Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444
Avicebròn, al secolo Shelomoh ben Yehudah Ibn Gabirol (Malaga, 1020 ca. – Valencia, 1058 ca.) è stato un filosofo, teologo e poeta ebreo-spagnolo di lingua araba.
Vita e opere
Della sua vita si conosce poco o nulla e alcuni aneddoti che lo riguardano sono pure leggende, tramandate con lo scopo di screditarlo. Uno di essi lo collega a una nota leggenda ebraica medievale, quella del golem (“massa informe”), che narra della creazione di un automa, una specie di mostro di Frankenstein ante litteram, fabbricato con la creta e vivificato mediante l’impressione del nome di Dio sulla fronte. La tradizione attribuisce una simile diavoleria proprio ad Avicebron in ragione della teoria da lui enunciata, l’ilomorfismo universale, secondo cui nella materia sarebbe contenuto anche lo spirito. La leggenda prosegue dicendo che il re di Spagna, informato di ciò che aveva fatto, lo abbia condannato a morte con l’accusa di magia, ma il filosofo sia scampato alla condanna dimostrando come la sua “creatura” fosse innocua. Tuttavia, per impedire che incutesse timore agli altri, le avrebbe poi tolto la vita cancellando il nome di Dio che recava inciso sulla fronte.
Un’altra leggenda vuole che Avicebron sia stato ucciso da un poeta a lui rivale: un particolare che lo mette in relazione con altre figure scomode dell’antichità, per le quali si inventò una fine stravagante o una morte violenta – si pensi a Empedocle, che si suicidò gettandosi nel cratere dell’Etna, o a Euripide, sbranato da una muta di cani inferociti.
Al di là di queste storie, comunque, si può asseverare che tra i detrattori più illustri di Avicebron si annoveri Tommaso d’Aquino, che lo contesta apertamente già nel suo primo lavoro, il De Ente. In seguito, di Avicebron si perderanno le tracce. Addirittura si dimenticherà la sua vera identità, arrivando a separare il nome di Avicebron, filosofo e teologo eretico, da quello di Ibn Gabiron, poeta e moralista, ritenuto per un certo periodo un’altra persona. In Italia sarà Giordano Bruno a recuperare le sue idee, traendone spunto per elaborare la sua visione panteistica, che non a caso lo condurrà sul rogo.
La produzione letteraria di Avicebron comprende opere liriche (Anaq, “Collana”) e poetico-sapienziali (Keter malkūt, “Corona regale”), libelli eruditi e raccolte di apoftegmi (Azaroth, “Prescrizioni”; Mukhtār al-giawāhir, “Scelta di perle”), pamphlet di taglio moralistico (Iṣlāḥ al-akhlāq, “Miglioramento dei caratteri morali”). Ma egli deve la sua fama a un trattato redatto in arabo e tradotto dapprincipio in ebraico, col titolo Meqor hayyîm, e successivamente reso in latino come Fons vitae. Sarà anzi la traduzione latina di Domenico Gundisalvi e Giovanni Ispano, basata sulla parafrasi ebraica di Shem Tov ibn Falaquera, a consentire l’identificazione di Avicebron con Ibn Gabirol: un’identificazione che è avvenuta con certezza solo nella seconda metà del XIX secolo, grazie al ritrovamento di questi testi nella Bibliotèque Nationale di Parigi da parte di Salomon Munk, che ne ha curato una prima edizione nei suoi Mélanges de philosophie juive et arabe (1859).
Il pensiero
La filosofia di Avicebron, chiamata dai neoscolastici ilomorfismo universale, tenta una conciliazione fra i postulati della fisica aristotelica e gli assunti fondamentali della dottrina emanatistica plotiniana.
Sulla scorta di Aristotele, Avicebron postula che tutte le sostanze siano composte di materia e forma (omnia resolvuntur in materia et forma), ma diversamente dal maestro di Stagira è convinto che la forma – identificata come il principium individuationis da cui dipende la specificità degli essenti – promani dalla materia, anziché sussistere di per sé. Nella concezione gabiroliana, insomma, la materia viene accomunata alla Sostanza e, diventando la prima delle categorie aristoteliche, giunge a costituire il sostrato spirituale che “sostiene” (substinet) la realtà.
I termini arabi con cui Avicebron si rapporta al concetto di materia sono ‘unsur e hayūlā. Hayūlā è l’equivalente del greco hylé e designa la materia creata, “ilica”, mentre il più complesso ‘unsur indica la dimensione nella quale gli enti si costituiscono formalmente: una dimensione sia materiale che ontologica, in quanto gli Esseri non possono “essere” al di fuori di essa (et omnino debes scire quod esse non sit nisi ex coniunctione materiae et formae). L’‘unsur non è un “elemento”, come lo stoicheíon aristotelico, ma è l’alimento che dà vita agli essenti, i quali scaturiscono dall’‘unsur, quindi dalla materia, invece di entificarsi nella sua trama. Questo aspetto peculiare viene ribadito dall’aggettivo al-awwal, “primo”, che nel testo gabiroliano accompagna spesso il termine ‘unsur, qualificandolo come “materia prima” nell’accezione di “materia spirituale universale”.
Il tentativo di Avicebron non è solo quello di ricondurre materia e spirito a un unico principio, ma si spinge al punto di attribuire alla materia capacità generative, capovolgendo l’ordine tradizionale per cui è dallo spirito che scaturisce la materia e non viceversa. La materia assume così un ruolo predominante in un sistema che non è limitatamente biologico, ma religioso.
Una teoria del genere, che rivoluziona radicalmente il concetto di materialismo, non poteva che apparire eretica ai teologi medievali e ciò spiega per quale ragione il nome di Avicebron sia caduto per lungo tempo in un provvidenziale oblio, che ha molto il sapore della damnatio memoriae. Di fatto, Avicebron priva il materialismo dei suoi capisaldi: il determinismo e l’ateismo. Se nel mondo greco il materialismo era stata quella corrente di pensiero che aveva rintracciato negli atomi l’essenza delle cose sensibili, questi non avevano però nulla di divino, essendo determinati da leggi fisiche che si sottraevano al caso e all’arbitrio dei numi. La religione, di conseguenza, era necessariamente estranea a un sistema che volesse proclamarsi materialistico.
Avicebron, invece, si sforza di armonizzare la sua personale concezione materialistica con la teologia neoplatonica. E l’adesione ai princìpi del neoplatonismo è un’ulteriore riprova di come il suo sistema cosmologico sia scevro da regole meccanicistiche che amministrano la natura e sia piuttosto dominato da un’idea di Dio che, in quanto Principium rerum, ha dato origine al mondo per un libero atto di Volontà. Tutte le sostanze erano presenti ab origine in Dio, che durante la creazione, più che crearle nel significato classico del termine (cioè ex nihilo), le ha estrinsecate da Sé, facendole essere nel tempo sebbene fossero già nell’eternità.
Nel Fons vitae vengono elencate tre sostanze universali emanatesi da Dio: Intelletto, Anima e Natura. L’Intelletto è la prima delle ipostasi ed è dotata di materia e forma, che è la forma delle forme, la matrice di ogni possibile specificazione degli essenti (forma Intelligentiae origo est collectionis omnium formarum). Dall’Intelletto si scinde l’Anima universale e da questa la Natura, che sovrintende alla molteplicità delle singole forme dell’universo e alla loro mutevolezza: gli Esseri, che sono eterni, entificandosi nella Natura divengono transeunti.
Non bisogna dimenticare che il punto di partenza della speculazione gabiroliana è Aristotele, sicché il passaggio concettuale sul quale essa si edifica consiste nell’assimilazione dell’idea di materia a quella di potenza.
Avicebron ritiene che anche le sostanze spirituali – chiamate propriamente “sfere” o “ruote” – siano fornite di materia e forma, pertanto la loro attività di movimento non può che presupporre un sostrato potenziale. “Se la realtà inferiore emana (meshullah) da quella superiore”, scrive nel Fons vitae (IV, 1), “tutto ciò che si trova in quella si troverà pertanto necessariamente in questa; ciò significa che le sfere corporee rappresentano un equivalente delle sfere spirituali e che quelle vengono fatte derivare da queste. Dal momento che le sfere corporee possiedono una materia e una forma, deriva di necessità che anche le sfere spirituali siano così”.
Qui il distacco da Aristotele è palese. Se nel campo della fisica lo Stagirita aveva riconosciuto il movimento all’origine della vita, aveva poi nettamente distinto il mondo fisico da quello spirituale, nel quale Dio era percepito come un motore immobile.
Parlando dei “moti dello spirito”, Avicebron approda allora a una nuova concezione della volontà di Dio come “fonte della vita”: quella concezione che identifica, effettivamente, il suo apporto più originale e rivoluzionario alla storia della filosofia e della teologia occidentali.
Bibliografia
- Ermenegildo Bertola, Il “Keter Malkūt” di Salomon ibn Gabirol, in Saggi e studi di filosofia medievale, Cedam, Padova 1951, pp. 107-117.
- Id., Salomon ibn Gabirol (Avicebron). Vita, opere e pensiero, Cedam, Padova 1953.
- Fernand Brunner, Métaphysique d’Ibn Gabirol et de la tradition platonicienne, Ashgate, Aldershot 1997.
- Id., Platonisme et aristotelisme: la critique d’Ibn Gabirol par Saint Thomas d’Aquin, Beatrice-Nauwelaerts, Parigi 1965.
- Shelomoh ibn Gabirol (Avicebron), Fons vitae (Meqor hayyîm). Edizione critica e traduzione dell’Epitome ebraica dell’opera (a cura di Roberto Gatti), Il Melangolo, Genova 2001.
- José María Millas Vallicrosa, Selomó ibn Gabirol como poeta y filósofo, Instituto Arias Montano, Madrid 1945.
- Salomon Munk, Mélanges de philosophie juive et arabe [1859], Vrin, Parigi 1955.
- Colette Sirat, La filosofia ebraica medievale [1985], trad. it., Paideia, Brescia 1990, in part. pp. 94-112.
- Mauro Zonta, La filosofia ebraica medievale. Storia e testi, Laterza, Roma-Bari 2002.
Article written by Francesco Tigani | Ereticopedia.org © 2014
et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]