maria, retrocessa a figlia illegittima, doveva fare da “cameriera” alla nuova principessa d’Inghilterra, che era stata ufficialmente riconosciuta e posta al primo posto nella linea di successione. Infatti, dopo il divorzio dalla sua prima moglie, Caterina d’Aragona, Enrico VIII aveva deciso di sposare la Bolena con la speranza di avere finalmente un erede maschio: Elisabetta, però, fu l’unica figlia sopravvissuta della coppia e, pertanto, con l’esclusione della sorellastra Maria Tudor dalla successione, diventava l’unica legittima erede al trono.
Nei primi tre anni di vita, la principessa fu trattata con ogni riguardo, anche se spese molto poco tempo col padre e la madre: era alloggiata presso alcune dimore di campagna, accudita da servitori e cameriere, ed era portata a corte raramente, più per essere mostrata ad ambasciatori e cortigiani che per trascorrere qualche giorno con i genitori. Nonostante ciò, sia Enrico che Anna si preoccupavano per la figlia, informandosi con regolarità della sua salute, della sua crescita e della sua vita e monitorando a distanza tutti coloro che interagivano con la principessa, prima fra tutti lady Maria, la sua sorellastra.
Nel 1536, con la perdita dell’ultimo figlio, Anna Bolena cadde in disgrazia: incapace di generare un erede maschio, venne accusata di adulterio, stregoneria e incesto e condannata a morte. Elisabetta aveva solo tre anni, ma «fu disconosciuta dal re e dichiarata figlia di Anna e del suo amante Henry Norris»2, perdendo i suoi privilegi e il suo status di erede al trono inglese. Da quel momento in poi, Elisabetta venne allevata esclusivamente da delle governanti e confinata nel palazzo di Hatfield, lontana dalla corte inglese, in condizioni quasi misere: il padre, infatti, le inviava il minimo indispensabile per la sua sopravvivenza, dedicandosi ormai alla sua terza moglie, Jane Seymour, e al figlio che questa portava in grembo.
Così, la piccola Elisabetta crebbe prima con lady Margaret Bryant e poi, all’età di quattro anni, passò alle cure di Katherine Champernowne (o Kat Ashley), che le insegnò la matematica, la storia, la geografia, l’astronomia, l’architettura, il ricamo, la danza, l’equitazione e il portamento, oltre ai primi rudimenti di latino, francese, italiano, spagnolo e fiammingo. La Ashley fu una figura fondamentale per Elisabetta, l’unica in grado di poterle parlare liberamente e addirittura rimproverarla, anche dopo la salita al trono della Tudor.
Dopo la morte di Jane Seymour, che aveva dato alla luce il tanto atteso erede maschio, Edoardo VI, Enrico VIII si risposò con la nobildonna tedesca Anna di Clèves, che intercesse presso il sovrano affinché sia Maria che Elisabetta fossero riammesse a corte e cresciute secondo il loro rango. Nei pochi mesi vissuti come sovrana, Anna di Clèves strinse un sincero rapporto di amicizia con entrambe, ma poco dopo venne ripudiata da Enrico VIII e dovette lasciare la corte.
Il sovrano, così, si risposò per la quinta volta con Catherine Howard, una fanciulla ancora giovane, cugina della defunta madre di Elisabetta, Anna Bolena. Forse per il legame di parentela o per l’età ancora puerile di Catherine, la nuova regina ed Elisabetta trascorsero molto tempo insieme, tanto che, quando anche la nuova sovrana fu accusata di adulterio e condannata a morte, Elisabetta, che aveva solo otto anni, ne rimase turbata e inorridita: fu forse in quel momento che, rievocando anche la tragica morte della madre, Elisabetta decise di non sposarsi mai, associando il matrimonio a una funesta immagine di morte.
Con il sesto e ultimo matrimonio di Enrico VIII con Catherine Parr, la vita di Elisabetta ebbe una svolta in meglio: infatti, la regina si adoperò affinché sia Elisabetta che Maria fossero reinserite nella linea di successione, dopo il principe Edoardo, e affinché vivessero tutti insieme come una famiglia. Inoltre, la Parr si preoccupò dell’educazione di Elisabetta e le procurò un tutore, Roger Ascham, con cui continuare lo studio del latino, del francese e dell’italiano e coltivare la sua intelligenza e la sua memoria prodigiosa. L’ultima moglie di Enrico «divenne per lei qualcosa di simile a una madre, tanto che alla morte del padre decise di continuare a vivere con lei»3.
Alla morte di Enrico VIII, infatti, salì al trono Edoardo VI e sia Maria che Elisabetta, nonostante i buoni rapporti coltivati col giovanissimo fratello, preferirono allontanarsi dalla corte: Elisabetta si ritirò così nella dimora della Parr, che poco dopo sposò Thomas Seymour, l’uomo che avrebbe voluto sposare se il re Enrico non l’avesse chiesta in moglie.
Finché visse in casa della Parr e con Edoardo sul trono, Elisabetta fu al sicuro; poco dopo, però, Thomas Seymour fu accusato di aver insidiato la giovane principessa, progettando addirittura di sposarla: per questo motivo, Catherine Parr ritenne opportuno allontanare dalla sua casa Elisabetta, che tornò a dedicarsi ai suoi studi e mantenne una regolare corrispondenza con l’ultima matrigna, finché quest’ultima non morì di parto.
L’ascesa al trono d’Inghilterra
Alla morte di suo padre, re Enrico VIII, Elisabetta vide salire al trono il suo giovane fratellastro, Edoardo VI, con cui aveva sempre intrattenuto rapporti cordiali. Durante il suo regno, infatti, Elisabetta fu spesso invitata a corte dal fratello e, prudentemente, evitò sempre di immischiarsi nelle continue dispute di materia religiosa tra Edoardo e la sorella Maria.
Morto Edoardo VI, e dopo un breve periodo di sconvolgimenti dovuti alla salita al trono di lady Jane Gray, designata come erede dallo stesso Edoardo prima di morire, divenne regina Maria Tudor.
Maria ed Elisabetta non avevano mai avuto buoni rapporti: la prima odiava Elisabetta di riflesso, essendo lei frutto dell’unione di suo padre con Anna Bolena, colei che aveva distrutto il matrimonio di sua madre, Caterina d’Aragona, e che aveva fatto precipitare la chiesa inglese nel caos; la seconda, invece, temeva Maria, poiché sapeva che, fin dalla sua nascita, era stata causa indiretta di tante umiliazioni subite dalla sorella. Inoltre, le due sorelle praticavano culti diversi e, nel clima di puro cattolicesimo instaurato da Maria, essere fedeli ad un altro credo come Elisabetta, che si sentiva più vicina alla religione protestante, poteva costare la vita.
Nonostante tutto, Maria era stata comunque un punto di riferimento per Elisabetta, soprattutto durante l’infanzia della sorella e subito dopo la nascita del fratellastro, «quando erano ambedue considerate come delle illegittime e in condizioni alquanto disagiate. La sfortuna condivisa insomma le aveva avvicinate, ma solo per poco»4.
Durante il regno di Maria Tudor, che intanto aveva sposato il cattolico Filippo II di Spagna, Elisabetta mantenne un basso profilo, evitando di manifestare la sua fede protestante e tenendosi al riparo da ogni tentativo di coinvolgimento in possibili attentati e congiure a danno della regina. Malgrado ciò, Maria sospettò più volte di Elisabetta, tanto da rinchiuderla per un breve periodo nella Torre, ma non trovò mai alcuna prova a suo sfavore e, quindi, non poté né accusarla né tantomeno condannarla a morte.
Dopo la sua liberazione dalla prigionia, e quando la regina credette di stare aspettando un figlio, ad Elisabetta fu concesso di tornare a corte, grazie anche all’intercessione di Filippo, preoccupato da una possibile morte per parto della moglie e desideroso di ingraziarsi Elisabetta per una possibile loro futura unione. Quando però Maria non diede alla luce nessun erede, la giovane Tudor decise di allontanarsi nuovamente dalla corte, per evitare nuove accuse di congiure a danno della sovrana.
Pochi anni più tardi, ormai in punto di morte per un terribile male scambiato per una nuova gravidanza, la regina Maria si decise a designare come suo successore al trono proprio la sorellastra, speranzosa di lasciare l’Inghilterra in mani sicure e confidando che Elisabetta avrebbe comunque continuato a portare avanti la crociata cattolica contro i protestanti.
Il 17 novembre 1558 spirava Maria Tudor e, automaticamente, Elisabetta diventava la nuova regina d’Inghilterra: la nuova sovrana venne ufficialmente incoronata il 15 gennaio 1559, «anno che significa, per la storia inglese, l’inizio dell’era elisabettiana»5, incontrando le simpatie di tutto il popolo inglese e, soprattutto, di quello protestante, che si aspettava di certo un trattamento migliore rispetto alle persecuzioni perpetrate dalla precedente regina.
La politica elisabettiana e i conflitti interni ed esterni
Appena salita al trono, la nuova sovrana seppe prendere immediatamente il controllo della situazione, dimostrando che lei sola era autorizzata ad esercitare il potere, pur avvalendosi dell’aiuto dei suoi fedeli consiglieri. Nonostante la giovane età, l’inesperienza e la scarsa familiarità con gli affari di Stato, Elisabetta «aveva una naturale dimestichezza con l’arte del governo, senza ombra di dubbio, e compensava ampiamente con la forza della personalità ciò che le mancava in quanto a esperienza ai vertici di uno stato. Era estroversa, sicura di sé, magistrale»6.
Una volta diventata regina, Elisabetta dovette occuparsi di vari problemi, sia interni che esterni al regno: il suo primo intervento riguardò l’economia, che venne incentivata attraverso una poderosa opera di riassestamento finanziario e un incoraggiamento dello sviluppo economico, favorito sia dalla produzione tessile che dalle esportazioni.
La sua successiva preoccupazione, ben più grave, fu quella di occuparsi della problematica inerente alla religione per consolidare la sua sovranità anche sulla Chiesa inglese, rifiutando accordi con Roma. Infatti, se suo padre Enrico VIII aveva avuto nei riguardi della religione un interesse quasi totalmente dettato dalla politica, Elisabetta, invece, «era abbastanza sincera nella sua avversione alla giurisdizione romana e al calvinismo: una figlia di Anna Bolena poteva avere poco affetto per un sistema che l’aveva resa una bastarda»7.
Così, consigliata da William Cecil, suo fedele primo consigliere, la regina emanò l’Atto di Supremazia e l’Atto di Uniformità, che rese obbligatorio l’uso del “Libro delle preghiere comuni” (Book of the Common Prayer) per tutti i servizi religiosi. Erano questi degli atti tesi a mediare tra la tradizione cattolica, ancora radicata in varie parti dell’Inghilterra, e le innovazioni protestanti, che stavano sempre più prendendo piede sul suolo inglese, in modo da garantire un’uniformità religiosa e una decisa tolleranza in materia di fede. D’altronde, la nuova regina «valutava l’uniformità della religione nello stato non come una salvaguardia contro l’eresia, ma come una garanzia della unità dello stato»8.
Inoltre, dopo l’abolizione definitiva del controllo papale sulla Chiesa anglicana, controllo ripristinato dalla precedente sovrana Maria, la regina assunse il titolo di “Supremo Governatore” della Chiesa d’Inghilterra, sostituendolo al titolo di “Capo Supremo”: questa scelta fu dettata probabilmente dal fatto che diversi membri della Chiesa e della comunità non ritenevano possibile che una donna potesse effettivamente essere il capo di un’istituzione importante come la Chiesa.
Un’altra mossa decisiva per salvaguardare il suo regno e la sua politica fu quella di ridurre l’influenza spagnola sull’Inghilterra, rifiutando anche la proposta di matrimonio del cognato Filippo: Elisabetta era determinata a rendere il suo regno forte ed indipendente, eliminando ogni tentativo di ingerenze straniere e di minacce alla sua sicurezza. Per fare ciò non era disposta a sposarsi né a dividere il potere con qualsiasi pretendente, che certamente l’avrebbe messa in secondo piano in quanto donna: anche dopo che la regina fu colpita dal vaiolo e si temette per la sua vita, ella rifiutò sempre di prendere in considerazione l’idea di sposarsi e di avere un erede, rimandando all’infinito qualsiasi pratica matrimoniale. E, se le richieste di contrarre matrimonio per assicurare una stabilità politica al suo paese, insieme a una corretta discendenza, diventavano troppo pressanti, Elisabetta soleva rispondere che «aveva già un marito, l’Inghilterra, così come aveva già dei figli, gli inglesi, e questo le bastava»9.
Così, la sovrana regnava da sola, affrontando qualsiasi avversità, come i vari conflitti, di volta in volta sanati, con la Francia, la Scozia, la Spagna e l’Irlanda, che minacciavano continuamente il suo regno e la sua presa sul trono.
Nel 1569, per giunta, dovette anche fronteggiare una ribellione interna al suo paese, la “Ribellione dei papisti” o “Ribellione settentrionale”, fomentata dal duca di Norfolk, dal conte di Westmorland e dal conte di Northumberland, che intendevano deporre la regina in favore di un’altra sovrana, Maria Stuart, di stampo cattolico. Anche il papa, Pio V, aiutò la ribellione, scomunicando la regina e dichiarando la sua deposizione attraverso la bolla papale “Regnans in Excelsis”, ma Elisabetta riuscì a mantenere il potere, accantonando però la sua politica di tolleranza religiosa e perseguitando i suoi nemici religiosi, che ormai progettavano continuamente congiure per liberarsi della sovrana protestante.
Elisabetta I versus Maria Stuart
Cugina di Elisabetta, Maria Stuart si rivelò ben presto una pericolosa rivale: regina di Scozia e moglie del re di Francia Francesco II, fin dal 1559 si era proclamata regina d’Inghilterra, basandosi sull’illegittimità di Elisabetta dal punto di vista della Chiesa cattolica, che non aveva mai annullato il primo matrimonio di Enrico VIII, a differenza della Chiesa anglicana.
Grazie al supporto dei francesi, Maria Stuart tentò più volte di estendere l’influenza franco-scozzese sul territorio inglese, venendo sempre frenata dai baluardi difensivi e diplomatici di Elisabetta.
Alla morte del marito Francesco II, Maria dovette tornare in Scozia, mentre la Francia fronteggiava le “Guerre di religione”, guerre in cui Elisabetta appoggiò la parte ugonotta, intenzionata a trovare sostegno nei protestanti francesi e a mantenere lontano qualsiasi attacco francese al suo regno.
In Scozia, invece, Maria Stuart incontrava serie difficoltà nel governare il suo paese ed Elisabetta decise di proporre alla cugina un possibile accordo di pace: se Maria avesse acconsentito a sposare Robert Dudley, conte di Leicester e favorito della stessa sovrana inglese, allora Elisabetta avrebbe considerato la possibilità di nominare la cugina come sua erede.
Per Elisabetta questo era un modo per controllare la cugina, mantenendo la Scozia vicino all’Inghilterra e spegnendo qualsiasi tentativo di deporre lei dal trono inglese. Inoltre, così facendo, avrebbe evitato due problemi: il matrimonio tra Maria e uno dei principi cattolici più importanti, come Don Carlos, figlio di Filippo II, che di certo avrebbe mosso guerra al suo regno per restituirlo a una sovrana cattolica come Maria Stuart; e il matrimonio tra Maria e un principe straniero, che avrebbe comportato, in futuro, il lascito della corona Tudor a degli eredi che nelle vene non avevano nemmeno una goccia di sangue inglese, essendo Maria totalmente scozzese. Serviva quindi un giusto nobile inglese, che fosse totalmente fedele alla causa inglese e di cui Elisabetta si fidava ciecamente, e costui era proprio Robert Dudley. Maria, però, rifiutò tale proposta e sposò il cattolico Enrico Stuart, conte di Darnley, un suo cugino e anche lui un possibile pretendente al trono inglese, in quanto nipote di Margherita Tudor, sorella di Enrico VIII.
Il matrimonio, che generò l’erede al trono Giacomo, non fu felice e non durò a lungo: il conte dal pessimo carattere finì ucciso durante un incendio della sua residenza, forse strangolato, e Maria si risposò con il presunto assassino del suo ex marito, Giacomo Hepburn, conte di Bothwell, provocando la sollevazione dei nobili scozzesi di fazione protestante, che esiliarono il nuovo marito e costrinsero Maria ad abdicare in favore del figlio Giacomo, ancora piccolo.
Dopo essere stata per breve tempo imprigionata, Maria Stuart riuscì a fuggire e si rifugiò in Inghilterra, dove venne catturata dalle forze inglesi; così, Elisabetta si ritrovò dinanzi a un ventaglio di difficili scelte: riconsegnare la cugina agli scozzesi avrebbe significato la rovina e, forse, anche la morte di Maria; mandarla in Francia avrebbe potuto rovinare la stessa Elisabetta, nel caso in cui Maria avesse progettato di far guerra all’Inghilterra; reimporla con la forza sul trono di Scozia avrebbe sicuramente fomentato conflitti tra la Scozia e l’Inghilterra; mantenerla prigioniera sul suolo inglese, infine, avrebbe dato alla cugina il vantaggio di poter cospirare internamente contro di lei.
Alla fine, Elisabetta scelse di trattenere Maria come prigioniera inglese e la confinò per ben 19 anni nel castello di Sheffield, da dove però la cugina cercò comunque di complottare contro la sovrana inglese. Alla fine, Maria Stuart partecipò ad un ennesimo complotto ai danni della regina ed Elisabetta fu costretta a prendere una drastica decisione: «suo malgrado e ripudiando in cuor suo tale atto fino alla fine dei suoi giorni»10, la sovrana inglese condannò a morte la cugina, comprendendo che essere sovrana di un regno tanto importante come l’Inghilterra significava anche porre la ragion di Stato sopra ogni altra cosa. Così, nel febbraio del 1587, Maria Stuart venne giustiziata, lasciando al cattolico Filippo II l’onere e l’onore di rivendicare per lei il trono inglese.
Il conflitto con la Spagna, gli ultimi anni e la morte
Già a partire dal 1571, quando Filippo II aveva preso parte al “complotto Ridolfi”, una cospirazione cattolica ideata da un banchiere fiorentino, poi sventata da Elisabetta, la Spagna aveva perso i suoi rapporti amichevoli con la sovrana inglese.
Con l’annessione del Portogallo da parte della Spagna, che otteneva così il controllo dei mari, e l’appoggio dell’Inghilterra alle Province Unite d’Olanda, ribellatesi alla dominazione spagnola, le due potenze inasprirono ancor di più i loro rapporti, fino a farli sfociare nella guerra anglo-spagnola. Nell’aprile 1587, il comandante Francis Drake bruciò la flotta spagnola nel porto di Cadice, per ritardare l’attacco del re spagnolo, ma solo un anno dopo la grande flotta denominata Invincibile Armata salpò in direzione dell’Inghilterra, per poterla invadere e conquistare. Incitata anche da un discorso della stessa regina Elisabetta, la flotta inglese, inaspettatamente, riuscì a sconfiggere il colosso spagnolo dei mari e ad evitare che il conflitto si spostasse sul suolo inglese.
Nonostante poi i continui attacchi dei corsari inglesi alla flotta spagnola, che ritornava con i suoi carichi di argento dalle Americhe, fu solo con la morte di Filippo II nel 1599 che Inghilterra e Spagna assestarono i loro conflitti e, pochi anni dopo, siglarono un trattato di pace, noto come Trattato di Londra.
Contemporaneamente ai problemi con la Spagna, Elisabetta dovette affrontare anche altri problemi: nel 1594, Robert Devereux, secondo conte di Essex, informò infatti la regina di una cospirazione contro di lei guidata dal medico di corte, Rodrigo Lopez, accusato di favorire il governo spagnolo. Lopez si dichiarò innocente, ma il conte di Essex presentò delle prove scritte in cui si rendeva noto che un precedente malore della regina non era altro che un tentativo di avvelenamento perpetrato dal suo stesso medico. Così, Lopez venne arrestato e condannato a morte per alto tradimento, anche se poco tempo dopo si scoprì che in realtà il medico era innocente ed era stato semplicemente accusato ingiustamente.
Nel 1598, invece, la regina subì un duro colpo quando morì Cecil, il suo fidato consigliere: il suo ruolo politico fu assunto dal figlio, Robert Cecil, che non dimostrò la stessa propensione politica del padre nonostante la regina ricercasse sempre il suo parere su qualsiasi problematica o questione politica.
Infine, proprio durante la guerra in corso con la Spagna, Elisabetta dovette fronteggiare una ribellione in Irlanda, passata alla storia come la “Guerra dei nove anni”: Hugh O’Neill, secondo conte di Tyrone, si era proclamato re e di conseguenza era stato dichiarato traditore; per evitare un ulteriore conflitto, Elisabetta concesse una tregua a O’Neill, col risultato che quest’ultimo chiese manforte agli spagnoli. La Spagna cercò di inviare due spedizioni in soccorso del rivoltoso, ma entrambe furono prontamente fermate: malgrado ciò, il conte di Tyrone riuscì comunque ad infliggere agli inglesi una pesante sconfitta nella battaglia di Yellow Ford.
Allora, Elisabetta decise di nominare il secondo conte di Essex, Devereux, Lord Luogotenente d’Irlanda, affidandogli il compito di domare la ribellione di O’Neill; Devereux, però, fallì e al suo rientro in Inghilterra fu punito con la confisca di tutti i suoi incarichi, prima di venire giustiziato per complotti a danno della sovrana. Al suo posto, venne inviato Charles Blount, barone Montjoy, che riuscì a sconfiggere gli irlandesi, ancora una volta aiutati dagli spagnoli, nella battaglia di Kinsale, obbligando O’Neill ad arrendersi appena pochi giorni dopo la morte della regina.
Quest’ultima intanto, a partire dal novembre 1602, era caduta in un profondo stato depressivo: non sopportava più il peso politico che gravava sulle sue spalle, sentiva l’avvicinarsi della morte e trovava inutile combattere contro la costante fiacchezza che l’affliggeva. Così, stanca ed emaciata, Elisabetta spirò il 24 marzo 1603 nel palazzo di Richmond, dopo quarantaquattro anni di regno e ormai alle soglie dei settant’anni, «dopo aver impartito l’ultimo, solenne e imperioso ordine: “Mandatemi un prete: ho intenzione di morire”»11.
Elisabetta fu seppellita nell'abbazia di Westminster, di fianco alla sorella Maria Tudor, e la sua morte comportò l’estinzione della dinastia Tudor: a salire al trono, infatti, fu Giacomo I Stuart, figlio di Maria Stuarda, la sua acerrima nemica che alla fine era riuscita a vincere e a far sedere sul trono d’Inghilterra la sua progenie.
Il mito della “Regina Vergine”
Fin dalla più tenera età, Elisabetta era cresciuta con un’immagine del matrimonio alquanto nefasta: la prima moglie di suo padre, Caterina d’Aragona, era stata ripudiata per un capriccio; sua madre Anna Bolena, la seconda moglie di Enrico VIII, era stata accusata ingiustamente e condannata a morte; dopo una parentesi di normalità con la terza moglie del padre, Jane Seymour, poi morta di parto, era toccato alla quarta consorte del re, Anna di Clèves, essere ripudiata per un nuovo sfizio del padre; infine, la quinta moglie del sovrano, Catherine Howard, era stata accusata e condannata a morte seguendo la fine della cugina Anna Bolena. Solo l’ultima moglie del re, Catherine Parr, gli era sopravvissuta, anche se poi era morta di parto per generare un erede a Thomas Seymour, suo successivo marito.
Fin da subito, quindi, la futura regina inglese aveva associato il matrimonio alla morte, capendo che per un qualsiasi capriccio un uomo poteva surclassare, comandare, accusare e infine far uccidere la moglie senza alcun problema o che poteva mettere a rischio la sua vita solo per la pressante necessità di ottenere un erede.
Forse era da questa visione, impressa nella sua mente fin da bambina, che derivava l’avversione di Elisabetta per il matrimonio e la sua decisione di consacrare se stessa al suo paese, l’Inghilterra, senza alcun bisogno di prendere marito e lasciarsi così intimidire e spodestare. Tale decisione fu più volte messa in discussione dai suoi consiglieri e dai nobili di corte, i quali ritenevano che «avere una donna alla testa del governo offendeva l’ancestrale decoro della sovranità regia; era un’anomalia tollerabile solo se temporanea»12, ma Elisabetta non si piegò mai.
Eppure, malgrado l’avversione nel convolare a nozze, molti furono i pretendenti che nei vari anni del suo regno le si proposero come possibili consorti: dopo il cognato Filippo II, prontamente rifiutato da Elisabetta, e oltre Robert Dudley, il suo favorito che fu più volte sul punto di diventare suo marito legittimo, furono vagliate altre importanti personalità, come il conte di Arundel, un uomo di mezza età molto poco attraente, o come Sir William Pickering, grande viaggiatore e conoscitore di molte lingue. Tra i pretendenti stranieri, invece, spiccarono il duca francese di Nemours e il duca Guglielmo di Savoia, entrambi giudicati poco degni per la regina, il principe Erik di Svezia, ritenuto troppo stravagante, e l’arciduca Carlo, figlio dell’imperatore Ferdinando, considerato troppo vicino al cattolicesimo.
Veri accordi matrimoniali, però, furono ritenuti solo quelli intrapresi prima con Enrico III, duca di Anjou, e successivamente quelli con il fratello minore, Francesco, duca di Alençon, che si risolsero entrambi in un nulla di fatto: la regina, ormai, era troppo abituata al suo governo solitario ed autoritario e, inoltre, essendo avanti con l’età ben sapeva che non avrebbe nemmeno potuto generare un erede, col rischio quindi di lasciare il trono inglese ad uno straniero.
Dopo anni passati da sola a reggere le sorti del suo regno tra complotti, ribellioni e guerre, Elisabetta capì che poteva continuare a regnare anche senza piegarsi al giogo di un matrimonio mai realmente desiderato: era nata per regnare e, dopo infinite tribolazioni, era riuscita ad imporsi come sovrana di quella grande nazione inglese, senza avere alcun bisogno di un uomo al suo fianco. Il suo essere nubile e, quindi, vergine l’aveva assunta al rango di una divinità: Elisabetta veniva considerata dal popolo come «una “casta Pallade”, una “Vergine Incontaminata”, una “Regina inviolabile”»13, che non avrebbe dovuto macchiarsi con un matrimonio di mero interesse politico, il quale avrebbe potuto offuscare la sua gloria. Così, Elisabetta decise che «la verginità come oggetto di venerazione da parte dei sudditi sarebbe diventata l’elemento propagandistico dominante”»14, e che ella stessa avrebbe incarnato le più alte virtù attribuite agli dei dell’Olimpo: «la saggezza di Pallade, la bellezza di Venere, l’eloquenza di Mercurio»15. A ciò, si aggiungeva la comparazione che veniva fatta tra la sovrana e Astrea, la vergine mitologica simbolo di giustizia, poiché Elisabetta stessa era vista come «imperatrice del mondo, guardiana della religione, patrona della pace, restauratrice della virtù»16.
Naturalmente, a corte si mormorava che «dato che aveva scelto di non sposarsi doveva essere sterile»17 o comunque doveva avere delle determinate imperfezioni fisiche di cui sarebbe stato meglio tenere all’oscuro un possibile consorte: perché, quindi, prendere marito se non vi era la possibilità di generare un erede?
Eppure, fin da bambina Elisabetta veniva elogiata per la sua bellezza inconsueta, che univa pelle chiarissima a capelli biondo rame: dopo il vaiolo, però, i suoi capelli si diradarono vistosamente, tanto che dovette ricorrere all’uso di elaborate parrucche, mentre la sua pelle divenne imperfetta e assunse un colorito giallastro, che portò la sovrana a fare abbondante uso di “ceruso veneziano”, un cosmetico a base di piombo usato per schiarire l’incarnato e che, probabilmente, contribuì a portarla alla morte per avvelenamento indiretto.
Per mascherare le condizioni del suo viso, la regina utilizzava anche altri escamotages, oltre ai cosmetici: soleva infatti abbigliarsi in maniera stramba e pomposa, preferendo colori forti e vivaci come il nero, il rosso e il viola che la facessero spiccare ovunque; inoltre, non era mai sazia di gioielli, che indossava a profusione su collo, orecchie, mani, capelli e vestiti, fino a scintillare come un diamante e a distogliere così l’attenzione da ogni possibile imperfezione che l’avesse afflitta.
A fare da controparte all’immagine radiosa che Elisabetta dava di sé, vi era però il suo impossibile carattere: la regina era abituata a strillare, a bestemmiare come un uomo e ad impartire ordini violentemente senza curarsi di chi aveva di fronte, fossero domestici o anche ambasciatori in visita.
«Truce, violenta, sgradevole, arrogante, sempre maestosa»18 la regina amava circondarsi di adulatori, che potessero elogiare la sua bellezza e soprattutto il suono della sua voce, da lei giudicato delizioso.
Eppure, nonostante le sue stravaganze, il suo carattere particolare e la sua vanità, Elisabetta I Tudor, ribattezzata dalla storia come la “regina vergine”, diventata sovrana contro ogni previsione e capace di dominare da sola un paese come l’Inghilterra, senza né un marito né un erede, sarebbe stata ricordata per sempre come l’ultima e più grande regina Tudor del regno inglese.
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Nota bene
Questa voce fa parte della sezione "Dominae fortunae suae". La forza trasformatrice dell’ingegno femminile, che approfondisce il contributo offerto dalle donne alla nascita e allo sviluppo dei diversi campi del sapere.
Article written by Martina Tufano | Ereticopedia.org © 2020
et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]