Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444
Eleonora Fonseca Pimentel (Roma, 13 gennaio 1752 - Napoli, 20 agosto 1799) è stata una scrittrice e giornalista.
Eleonora Fonseca Pimentel nacque il 13 gennaio 1752 a Roma, in via di Ripetta al numero 22, una via secondaria sulla sinistra di Piazza del Popolo, da Don Clemente Fonseca Pimentel e Donna Caterina Lopez de Leon, originaria di Lisbona, ma trasferitasi da tempo a Roma; la famiglia paterna, invece, era di antica origine spagnola, ma dal XVII secolo si era trasferita in Portogallo e poteva annoverare tra i suoi antenati il Conte di Benavente, Vicerè di Napoli durante il regno di Filippo III. Nel 1760, dopo una violenta controversia tra la corte portoghese e il Papato relativa all’espulsione dei gesuiti dal Portogallo, l’ambasciatore portoghese a Roma, Francisco Dalmata de Mendoza, in luglio emanò tre editti che imponevano ai suoi compatrioti di lasciare lo Stato pontificio entro settembre: fu a seguito di tali editti che le famiglie dei de Fonseca Pimentel e dei Lopez de Leon lasciarono Roma e si stabilirono a Napoli, dietro anche suggerimento di Antonio Lopez, amico intimo del console portoghese a Napoli, de Sà Pereira. Per i primi anni le famiglie abitarono in via Santa Teresella, nel quartiere Spagnolo, e nel 1768 si stabilirono alla Platea della Salata, oggi via san Pantaleone. La Pimentel si inserì pienamente nel clima culturale napoletano: la sua prima istruzione fu affidata a suo zio, l’abate Antonio Lopez, che coltivò ed incoraggiò la vivace intelligenza della nipote e, una volta a Napoli, la introdusse nel salotto di Francesco Vargas Macciucca, marchese di Varolla e consigliere della Real Camera di Santa Chiara, tappa obbligata per gli stranieri e per gli intellettuali emergenti e frequentato da personalità come Serrao, Galanti, Cirillo, Filangieri. Qui la Pimentel conobbe Gianvincenzo Meola, che l’aiutò nel perfezionare le sue conoscenze di greco, latino e storia antica e, oltre alle lingue classiche, arrivò a parlare e scrivere fluentemente in italiano, portoghese, francese ed inglese. Durante gli incontri che si tenevano alla Platea della Salata, incontrò Francesco Maria Guidi, professore di matematica e filosofia, che accettò di istruirla nelle scienze matematiche e, inoltre, studiò mineralogia con Delfico, chimica con Falaguerra e botanica, aiutando Spallanzani nelle sue ricerche sui vasi linfatici. Aggregata all’Accademia dei Filaleti con lo pseudonimo di Epolnifenora Olcesamante, anagramma del suo nome, ottenne la notorietà a soli sedici anni, grazie alla pubblicazione de Il tempio della Gloria, un epitalamio in onore delle nozze di Ferdinando IV e Maria Carolina e poco tempo dopo, forse anche in virtù di questi versi, ella fu ammessa all’Arcadia con il nome di Altidora Esperetusa, pseudonimo usato in alcune sue composizioni. La giovane, poi, nel 1770, forse incoraggiata dai riconoscimenti ricevuti nei salotti napoletani, inviò a Pietro Metastasio, risiedente nella corte di Vienna, alcuni suoi componimenti, tra i quali anche Il tempio della Gloria, dando così l’avvio ad un rapporto epistolare che si protrasse fino al 1776. Nel 1775 la Pimentel pubblicò la cantata La nascita di Orfeo, in onore della nascita del primo figlio maschio della coppia reale, l’erede al trono Carlo di Borbone. Il 6 giugno 1775 il Primo ministro portoghese Pombal, che per primo in Europa aveva decretato l’espulsione dei gesuiti dal proprio Paese, subì un attentato: la Pimentel gli dedicò un dramma, Il trionfo della Virtù, pubblicato, tuttavia, solo due anni più tardi, nel 1777. La vita privata della Pimentel, nel frattempo, era stata segnata da un grave lutto; nel 1771 era morta sua madre, che l’aveva nominata in testamento sua erede universale, sottoponendo, tuttavia, tale eredità a vincolo dotale. In principio il progetto era stato quello di un matrimonio con il cugino Michele Lopez: il fidanzamento durò tre anni, dal 1773 al 1776, ma il progetto fu lasciato naufragare a causa, sembra, dello scarso interesse di Michele. La Pimentel aveva ormai ventiquattro anni e si cercò, quindi, in tutta fretta un altro partito: la scelta di don Clemente ricadde su un tenente del Reggimento del Sannio, Pasquale Tria de Solis e il matrimonio fu celebrato il 4 febbraio del 1778 a S. Anna di Palazzo. La scelta di don Clemente non poteva essere più sbagliata, in quanto le famiglie dei de Fonseca e dei Tria de Solis erano profondamente diverse: la prima pienamente inserita nel fermento culturale napoletano, anticuriale e sobria nello stile di vita, la seconda, priva di qualsiasi velleità culturale, estremamente cattolica, ma di una religiosità bigotta, amava vivere molto al di sopra delle sue reali capacità. Si aprì per la Pimentel il periodo più buio della sua esistenza: dopo il matrimonio ella scoprì che avrebbe dovuto convivere con le sue quattro cognate rimaste nubili, in una convivenza che da subito si rivelò impossibile, in quanto le fu impedito di proseguire i suoi studi e di mantenere i suoi contatti epistolari; inoltre, a meno di un anno dal matrimonio nacque Francesco, primo ed unico figlio della Pimentel, che purtroppo visse solo otto mesi e i Solis ne incolparono la madre, accusata di averne causato la morte, cercando di mettere in pratica nuove tecniche di allevamento suggeritele dai libri. A seguito di questo lutto, l’atmosfera domestica peggiorò e alle violenze verbali non di rado seguivano anche percosse; Pasquale Tria, nel frattempo, aveva iniziato una relazione con una tale Angela Veronica, che esercitava il mestiere di “cuffiara” e con la figlia di lei che spesso egli portava a casa ed ospitava per intere giornate. Il padre della Pimentel, finalmente tornato a Napoli, apprese le condizioni in cui versava la figlia, ne chiese e ottenne il riaffido, aprendo la causa di separazione: il processo, apertosi nel 1784, durò quasi un anno e, nel frattempo, la Pimentel chiese di poter usufruire del sussidio mensile della Corte, sicché, accolta la supplica, le fu accordato, in virtù dei suoi alti meriti letterari, un sussidio di dodici ducati mensili, in ringraziamento del quale si suppone che ella abbia composto la cantata Il Vero omaggio. Finalmente libera dal marito, riprese i suoi studi e i contatti con gli amici di un tempo, tra i quali Alberto Fortis e Melchiorre Delfico, che la spinsero ad intraprendere studi di economia e di diritto pubblico, sfociati nel suo progetto di Banca Nazionale, purtroppo non pervenuto. Nel contempo, negli ambienti illuministi grande risonanza aveva avuto l’istituzione, nel 1778, della Real Colonia di San Leucio: la Pimentel si unì al coro di coloro che encomiarono tale iniziativa componendo due sonetti, Cinto Alessandro la superba fronte e Come artefice industre allor che prende, pubblicati all’interno di una raccolta miscellanea di vari autori, stampata dalla Stamperia Reale, per l’inaugurazione di San Leucio. Si era, intanto, consumata la rottura tra la corte di Napoli e la Santa Sede a seguito del rifiuto di Ferdinando IV di versare il tradizionale tributo della “chinea”, ossia il tributo di vassallaggio, ammontante a 7.000 ducati, dovuto al Papa dal re di Napoli. In quell’occasione gli intellettuali si erano stretti intorno al sovrano (che aveva compiuto un vero atto di indipendenza dall’influenza papale rifiutandosi di versare il tributo), manifestando la loro solidarietà con una serie di memorie e lettere contro le pretese di Roma. Anche la Pimentel si era unita al dibattito intorno alla questione della “chinea” traducendo dal latino all’italiano la dissertazione Nullum ius pontificis maximi in regno neapolitano dissertatio historico-giuridica, di Niccolò Caravita, che, già nel 1707, aveva negato ogni fondatezza giuridica dell’omaggio al Pontefice. Il contributo della Pimentel non si limitava alla pura traduzione del testo, preceduta da una disamina sui precedenti storico-giuridici della questione ed arricchita da varie note a piè di pagina. Il lavoro era, tuttavia, solo parziale, in quanto, preoccupandosi di mandare al più presto in stampa quanto già pronto, l’autrice si riservava di pubblicare successivamente la terza parte, ossia una riflessione sulla questione sotto l’aspetto del diritto pubblico, ma che non vide mai la luce, anche perché la questione della chinea non proseguì oltre. Nel 1792 fu di nuovo alle prese con un lavoro di traduzione, questa volta dal portoghese, grazie alla mediazione dell’incaricato consolare de Souza. Ella tradusse, ad un anno dalla pubblicazione dell’originale, il saggio Analyse da profissão de fè do Santo Padre Pio IV di Antonio Pereira de Figueiredo, in cui egli aveva riflettuto sulla natura delle verità di fede e sulla libertà intellettuale dei cristiani rispetto ad esse. L’opera tradotta in italiano dalla Pimentel e preceduta da una Prefazione e fondamento dell’opera, sempre di sua mano, non presentava, tuttavia, il suo nome in frontespizio, ma solo quello dell’abate Gennaro Cestari, che aveva contribuito con l’introduzione A’ benigni lettori e con una serie di note esplicative in appendice al testo, dalle quali bisogna, però, escludere quelle segnalate con l’asterisco, opera della traduttrice. Fino alla scoperta della congiura giacobina del 1794, la Pimentel, che godeva ancora (e ne avrebbe goduto fino al 1797) del sussidio reale, non avrebbe partecipato a situazioni politiche di particolare rilevanza: il suo arresto, preannunciato dalla sospensione del sussidio nel dicembre 1797, avvenne nell’ottobre del 1798 a seguito di una perquisizione del suo appartamento. Essendo la Pimentel di origini portoghesi, Giuseppe De Souza ritenne opportuno informarne il console portoghese a Napoli de Sà Pereira, in quei giorni in licenza a Lisbona; nella sua lettera egli dipinse la Pimentel come donna «pazza, imprudente, e sciocca», ma al contempo incapace di cospirare. Proprio l’inavvedutezza della Pimentel fece scoppiare un incidente diplomatico tra corte portoghese e napoletana: dalla Vicaria, infatti, ella aveva scritto in portoghese al de Souza una lettera, che, intercettata e sequestrata, creò un incidente diplomatico, in quanto il governo napoletano chiese immediati chiarimenti al governo portoghese, che, a sua volta, intimò al de Souza di mettersi immediatamente a disposizione del governo napoletano e il de Souza riuscì a provare la sua innocenza. La Pimentel rimase in carcere fino al gennaio del 1799 quando, a seguito della fuga del vicario Pignatelli da Napoli, i lazzari assaltarono le carceri cittadine e ne rimisero in libertà i detenuti. Tornata in libertà, ella fu tra coloro che parteciparono, tra il 19 e il 20 gennaio, alla presa di Sant’Elmo, e alla proclamazione della «Repubblica Napoletana una e indivisibile» la mattina del 21 gennaio 1799: in quest’occasione declamò un Inno alla Libertà, composto in quei giorni a sant’Elmo ed andato perduto, ed un sonetto composto durante la prigionia alla Vicaria. Il 29 gennaio Carlo Lauberg, Presidente del Governo Provvisorio della Repubblica Napoletana, diede annuncio della prossima nascita del «Monitore Napoletano», foglio che avrebbe dato «notizie di tutte le operazioni del Governo»: la Pimentel ne fu la direttrice e la sola redattrice ed esso costituì la sua principale attività durante la breve esperienza della Repubblica Napoletana. È probabile che l’idea di fondare un giornale che avesse lo scopo di divulgare le notizie sull’attività di governo fosse nata in seno al comitato rivoluzionario, forse da Lauberg stesso, che aveva già pregresse esperienze nel campo giornalistico; tuttavia la direzione fu sin da subito affidata alla Pimentel, che poteva garantire il giusto grado di equilibrio e di neutralità rispetto all’organo esecutivo e che esercitò appieno la neonata libertà di stampa, ponendosi sempre in posizione critica rispetto all’azione di governo, del quale pubblicava puntualmente gli atti, riservandosi, tuttavia, il diritto di esprimere il suo particolare giudizio circa la loro utilità od efficacia. La riconquista sanfedista, partita da Pezzo il 7 febbraio e guidata dal cardinal Ruffo sotto l’emblema della croce e la protezione di Sant’Antonio, l’8 giugno, data di pubblicazione dell’ultimo numero del «Monitore», era giunta, intanto, alle porte di Napoli. Il 13 giugno, giorno della festività di Sant’Antonio, Ruffo entrò in Napoli e firmò le capitolazioni con i patrioti; tuttavia, esse, come noto, non furono rispettate dal sovrano, che istituì una Giunta di Stato. Ad accusare incontrovertibilmente la Pimentel era il suo stesso «Monitore», di cui la sovrana a Palermo era stata attenta lettrice e unico suo punto di difesa poteva essere, in un processo equo, la firma dell’obbliganza, con la quale, di fatto, la Pimentel aveva già ammesso la propria colpevolezza in cambio dell’esilio a vita: la Giunta, tuttavia, ritenne nulla la stipula del contratto d’obbliganza e il 17 agosto fu emessa la sentenza di condanna a morte. La Pimentel rifiutò ogni conforto, chiedendo solo un caffè. Il 20 agosto, alle sei e mezzo del pomeriggio, lei e altri sette condannati furono bendati e condotti a piazza del Mercato per l’esecuzione: Eleonora Fonseca Pimentel fu l’ultima a salire sul patibolo.
Bibliografia
- Mario Battaglini, Eleonora Fonseca Pimentel: il fascino di una donna tra letteratura e rivoluzione, Procaccini, Napoli 1997.
- Cinzia Cassani, Fonseca Pimentel, Eleonora de, in DBI, vol. 48 (1997).
- Francesco D’Episcopo, Eleonora de Fonseca Pimentel: tra mito e storia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2008.
- Maria Rosaria Pellizzari, Eleonora de Fonseca Pimentel: morire per la rivoluzione, in «Storia delle donne», 4, 2008.
- Anna Maria Rao, Eleonora de Fonseca Pimentel, le Monitore Napoletano et le problème de la participation politique, in «Annales historiques de la Révolution française», 344, 2006.
- Franco Schiattarella, La marchesa giacobina: Eleonora Fonseca Pimentel, Schettini, Napoli 1973.
- Elena Urgnani, La vicenda letteraria e politica di Eleonora Fonseca Pimentel, La Città del Sole, Napoli 1998.
Article written by Antonio D'Andria | Ereticopedia.org © 2018
et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]