Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444
Alessandro Caravia (Venezia, 1503 - Venezia, 1568) è stato un orafo, gioielliere e letterato, sospettato di eterodossia e sottoposto a processo da parte dell'Inquisizione veneziana.
Vita e opere
Ambienti artigiani e tentazioni riformate a Venezia
Alessandro Caravia esercita la professione di gioielliere nell’omonima ruga dell’isola di Rialto. Sposato con una Marietta dalla quale ha tre figli, deve anche mantenere i due figli di un fratello morto giovane, il che accentua il suo carattere austero e malinconico, oppresso dagli impegni del secolo, che trapela dai suoi componimenti poetici. Nonostante questa carica famigliare Caravia sembra appartenere alla media borghesia artigiana e godere di una situazione relativamente agiata. In particolare è a Venezia il gioielliere di fiducia di Cosimo de’ Medici per il quale rimedia pietre preziose o pezzi di antiquariato, come testimonia il suo carteggio con il duca. Ora l’ambiente dei gioiellieri è permeato dalle idee riformate; nelle botteghe degli orefici si incontrano uomini dalle più svariate origini, che portano dall’Olanda o dalla Germania le nuove teorie teologiche. Così Enrica Benini Clementi nota come la credenza del Caravia secondo la quale i poteri talismanici delle gioie potessero giovare solo ad alcuni eletti sia una dottrina vicina alla luterana giustificazione per la sola fede. E ritroviamo fra le amicizie del nostro un Bartolomeo Carpan o i fratelli Crivelli, il poeta Paolo e i gioiellieri Giovan Francesco e Gasparo, di nota fede eretica.
I primi poemetti
Le simpatie riformate del Caravia vengono evidenziate nella sua seconda professione, quella di poeta. Pubblica nel 1541 presso Giovann’Antonio Nicolini da Sabbio il suo primo poemetto, Il Sogno, che testimonia delle sue inquietudini religiose. Poco dopo la morte del celebre buffone Zuan Polo, il poeta è visitato in sogno dallo spirito dell’amico. Zuan Polo narra il suo viaggio nell’aldilà, prima in paradiso, dove incontra San Pietro, poi in infeno dove dovrà subire una condanna temporanea. Queste ottave sono per il Caravia l’occasione di sfoggiare il suo spiritualismo interiorizzato, ma anche di scagliarsi contro il lusso sfrenato delle Scuole Grandi, corporazioni che per il poeta rappresentano il massimo dell’ipocrisia religiosa. Umile esponente della piccola Arte degli Orafi, Caravia è in questo diversissimo dal «tentor» Andrea Calmo, l’altro grande autore in lingua veneziana del periodo, che ricoprì posti di prima importanza nella Scuola Grande di San Marco. Il suo secondo poemetto, la Verra antiga de Castellani, Canaruoli e Gnatti (1550), mette in scena le battaglie che opponevano le fazioni veneziane dei sestieri di Castello e Cannaregio, in uno stile vicino alla letteratura detta «alla bulesca» – dall’omonima commedia –, genere letterario che mette in scena la Venezia dei bravi, dei ladri e delle prostitute di basso rango. Queste furiose ottave di battaglia, più vicine alla verva di un Pulci che non alla varietà di un Ariosto, lasciano anche spazio ad episodi nei quali appare l’aversione dell’autore per l’iprocrisia del rito cattolico, come quello della morte dei due eroi nemici. Se il castellano Giurco muore senza confessione, pieno di fede nella potenza divina e richiede l’assenza di pompa al proprio funerale, il canaruolo Gnagni diventa durante la sua agonia la preda di un prete avido di impadronirsi di ogni sua ricchezza.
Il processo dell’Inquisizione veneziana
È proprio la Verra a costare a Caravia, dopo anonima denuncia, un processo dell’Inquisizione che si svolge dal 1556 al 1558. L’opuscolo, pubblicato senza nome d’autore né di editore, era però in vendita presso i massimi librai veneziani. Uno di essi, Stefano Alessi della Calle della Bissa a Rialto, cede di fronte agli inquisitori e fa il nome del poeta gioielliere. Caravia, confrontato non solo alla Verra ma anche ad alcuni passi del Sogno, pretende di essere ignorante in materia di fede, ottempera senza batter ciglio ad ogni richiesta del tribunale, e imputa la scelta dell’argomento al suo amico Paolo Crivelli, deceduto alcuni anni prima. Questa prudente tattica gli permette di limitare la propria condanna all’abiura di alcuni «errori», ma soprattutto di evitare di incolpare il suo cerchio di amici e di colleghi artigiani. Afferma addirittura di non conoscere il nome dello stampatore che messe in circolazione la Verra – probabilmente Nicolini da Sabbio –, difesa poco credibile per un poeta così interessato alla propria fama letteraria, come si evince dai suoi scambi con l’Aretino al quale dedica, con poco successo, il poemetto bellico.
L’ultimo poemetto: Naspo bizaro
Dopo la prova del processo, le problematiche religiose non appaiono più in un modo vistoso nell’opera del Caravia. Il Naspo Bizaro, terzo e ultimo poemetto anch’esso improntato alla lingua bulesca e pubblicato nel 1565 dal solito Nicolini da Sabbio, è una lunga sfilza di ottave divise in quattro canti nelle quali Naspo, operaio dell’Arsenale, cerca di sedurre la bionda Cate della contrada dei Biri. Il poeta tace ormai le sue tentazioni filoluterane, ma residui delle polemiche precedenti possono comunque essere individuati, per esempio nella diffidenza morale contro gli eccessi del secolo e nell’importanza data al valore della carità. Il testamento del Caravia, scritto nel 1563, reca echi alle disposizioni del protagonista della Verra, in particolare nell’esigenza di una cerimonia semplice. Muore a Venezia nel 1568.
Bibliografia
- Federica Ambrosini, Caravia, Alessandro, in DSI, vol. 1, p. 265.
- Enrica Benini Clementi, Riforma religiosa e poesia popolare a Venezia nel Cinquecento. Alessandro Caravia, Olschki, Firenze 2000.
- Ludovico Zorzi, Caravia, Alessandro, in DBI, vol. 19 (1976).
Link
- Scheda su Alessandro Caravia sul sito Symogih.org
Article written by Fabien Coletti | Ereticopedia.org © 2017
et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]