Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444
Bertrand du Pouget o du Poujet (Castelnau-Montratierm, 1280 ca. – Villeneuve-lès-Avignon, 1352), italianizzato in Bertrando del Poggetto, è stato un cardinale, legato pontificio e dottore in diritto canonico.
Biografia
Bertrando del Poggetto è noto presso il grande pubblico per essere stato inserito da Umberto Eco nel romanzo Il nome della rosa (1980). Due anni dopo a teatro Dario Fo riprese la figura del personaggio storico, legato all’assedio della Rocca di Galliera da parte dei bolognesi, nel monologo Fabulazzo osceno. La ricezione dell’episodio leggendario nella cultura popolare bolognese ha prodotto una ballata a cura di Fausto Carpani, La rocca merdata, dalle chiare venature giullaresche.
Bertrando negli anni 1327-34, passati a Bologna, fu un dominus illuminato e mecenatesco, attirando i dottori nello Studium in materia de utroque iure – per il diritto canonico importante fu l’attività del giurista Giovanni d’Andrea, che gli dedicò una delle sue Novellae in decretalibus. Inoltre il Poggetto fece arrivare dalla Curia nationes di studenti borsisti per apprendere dai magistri artium universitari e per gli studi di teologia presso il convento generale degli eremiti di S. Agostino. Infine promosse la redazione di un nuovo statuto del comune, che fu pubblicato in latino dopo la sua cacciata nell'anno 1335. La sua biblioteca, ora dispersa, passò in parte nelle mani dei pronipoti, prima di essere restituita al convento delle clarisse di St. Marcel.
Risulta smentita la presunta parentela diretta (figlio o nipote, invece forse solo acquisita) con il pontefice Giovanni XXII (1245-1334), al secolo Jacques Duèze della diocesi di Cahors, città della Guienna in Occitania, famosa per i suoi usurai, del segno suo e Soddoma e Caorsa (Inf. XI 50).
La campagna d’Italia
Bertrando entra in Curia nel dicembre 1316, promosso a cardinale. Nel 1319-20 viene inviato in missione come «angelo della pace» (così nella bolla di nomina), con amplissimi poteri per i territori di Lombardia, della Provincia Romandiolae e di Toscana. Con una truppa mercenaria arrivò in Italia passando dal Piemonte. La situazione italiana, dopo il trasferimento voluto da Clemente V nel 1309 della Sede apostolica ad Avignone, e destinato a durare fino al 1377, vedeva le fazioni delle città guelfe e ghibelline più a difesa dei propri interessi municipali che non dedite alla causa dell’Impero o del Papato.
All’opzione militare, soggetta sempre ad alterne fortune, Bertrando preferì la tattica degli interdetti pontifici e delle accuse subdole di eresia lanciate contro gli avversari. Il metodo della scomunica era già stato da lui utilizzato in Francia per sbarazzarsi di rivali nel campo cattolico come il vescovo di Cahors, accusato inizialmente di baratteria, e in séguito del tentativo di avvelenamento e di malefici contro il papa, e condannato al rogo (Albe).
Le prime mosse di Bertrando furono rivolte alla ghibellina Milano, fatta bersaglio di una campagna di sospetti, quasi da crociata. Al governo vi era la famiglia dei Visconti, dallo stemma con la vipera che ’ Melanesi accampa (Purg.VIII 80). Matteo il vicario imperiale e il figlio Galeazzo furono condannati per “eresia” in seguito ai processi istruiti dall’inquisizione di Lombardia, nella quale si distinse il frate francescano Aicardo Antimiani, nominato a capo del processo inquisitorio contro il Visconti.
Le due vicende appena descritte sono paradigmatiche delle pratiche non sempre chiare seguite in casi simili di delazioni false e inventate (l’accusa diffamatoria o esacerbata di attentare alla vita del papa per mezzo di incantesimi), degli interrogatori condotti senza garanzie per l'imputato (Eubel). Molto di questo armamentario messo in campo da Bertrando sarebbe riemerso contro il gran nemico Dante Alighieri, secondo certe voci tra leggenda e superstizione dedito «negli ultimi anni della sua vita agli esorcismi e ai suffumigi di certe immagini di cera che con la liquefazione avrebbero procurato la morte del papa» (Pagnin). Si coglie qui quella circolarità di influssi tra classi subalterne (documentazione orale e indiretta) e cultura dominante sottolineata da Carlo Ginzburg: «elementi di cultura egemonica riscontrabili nella cultura popolare sono frutto di […] un'inconsapevole deformazione della fonte, ovviamente incline a ricondurre l'ignoto al noto e al familiare».
Signore di Bologna e Rettore di Romagna
Dopo la campagna di Lombardia, Bertrando si stabilì quale vicario pontificio nel capoluogo felsineo dal 1327 senza trovare resistenza, e anzi ottenendo subito la nomina a signore della città. La sua guida si inserì nella tendenza di lunga durata di trasformazione dei regimi comunali in signorie.
Il cardinale strappò le deditiones (scil. capitolazioni) dei castelli e dei comuni dell’Emilia (Piacenza, Parma, Reggio) e delle città romagnole (tra le quali Ravenna che custodiva le spoglie di Dante), che così consegnavano la propria autonomia al nuovo “rettore” (altro titolo conferito a Bertrando) della Romagna, già allora provincia pontificia.
L’azione di governo del Poggetto, «Sapientissimus et magnanimus homo fuit» (Annales Caesenates, 2003, p. 107), consisteva nell’attirare dalla sua parte i maiores di una città, rappresentanti nel Parlamento della regione, e in seguito nel promuovere riforme fiscali a favore del popolo – secondo l’antica strategia del divide et impera.
L’obiettivo nascosto di papa Giovanni XXII e del suo legato in Italia era il modo, di lungo respiro politico e strategico, di far rientrare la Sede apostolica in Italia, proprio a Bologna, sede geograficamente più adatta per il controllo di una nuova Respublica Christiana dell’Alta Italia, secondo un antico disegno di potere temporale dei pontefici più ambiziosi, quali erano stati nell'ultimo quarto del Duecento Innocenzo III, Innocenzo IV e Bonifacio VIII.
Allo scopo fu costruito il palazzo-fortezza della Rocca di Galliera (1330-32, a ridosso della terza cinta muraria; oggi dei ruderi si trovano nei pressi della Stazione centrale, dove sorge ancora l’antica porta urbana che ha lo stesso nome). L’edificio appena eretto fu arricchito da una cappella affrescata da Giotto nel biennio seguente (opere andate perdute); mentre per l'arredo di sculture venne chiamato Giovanni di Balduccio.
A far scattare il piano giunse l’occasione di stringere un’alleanza segreta con il re di Boemia, Giovanni I di Lussemburgo, un terzo sovrano entrato nel gioco delle influenze politiche in Italia. Era infatti intervenuto portando aiuto alla guelfa Brescia, minacciata dalle ingerenze ghibelline delle altre città lombarde. Con l’appoggio del re di Boemia Bertrando e il papa puntavano a rinforzare l’autonomia di manovra, affrancandosi dai tradizionali poli di influenza: Ludovico il Bavaro aspirante imperatore da una parte e dall'altra Roberto I d’Angiò, re di Napoli, nominato nel 1314 vicario pontificio da papa Clemente V in articulo mortis; e vicino alla Repubblica di Firenze, già con Arrigo VII città perno dello schieramento guelfo.
Una volta scoperto il gioco di potere, di cui Bertrando era stato l’abile tessitore, le città ghibelline e guelfe si allearono militarmente e sconfissero l’esercito del Poggetto e del re boemo nei pressi di Ferrara, grazie alle milizie viscontee guidate da Pinalla Aliprandi e ad altre truppe alleate (aprile 1333).
Al termine della stagione favorevole di Bertrando a Bologna, per effetto di diverse ritorsioni contro di lui da parte dei notabili cittadini desiderosi che la «civitas regeretur per bonos homines civitatis ipsius et non per ipsum dominum», il 17 marzo 1334 le parti che più avevano sofferto la sua amministrazione si ribellarono «propter malos et inhonestos modos» tenuti dai suoi uomini, spesso dediti a «verecundias, quae fiebant dominabus, uxoribus et filiabus bonorum virorum civitatis Bononiae, tam volentibus quam vetantibus» (Griffoni). Bertrando dopo essersi barricato nella fortezza di Galliera, che lui aveva fatto erigere per altri scopi, evitando l’esecuzione sommaria fu espulso dalla città. I bolognesi distrussero il castello espugnato perché sentito come simbolo dell’oppressione pontificia del Poggetto.
L’inquisitore di Dante
L’attributo “magister” riservato a Dante per chiara fama – lo chiama così due volte Giovanni del Virgilio, Ecl. I 51 e III 50, maestro di grammatica e retorica nello Studio di Bologna – ci fa intuire l'aura mitica di profeta, di vate, che circondò il sommo poeta ancora in vita (Rossi), sebbene senza il riconoscimento del lauro poetico. Bologna in quanto città guelfa, come Firenze, non risultava luogo salubre per l'ingombrante figura del Dante 'ghibellino', come risulta dal carteggio avuto con Giovanni del Virgilio negli anni 1319-20: «Sed timeam saltus et rura ignara deorum» (Ecl. II 41). Il "menante" Giovanni Boccaccio ha favorito la trasmissione della corrispondenza bucolica delle Egloghe, oggetto di un corso accademico nel 1368 ca. tenuto da Pietro da Moglio, erede della cattedra di Giovanni; il dato autorizza a escludere una censura, forse per l'aulico travestimento bucolico, dei versi latini scambiati tra i due.
Invece la Monarchia indusse al sospetto nel periodo 1328-30, quando la città si era ancora più spostata nell'orbita pontificia, mal tollerando la fama di Dante quale vessillifero «militantis ecclesiae» (Ep. XI 24). Si comprende pertanto come «post mortem suam quasi […] fuit damnatus de haeresi», secondo quanto riferisce il giurista Bartolo da Sassoferrato, studente a Bologna nel 1333-34, già allievo di Cino da Pistoia a Perugia in diritto civile, e avvezzo a utilizzare nei suoi scritti di commento a parti del Corpus iuris civilis «alcune proposizioni [che] colpiscono per il tono e il contenuto d'impronta dantesca» (Cancelli). La familiarità di Bartolo con le rime di Dante è confermata dal «[c]aso eccezionale di commento giuridico a un testo poetico» vale a dire la repetitio (scil. trattazione) sulla nobiltà, De dignitatibus, ritagliata sulla canzone dantesca Le dolci rime d'amor ch'io solea che introduce la quaestio disputata del quarto trattato del Convivio (Borsa).
Bertrando si distinse, così, quale inquisitore facendo bruciare – o almeno «proibito fu che studiare alcun nol dovesse» – le copie manoscritte del trattato della Monarchia, soprattutto del terzo libro, «sì come cose eretiche contenente» (Boccaccio): quali il ribadire la coesistenza «inter duo luminaria magna» del «romanum Ponteficem et romanum Principem» (Mon. III I 5).
Nel trattato dantesco, «sempre citato accanto alla Commedia negli epitaffi composti per la morte del poeta» (Ricci), con argomenti di diritto e teologici il cantor rectitudinis ribadiva la corretta coesistenza dei due poteri: in spiritualibus per la Chiesa, mentre la plenitudo potestatis nell'àmbito temporale spettava all’Impero. Il tralignamento del pastor sanza legge (Inf. XIX 83) era stato denunciato da Dante nell’Epistola XI ai cardinali italici e nei versi di invettiva vergati negli stessi anni della Monarchia: Del sangue nostro Caorsini e Guaschi / s’apparecchian di bere (Par. XXVII 58-59). Con velato riferimento oltre che a Giovanni XXII, a Clemente V originario della Guascogna e responsabile – come detto – della "cattività avignonese".
La vexata quaestio dell'«utroque lumine» (Ep. XI 21) trovò un nuovo episodio di contesa con l’aspirante imperatore Ludovico il Bavaro, già electus in Regem Romanorum a Francoforte dai grandi elettori, il quale nel 1327 attraversò la Toscana diretto a Roma per ottenere la confirmatio pontificia, senza essere ostacolato da Bertrando che non aveva la forza militare per impedirlo, salvo però ritorcergli contro la scomunica con la messa all’indice di quel trattato sul quale l’imperatore in pectore si stava muovendo in punta di diritto. Ludovico a Roma si fece incoronare Rex Romanorum da un papa fantoccio, Niccolò V (al secolo il francescano spirituale Pietro Rainalducci della Corvara), da lui fatto eleggere in modo strumentale, in antitesi al papa avignonese.
Il programma politico di Ludovico, destinato all’insuccesso, obbediva alla prassi di ottenere i vari riconoscimenti (Rex Alamanniae ad Aquisgrana, Rex Italiae a Milano) prima dell’incoronazione ultima a Imperator dalle mani del pontefice, secondo lo schema dei “due soli” delineato da Dante nella Monarchia, l'opera militante concepita per dare una cornice giuridica alla missione imperiale di Arrigo VII nella prima metà degli anni '10 del secolo: «l’Impero romano era stato voluto dalla divina provvidenza», «unicamente da Dio, e quindi non aver la Chiesa alcun potere sull’Impero, per quanto riguarda il temporale» (Ricci).
E, nata poi in molti casi della sua autorità quistione, egli [Ludovico] e' suoi seguaci, trovato questo libro, a difensione di quella e di sé molti degli argomenti in esso posti cominciarono a usare: per la qual cosa il libro, il quale infino allora appena era saputo, divenne molto famoso (Boccaccio, Trattatello in laude di Dante).
L’animoso domenicano e inquisitore Guido Vernani da Rimini in pronta risposta alle mosse del Bavaro redasse un anti-trattato De reprobatione Monarchiae compositae a Dante (1327-34). Il De Monarchia rimase condannato all'indice del libri proibiti fino al 1881, quando con papa Leone XII venne revocata la censura.
Nella stessa direzione di «etterna infamia e confusione della sua memoria» ci porta la testimonianza ancora di Boccaccio, senza riscontri documentari, che riferisce dell'intenzione, avallata dal cardinale, di disperdere le ossa di Dante, percepite come le reliquie di un santo, o di uno che de le magiche frode seppe ’l gioco (Inf. XX 117), verso riservato da Dante all’astrologo Michele Scoto, «gran maestro di nigromanzia» per Boccaccio (Dec. VIII 9) e fornito di capacità divinatorie, giudicate dall'esegeta Iacopo della Lana «inganni che ne fanno li demunii» (1324-28). Il proposito di damnatio memoriae verso i resti di Dante sarebbe stato sventato dal cavaliere fiorentino Pino della Tosa e dal ravennate messer Ostagio da Polenta.
Se ricordiamo la quarta bolgia degli indovini, delle fattucchiere e delle streghe (Inf. XX) abbiamo un assaggio delle figure sospette alla base di molte leggende medievali. Un fenomeno cui andò soggetta anche la figura di Virgilio, fino ad essere considerato un mago. Un’aura di superstizione e di mito dunque, all'occorrenza positiva o negativa, che tuttavia veniva bene per gli inquisitori che avessero voluto imbastire accuse subdole contro personaggi scomodi, e pertanto tacciati di fare “ricorso alla magia”, evidentemente proprio per l'aleatorietà dell’accusa e la difficoltà di dimostrarla in sede di processo, se non per atto di fede o per confessione estorta sotto tortura.
Il ritiro ad Avignone
Fuggito da Bologna Bertrando si ritirò ad Avignone, raggiunta passando per Pisa. Egli fu testimone degli ultimi momenti di vita del pontefice Giovanni XXII, che prima lo liquidò di «tutte le somme ricevute dalla Camera apostolica prima ancora che fossero state ultimate le verifiche sui conti» (Jugie-Jamme).
Il nuovo pontefice Benedetto XII (al secolo Jacme Fornièr) invece volle fare a meno della collaborazione di Bertrando, e pretese che restituisse, anche in solido, il titolo di signore di Bologna alla Chiesa e al cardinale suo rappresentante. Il patrizio Taddeo Pepoli sarà il nuovo vicario del papa nella civitas Bononiae (1340); continuando così – come si è visto – il lento passaggio da comune a signoria, caratterizzato dal superamento del vecchio schema guelfi-ghibellini.
Nel 1350 Bertrando ricevette dalla Curia l’incarico, insieme al cardinale Étienne Aubert (futuro Innocenzo VI), di raccogliere le somme necessarie a finanziare la guerra guidata dal rettore di Romagna, Astorge de Durfort, per la riconquista di Bologna.
Una volta tornato in Curia l’esperienza di Bertrando per gli affari italiani fu messa a frutto con l’incarico di giudicare numerosi casi di eresia contro fraticelli, apostati, serviti. Dovette anche rivedere nel periodo 1337-41 la sentenza di eresia emessa contro i due Visconti.
Ormai era un diplomatico e cancelliere di spessore internazionale, e come tale fu richiesta la sua presenza nei Concistori (scil. adunanze dei cardinali) e per varie missioni di negoziati di pace. Si ricorda l’unica notizia pervenuta di un sermone pronunciato da Bertrando il 27 febbraio 1345 sulla guarigione di un indemoniato: «Erat Jesus demonium eiiciens» (Luca 11, 14). Nel quale indicava i cardinali quali successori degli apostoli, sottolineava la necessità di una riforma della Curia e auspicava una crociata, assecondando il disegno del veneziano Marin Sanudo, ardente sostenitore di quella soluzione nel suo Liber secretorum fidelium crucis degli anni ’20 del Trecento.
Dell’agonia di Bertrando, durata due giorni, Petrarca fu testimone d’eccezione dandone notizia per lettera a Filippo Cabassole. Dopo essere stato caustico contro quel «novello Annibale in marcia alla testa delle sue legioni per conquistare le terre italiane», rese omaggio ai meriti del servitore dalla vita «troppo breve per il bene pubblico» (Fam. XII 6 8).
Bibliografia
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- Karl Witte, De Bartolo a Saxoferrato, Dantis Allighierii studioso, commentatiuncula (1861); poi in Id., Dante-Forschungen: Altes und Neues, mit Dante's Bildniss nach Giotto, Barthel, Halle 1869, 1, pp. 461-472.
Links
- Scheda sul cardinale Bertrand du Pouget sul sito The Cardinals of the Holy Roman Church
- Stemma e ritratto di Bertrando del Poggetto: https://www.wikiwand.com/it/Bertrando_del_Poggetto
Article written by Rossano De Laurentiis | Ereticopedia.org © 2020
et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]