Rinaldi, Antonio

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


Antonio Rinaldi è stato un falegname della pianura modenese oggetto di un’indagine inquisitoriale tra il novembre 1633 ed il gennaio 1634.

Le carte processuali dell’Inquisizione geminiana, conservate nei locali dell’Archivio di Stato di Modena, testimoniano, oltre che la repressione nei confronti di rilevanti deviazioni dall’ortodossia romana, anche numerosi casi di ordinario disciplinamento sociale e la vicenda del falegname Antonio Rinaldi rientra in questa seconda casistica.
In data 29 novembre 1633, Filippo Cantoni, bargello del Sant’Uffizio modenese, sporse denuncia, di fronte al vicario inquisitoriale Michele Angelo da Modena, nei confronti di Antonio Rinaldi: durante una perquisizione delle guardie del Sacro Tribunale, avvenuta alla fiera agricola di Bruino per l’accertamento del possesso dell’adeguata licenza circa il porto d’armi, furono rinvenuti addosso al falegname cinque bollettini ed una carta pecorina, riportanti proposizioni che il bargello considerava di competenza inquisitoriale.
Le denunce di Filippo Cantoni e di Geminiano Rosi, cancelliere degli sbiri del Sant’Uffizio, diedero avvio ad un caso processuale, basato sull’accusa di possesso di scritti proibiti, che si trascinò fino al gennaio 1634, inoltre l’azione investigativa si rese concreta anche attraverso il lavoro di Giovanni Dinelli, parroco di Camurana, il quale era vicario foraneo nella zona dove si consumò il presunto reato; le indagini del prevosto, realizzate per mezzo di interrogatori ai vicini di casa dell’imputato, sono testimoniate dalle lettere che il sacerdote inviò all’Inquisizione modenese: da tal missive deriva la pessima fama della quale godeva Antonio Rinaldi, giacché egli era accusato dai propri vicini di essere un ladro, di palesare scarsa moralità e di non essere un assiduo frequentatore delle cerimonie cristiane.
Le inchieste di Dinelli fornirono un’immagine più nitida di Antonio Rinaldi all’inquisitore: il falegname venne così accusato anche di bestemmia e di essere un millantatore di abilità magiche; l’imputato fu detenuto, fin dal 7 dicembre, nelle carceri del podestà di Modena e, durante il periodo della prigionia, Battista Panzani, cognato del presunto reo, chiese al tribunale di poter lasciare in libertà il proprio parente fino ai primi giorni di gennaio, allorché sarebbe iniziato il procedimento giudiziario.
Giacomo Tinti, inquisitore in quegli anni nella città geminiana, acconsentì alla richiesta di Battista Panzani, tuttavia chiese a quest’ultimo di farsi garante del ritorno di fronte agli organi giudiziari di Antonio Rinaldi: nel caso che l’imputato non si fosse presentato nel giorno pattuito, egli avrebbe dovuto versare una sanzione di 50 scudi modenesi; il 5 gennaio 1634, il falegname comparì nuovamente nella sede modenese dell’Inquisizione, venendo incarcerato sotto la custodia di frate Giovanni Battista, e, solamente due giorni dopo, iniziarono gli interrogatori nei quali il presunto reo si dichiarò sempre innocente, sostenendo di aver trovato per caso tali scritti di fronte alla casa di un tal Ghiselino della Mirandola, allorché si stava recando alla fiera agricola insieme a Battista Panzani e Pietro Zanetti.
La difesa dell’imputato si fondava sul fatto che sia quest’ultimo, sia i suoi compagni di viaggio, erano analfabeti e quindi non erano in grado di comprendere le carte, cosicché essi erano intenzionati a portare il loro ritrovamento al parroco di Camurana, affinché egli comprendesse chi aveva perso quegli scritti: il progetto dei tre non si rivelò fruttuoso giacché essi furono fermati, come ricordato precedentemente, dagli sbiri del Sant’Uffizio e da questi ultimi furono rinvenuti, addosso ad Antonio Rinaldi, le carte sospette.
Frate Michele Angelo da Modena interrogò a più riprese il falegname, concedendo a quest’ultimo un periodo di cinque giorni per organizzare una sua difesa, cosicché l’imputato chiamò a suo sostegno Battista Panzani e Pietro Zanetti, i quali vennero interpellati da Giacomo Tinti in data 24 gennaio 1634: entrambi i testimoni confermarono quanto aveva riferito Antonio Rinaldi, sostenendo l’onestà del loro progetto di portare le carte ritrovate al curato Giovanni Dinelli, al fine di trovare il legittimo proprietario di quegli scritti; la sentenza non tardò ad arrivare, infatti, a distanza di due giorni l’inquisitore Giacomo Tinti ed il vicario vescovile Costanzo Scala decretarono l’assoluzione del falegname, il quale veniva solamente obbligato a ripresentarsi di fronte al tribunale di fede se fosse stato richiesto.

Fonti archivistiche

  • Archivio di Stato di Modena, Enti ecclesiastici, Tribunale dell’Inquisizione di Modena, Processi, b. 95, f. 10.

Bibliografia

  • Samuele Reggiani, Il caso di Antonio Rinaldi. Un processo inquisitoriale nella Modena del XVII secolo, Università degli Studi di Bologna, Tesi di laurea in Storia, relatore prof. Umberto Mazzone, a. a. 2011-2012.
  • Samuele Reggiani, La vicenda di Antonio Rinaldi. Un processo inquisitoriale nella Modena del XVII secolo, in «Quaderni estensi. Rivista on line degli Istituti culturali estensi», 5, 2013, pp. 482-496.

Article written by Samuele Reggiani | Ereticopedia.org © 2017

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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