Angelus Novus
L’avvento delle digital humanities per le humanae litterae: introduzione al fascicolo
Quaderni eretici | Cahiers hérétiques, 5/3, 2017: http://www.ereticopedia.org/rivista#toc20
Parlare di specializzazioni è sempre rischioso, e il malcapitato autore di qualunque discussione sull’argomento rischia di dividere l’opinione di chi ascolta o legge senza che nessuna delle parti create arrivi mai a dargli minimamente ragione.
La verità è nei fatti: senza specializzazioni non ci sarebbe concretezza disciplinare. Il problema, come al solito, viene verso la fine, quando si arrivano a mettere a fuoco problemi o quadri d’insieme che una disciplina non può che risolvere parzialmente.
Ma è davvero nei confini della disciplina l’ostacolo più grande? Ciò che si dimostra funzionante nel piccolo perché mai su larga scala dovrebbe essere considerato bacato? Non è più semplice pensare che, arrivati a un certo punto, serve che più discipline cooperino?
Specializzarsi serve a far funzionare al massimo la propria area del sapere, nonché per saperne padroneggiare gli strumenti al meglio. Il passo successivo è prendere coscienza – proprio grazie agli strumenti in questione – che da soli non si arriva lontano.
Prendiamo il caso degli studi umanistici, e di un concetto basilare come la modernità, a titolo d’esempio. Entro i confini cronologici (convenzionali) che delineano l’età moderna, le esperienze umane furono plurime, ed è normale che altrettante discipline storico-diacroniche (in corrispondenza quasi biettiva) si sforzino di studiarle. Eppure, arriva un momento per chiedersi il senso generale di un periodo, di un’era, ma anche solo di un secolo, ovvero di un limitato lasso di tempo intercorso da un punto A a un punto B.
Bisogna sommare le competenze disciplinari (ognuna, ricordiamolo, forte della propria identità, per essere funzionante), così come al tempo si sommarono le espressioni umane.
Vi sono, di questi tempi, sempre mille occasioni per litigare (uso un’espressione quasi bambinesca non a caso), come se ogni settore soffrisse di una sorta di permalosità ermeneutica, figlia di un’insicurezza che – come una radiazione cosmica di fondo – turba ogni nostro percorso logico. Il digitale è un perfetto terreno d’incontro, e offre sedi e piattaforme di dibattito e collaborazione. Mi riesce ancora difficile pensare che qualcuno semplifichi il tutto puntando il dito contro il solito adolescente stordito dai fumi del suo stesso smartphone. Tutto può essere portato alla patologia, al cortocircuito, a suon di forzature o fraintendimenti. Cosa ci costa evitare?
Le digital humanities costituiscono senza dubbio una tempesta, che – oltre ai rischi legati a forza e irruenza – offre la possibilità di spingere in avanti gli studi umanistici. Come l’angelo della storia di Paul Klee, mirabilmente chiosato da Walter Benjamin, l’umanista – studioso di diacronia – dovrebbe continuare a guardare al passato, alla storia, ma senza dimenticare di aprire le ali e lasciarsi trasportare verso il futuro dai nuovi strumenti che quest’epoca (tra i suoi tanti difetti) sa e può offrirgli.
Passiamo a un altro esempio: una delle accuse più grandi al letterato, ovvero al filologo, che pubblicamente dichiara di fare largo uso di strumentazione informatica nel suo lavoro di ricostruzione e commento del testo, è quella di pigrizia intellettuale. È come se quest’ultimo, infatti, delegasse al suo personal computer la parte principale del suo lavoro, al fine sostanziale di lavorare di meno.
Nessuno – almeno spero! – vuole dare inizio a una gara su chi lavora di più; anche perché non sempre la qualità del risultato e le ore spese a risolvere un dato problema sono direttamente proporzionali.
Mi limito a pensare che chi sposa con consapevolezza la causa delle digital humanities non voglia lavorare di meno, ma meglio. Se poi da questo miglioramento consegue anche un risparmio di tempo, certo questo non è un male: le ore risparmiate possono essere investite nel risolvere altre problematiche.
Perché, dunque, tacciare di pigrizia chi si rivolge alle nuove tecnologie per studiare il testo, se quanto detto si concilia perfettamente con le varie inferenze de rasoio di Occam, uno dei pilastri logici del nostro metodo?
Ho sempre avuto la sensazione che dietro queste facili accuse ci sia una forte illazione: il principio, per così dire, secondo cui chi vuole impiegare meno nel fare qualcosa vuole trascorrere il tempo risparmiato oziando.
Brevis esse laboro, obscurus fio: provo ad offrire qui un ulteriore esempio pratico.
Immaginiamo uno studioso (o studente) con la necessità di consultare testi antichi, tra cui stampati precedenti al 1700 e testi di critica ottocentesca e primo-novecentesca, assieme – ovviamente – ai più recenti studi sull’argomento in esame. È una situazione molto comune. Immaginiamo che i primi siano completamente disponibili su Google Books o Gallica, i secondi su Internet Archive e i terzi attraverso servizi di self archiving istituzionali, ovvero Academia, ResearchGate et similia. È veramente indispensabile che lo studioso in questione passi interminabili giornate in biblioteca, quando gli basterebbe un computer con una connessione internet? Non sarebbe più comodo funzionalizzare lo studio, in modo tale da recarsi in biblioteca principalmente in caso di necessità di consultare materiale non digitalizzato (ossia quanto di più prezioso per gli studi di ognuno di noi)?
«Ma in biblioteca – specie nelle aree a scaffale aperto – c’è molto più di quanto si cerca» direbbe qualcuno. Niente di più vero, anche per questo è fondamentale non abbandonare mai gli spazi fisici. Eppure, quel che da una parte può portare ad approfondire, dall’altra può distrarre.
Io credo sia molto più utile entrare in biblioteca col lavoro già pianificato/direzionato: sarà più agile muoversi nella ricerca di questo o quel volume. Con questo – ripeto – non sto invitando i lettori ad abbandonare le biblioteche: al massimo li invito a visitarle con maggior consapevolezza.
Tutto ciò per molti significa purtroppo pigrizia, per me – e non solo per me, spero – funzionalizzare il lavoro dello studioso. Non voglio qui entrare neppure nel merito dei vantaggi del testo digitalizzato quali l’interrogabilità: mi limito al vantaggio più grande ed evidente, ossia la disponibilità.
Certo, ci sono pericoli in tutto ciò, tra cui la possibilità che la smania di digitalizzare diventi più forte della curiosità di interpretare il materiale digitalizzato. Possiamo, però, per questo colpevolizzare l’informatica e generalizzando le digital humanities? Non sarebbe un po’ come dare agli scienziati che si occuparono di atomi la responsabilità della distruzione di due cittadine giapponesi, qualche decennio fa?
Venenum in cauda: non sarà invece pigro chi non vuole rapportarsi a questi nuovi approcci, ovviamente studiandoli, approfondendoli e “perdendoci” del tempo?
Nota finale: in questo fascicolo si ripubblicano – con minimi aggiustamenti – materiali già comparsi all’interno del carnet de recherche «Filologia Risorse Informatiche» nei bimestri relativi al 2017.
Antonello Fabio Caterino
et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]