Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444
Alberico Gentili (San Ginesio, 14 gennaio 1552 - Londra, 19 giugno 1608) è stato un giurista, esule in Inghilterra religionis causa.
Sommario
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Cenni biografici
Alberico Gentili nacque a San Ginesio il 14 gennaio 1552. Nel 1569 si iscrisse all’Università di Perugia dove si laureò in diritto civile il 23 settembre 1572. Nominato giudice delle cause civili ad Ascoli, fu poi avvocato del Comune di San Ginesio. Nel 1579 fu costretto a fuggire insieme al padre Matteo e al fratello Scipione, a causa della sua adesione alle dottrine riformate: una vicenda che si concluse con la scomunica, la confisca dei beni e l’irrogazione dell’infamia. Successivamente riparò a Lubiana, per poi passare in Germania e giungere, infine, a Londra nel 1580. Entrato in contatto con il circolo politico-culturale di Corte e, in particolare, con Robert Dudley, conte di Leicester e sir Francis Walsingham, Segretario di Stato, il 14 gennaio 1581 venne cooptato fra i dottori di diritto civile all’Università di Oxford ed abilitato a tenere lezioni (6 marzo 1581).
Tra il 1583 e il 1585 entrò in relazione con Giordano Bruno: un rapporto che continuerà nel 1586 a Wittenberg. Grazie ai buoni uffici del Dudley e del Walsingham, con decreto reale di Elisabetta I dell’8 giugno 1587, ottenne la nomina a regius professor di civil law. Tra il 1588 e il 1589 sposò Esther De Peigny. Dal loro matrimonio nacquero 5 figli. Nel 1602-1603 la S. Congregazione dell’Indice inserì le sue opere nell’Index Librorum prohibitorum. Nel 1605 si ritirò dall’insegnamento universitario per dedicarsi all’attività forense in qualità di avvocato dell’ambasciata di Spagna presso la Corte dell’Ammiragliato, competente a trattare soprattutto cause di pirateria e di preda bellica. Morì a Londra il 19 giugno 1608 e qui venne sepolto a Londra nella chiesa St. Helen’s Bishopsgate.
Le prime opere
Sin dal suo arrivo in Inghilterra Gentili fu al centro di una fitta corrispondenza con giuristi, teologi, uomini di cultura che, attraverso il rapporto epistolare, sollevarono questioni di natura giuridica. Buona parte di questa corrispondenza venne pubblicata a Londra nel 1584 nei Lectionum et epistolarum quae ad ius civile pertinent libri I-IV. Quest’opera, ma soprattutto quella di poco precedente, dal titolo De iuris interpretibus dialogi sex, (Londini 1582), hanno spesso indotto la storiografia ad annoverarlo fra gli strenui difensori del mos italicus iura docendi ed un acerrimo avversario delle novità prodotte dall’umanesimo giuridico. Queste opere avrebbero potuto contribuire a qualificarlo come un civilian al quale si sarebbe potuta aprire una carriera prestigiosa nell’Accademia oxoniense, ancora sicuramente legata ad un insegnamento del Civil Law di stampo tradizionale: “Like Gentili, in short, English civilians refused to believe that history or philology had anything to do with the science of law… This guild mentality, with the compulsive utilitarianism accompanying it, constitued perhaps the major obstacle to the historical and comparative study”.
Allo stesso tempo, la stesura e la successiva pubblicazione di un testo come il De papatu Romano Antichristo – conservato in un unico manoscritto autografo presso la Bodleian Library di Oxford e recentemente edito – la cui prima stesura viene fatta risalire al quinquennio 1580-1585, ma che venne ampiamente modificata e integrata dall’A. almeno fino al 1591, avrebbe molto probabilmente potuto costituire, sotto il profilo religioso, la palpabile dimostrazione che, pur essendo italiano, la sua adesione alla Riforma e la sua avversione al papato erano assolutamente indiscutibili. Va sottolineato, infatti, che nel frontespizio, Alberico Gentili aveva indicato accanto al suo nome l’espressione Italo auctore: una precisazione, quella circa il luogo di provenienza, che non si rinviene mai nei titoli delle altre sue opere. Entrambe le scelte potevano essere dettate, quindi, dalla necessità di poter dimostrare, in un ambiente in parte ostile, la propria competenza di giurista e, contestualmente, una indiscussa adesione alle dottrine riformate e una altrettanto indiscutibile avversità, malgrado la sua “italianità”, nei confronti del Papato romano.
I suoi Dialogi, in particolare, generarono un fortissimo dissenso negli ambienti umanistici: Jean Hotman – che pure nel primissimo periodo di permanenza sul suolo inglese era stato amico di Alberico e di suo padre Matteo – mise in piedi una vera e propria crociata anti-gentiliana, non solo attraverso un’ampia ed articolata corrispondenza con altri intellettuali oxoniensi e londinesi con i quali, nei confronti di un ignaro Gentili, usò toni ed espressioni assai poco eleganti e malevole, ma anche tramite una sorta di efficace propaganda comunicativa che raggiunse, direttamente o indirettamente, i maggiori giuristi (Bodin, Cujas) del Continente europeo.
Nel corso del 1585, all’ostracismo proveniente dagli ambienti umanistici d’Oltremanica appartenenti alla cerchia di Jean Hotman, si aggiunse quello, sicuramente ben più grave, del mondo puritano: lo attesta lo stesso Alberico in una lettera dell’8 febbraio 1594, inviata a John Rainolds, nella quale ricorda le accuse di italica levitas formulate nei suoi confronti dall’influente teologo puritano inglese e da altri allorquando, intorno alla metà degli anni Ottanta, si stava prefigurando la possibilità di esser chiamato a ricoprire la cattedra di Regius professor di Civil Law: il suo essere straniero e la sua levitas * che si sarebbe concretizzata nell’uso di espressioni vanagloriose ed adulatorie nella dedicatoria della Legalium Comitiorum Oxoniensium Actio * sarebbero state le argomentazioni per contrastare la sua nomina. Non è da escludere, però, anche alla luce di quanto il giurista di San Ginesio avrà modo di affermare circa dieci anni dopo, che a queste ragioni possano esserne state aggiunte altre: e cioè i suoi convincimenti in relazione ai rapporti fra diritto, teologia e religione. Temi e problemi questi ultimi presenti nei De legationibus libri tres: opera che vede la luce proprio a metà degli anni Ottanta del XVI secolo (1585), epoca a cui risale l’esplicita avversità nei suoi confronti da parte del Rainolds e degli ambienti puritani.
Non v’è dubbio che il De legationibus abbia avuto minore fortuna rispetto al De iure belli: opera apparsa, com’è noto, ben tredici anni dopo la stesura del testo gentiliano sugli ambasciatori; nondimeno alcuni passaggi relativi al nostro tema meritano di essere sottolineati perché dimostrano l’esistenza di un filo logico, e di una unità di pensiero che caratterizzerà a lungo la produzione scientifica di Gentili sul rapporto fra diritto, teologia e religione. La recisa affermazione secondo la quale il diritto religioso riguarda unicamente i rapporti fra l’uomo e Dio, e non i rapporti fra gli uomini – tema quest’ultimo che Gentili svilupperà negli anni seguenti – e il suo apprezzamento per il Machiavelli dei Discorsi non potevano essere certamente condivise dal Rainolds che, in più occasioni, aveva manifestato la sua avversità alle idee del Segretario fiorentino.
Le opere gentiliane, edite fra il 1582 e il 1585, che pure avranno avuto consenso ed apprezzamento da parte del mondo accademico e politico d’oltremanica, avevano generato anche forti e rimarchevoli dissensi. È molto probabile, pertanto, che proprio queste siano le ragioni per le quali, nella primavera del 1586, al seguito di Orazio Pallavicino, l’esule marchigiano lascia l’Inghilterra per la Germania, con l’intenzione di non fare più ritorno oltremanica. Le cose, però, come sappiamo, andranno in maniera diversa da quanto auspicato dai suoi avversari: l’8 giugno 1587, grazie agli appoggi di Walsingham e Leicester col quale, fra l’altro, i rapporti erano restati sempre ottimi, e di alcuni membri della gerarchia anglicana, Alberico viene nominato Regius Professor di Civil Law.
Il giurista e il teologo: Alberico Gentili e John Rainolds
I dissensi del Gentili con gli ambienti teologici risalenti alla metà degli anni Ottanta, apparentemente sopiti, erano destinati di lì a poco a riemergere in tutta la loro complessità. Come attesta la documentazione conservata in Inghilterra, e come numerose ricerche hanno potuto dimostrare, risale ai primi anni Novanta la polemica sugli spettacoli teatrali fra William Gager e John Rainolds relativa alla legittimità, da parte degli attori, di assumere ruoli e vesti femminili (si ricordi che alle donne era proibito calcare le scene), in violazione delle disposizioni del Deuteronomio (Deut. 22.5). Una polemica che raggiungerà il suo culmine pubblico nel 1592, allorquando Elisabetta I visiterà l’Università di Oxford. Proprio per l’occasione il giurista di San Ginesio aveva composto un Sonetto in italiano dedicato a colei che considerava la sua grande ed autorevolissima protettrice. In occasione della visita, la Regina, insieme al suo entourage e alle autorità accademiche, aveva assistito alle rappresentazioni delle opere di William Gager, con cui John Rainolds aveva polemizzato in relazione agli spettacoli teatrali; a quest’ultimo, il 28 settembre, per questa ragione, la Regina si rivolgeva con fermissime parole di riprovazione: “Elizabeth schooled Dr John Rainolds for his obstinate preciseness, willing him to follow her laws, and not run before them”.
Malgrado ciò la polemica sul teatro, apparentemente sopita per alcuni mesi, riprenderà vigore nel 1593-1594, e vedrà contrapporsi al Rainolds proprio Alberico Gentili che, nel giugno 1593, aveva pubblicato la Commentatio ad legem III. Codicis de professoribus et medicis. E chissà che il dono del Sonetto alla Regina, e la reprimenda pubblica subita nove mesi prima dal Rainolds da parte di Elisabetta I, non abbiano contribuito a far aumentare i sentimenti di avversione, ai quali si è già fatto cenno, che il teologo puritano nutriva nei confronti del giurista di San Ginesio. Una pubblicazione, quella costituita dalla Commentatio de professoribus et medicis, nella quale Alberico aveva affrontato, tra le altre, le problematiche che erano state al centro della polemica Gager-Rainolds.
In essa egli non solo aveva implicitamente difeso la posizione del Gager, ma aveva messo in discussione la possibilità che i teologi potessero occuparsi legittimamente della questione oggetto di dibattito, giungendo fino al punto di sostenere che, mentre da un lato riconosceva senza dubbio l’influenza che l’elaborazione teologica avrebbe potuto esercitare sul suo pensiero in materia religiosa, una analoga importanza non avrebbe potuto attribuirgli in re politica. Ma anche nelle pubblicazioni precedenti, ad iniziare dal De legationibus (1585) per finire alla De iure belli Commentatio prima (1588), era apparso evidente che il Gentili distinguesse nettamente lo ius religionis dallo ius humanum individuando il discrimine fra i due diritti nei soggetti, fra i quali si sarebbe instaurato il rapporto. Lo ius religionis, dal suo punto di vista, avrebbe regolato unicamente le relazioni degli uomini con Dio e non quelle fra gli uomini per le quali occorreva far ricorso allo ius humanum. Il fatto che Gentili esprimesse da lungo tempo il suo punto di vista sui rapporti fra diritto, teologia e religione non era passato inosservato agli occhi attentissimi del Rainolds il quale, peraltro, aveva ben presente la precedente produzione scientifica del giurista di San Ginesio perché anche ad essa, nel corso della polemica, farà più volte riferimento. Il fuoco, che stava covando da tempo sotto la cenere, non aspettava che di essere nuovamente ravvivato, e la polemica fra Gager e Rainolds, cui si aggiungeva subito dopo Alberico Gentili, aveva contribuito, e non poco, a far sviluppare definitivamente l’incendio dando vita ad un vero e proprio scontro, condotto in punta di penna, fra il giurista italiano esule in Inghilterra e il teologo puritano, attraverso una corrispondenza privata – di cui sono ancor oggi conservate complessivamente otto lettere manoscritte recentemente edite in testo critico – che prenderà avvio con un’epistola di Gentili a Rainolds del 7 luglio 1593, e che si chiuderà, almeno sotto il profilo delle relazioni epistolari, con una missiva del 12 marzo 1594 del teologo puritano al giurista italiano.
Basterà qui ricordare che Alberico Gentili riteneva che i teologi non fossero gli unici interpreti della Sacra Scrittura, e che la stessa – come affermava nella corrispondenza col teologo inglese risalente al luglio 1593 – potesse essere del tutto legittimamente fatta oggetto di studio anche da parte dei giuristi. I testi sacri, pertanto, dovevano essere ritenuti comuni ad entrambe le categorie di studiosi, con la precisazione che ai giuristi doveva essere riconosciuta una maggiore competenza in relazione ai precetti regolatori dei rapporti fra gli uomini. Un punto di vista che il giurista di San Ginesio confermerà, restando pienamente convinto delle sue ragioni, attraverso nuove argomentazioni che illustrerà nel prosieguo della corrispondenza col Rainolds. Muovendo dalla bipartizione delle Tavole della Legge contenenti, la prima, i precetti divini relativi ai rapporti fra Dio e l’uomo (diritto divino) e, la seconda, quelli relativi ai rapporti fra gli uomini (diritto umano), giungerà alla conclusione che ai teologi, sommi interpreti della Sacra Scrittura, deve essere riconosciuta la competenza a studiare ed interpretare i precetti divini regolatori dei rapporti fra l’uomo e Dio, mentre ai giuristi che, ratione subiecti (l’uomo e le sue azioni) e ratione finis (il diritto umano), sono ritenuti competenti ad interpretare le norme regolatrici delle relazioni umane, resterà il compito, anche alla luce dei precetti della Scrittura, di definire quelle stesse problematiche sotto il profilo del diritto.
Una posizione questa che il Rainolds, recisamente, non condivideva. Il teologo puritano, infatti, dopo aver accusato il giurista di San Ginesio di immodestia e di impietas, affermava che l’interpretazione delle Scritture doveva restare di esclusiva competenza della teologia, l’unica disciplina da considerare fidei et vitae magistra. Fra i testi trasmessi dai Libri sacri era ovviamente annoverato il Decalogo, per il quale il Rainolds continuava a ritenere fondamentale l’elaborazione teologica: per volontà divina i teologi, praecipui interpretes, avrebbero avuto il compito di spiegare alla Chiesa e al Popolo, attraverso la loro funzione interpretativa, i precetti contenuti non solo nella prima, ma anche nella secunda tabula.
Due posizioni indiscutibilmente contrastanti e diametralmente opposte, che ben difficilmente sarebbe stato possibile comporre, e che denotavano, com’è evidente, non solo una diversa concezione del rapporto fra diritto, teologia e religione, ma anche una diversissima opinione circa il ruolo, le funzioni e le competenze del teologo e del giurista.
Alberico Gentili tra diritto, teologia e religione: alcuni cenni
Nel triennio che va dal 1595 al 1598 le relazioni tempestose fra Alberico Gentili e gli ambienti puritani rappresentati, in particolare, dal Rainolds, sembrano sostanzialmente sopite. Negli anni immediatamente seguenti, vale a dire in quelli a cavaliere fra i due secoli, i rapporti fra i due studiosi ancorché non appaiano caratterizzati, com’era accaduto negli anni precedenti, da scontri diretti, restano sostanzialmente conflittuali: lo dimostra la pubblicazione di una serie di opere – soprattutto da parte del giurista di San Ginesio * nelle quali le questioni dibattute in precedenza vengono fatte oggetto di approfondimento talché possano essere considerate la risposta pubblica, scientificamente elaborata, delle posizioni assunte da Alberico nel corso degli anni sui temi della controversia col teologo puritano. A queste tematiche abbiamo già fatto cenno in precedenza; occorre però soffermarsi sulla successione temporale delle opere per tentare di comprendere appieno quali furono le ragioni della pubblicazione di alcune di esse.
Nel 1598 Alberico Gentili, riprendendo e sviluppando con notevolissimi approfondimenti i concetti già espressi nelle Commentationes De iure belli, e correndando l’opera con una massa cospicua di auctoritates, pubblica i De iure belli libri tres: opera nella quale, almeno in alcuni passaggi, conferma il suo punto di vista sui rapporti fra diritto, teologia e religione già espresso nel De legationibus e nella De iure belli Commentatio prima. Le cause di religione non possono essere poste a fondamento di dissensi tali da indurre alla guerra, tant’è che l’uomo che entra in relazione con soggetti di religione diversa, non può lamentare la violazione di un suo qualsivoglia diritto, per il solo fatto che altri professino una fede diversa dalla sua. La materia religiosa, infatti, riguarda i rapporti fra l’uomo o la comunità degli uomini e Dio; non è così per i rapporti fra gli uomini che riguardano il diritto umano. Due ambiti, quelli del diritto divino (inteso come regolatore dei rapporti fra Dio e l’uomo) e del diritto umano (relativo alle relazioni fra gli uomini) che, alla luce di quanto aveva sostenuto nella corrispondenza col Rainolds, sarebbero stati di competenza, rispettivamente, del teologo e del giurista.
Ciò può contribuire a comprendere meglio la portata della notissima apostrofe Silete theologi in munere alieno apposta al termine del capitolo XII del I Libro dei De iure belli libris tres: un tema al quale andrebbe dedicato uno spazio ben più ampio rispetto a quello, assai ridotto, che gli può essere riservato in questa sede. In ogni caso, quella espressione, pur potendo essere del tutto legittimamente ritenuta come rivolta esclusivamente a quei teologi che avevano individuato nella diversitas religionis una causa di guerra giusta, per il fatto che Gentili la scrive al termine di una serie di capitoli dedicati al tema guerra-religione (I.IX.-XII.), alla luce di quanto si è sin qui esposto dovrebbe aver avuto come destinatari tutti i teologi che avessero voluto immergersi in questioni – come i rapporti fra gli uomini, fra i quali rientravano a pieno titolo le legittime cause di guerra – che a parere del Gentili ricadevano nel diritto umano: per la sua interpretazione, come nel caso del bellum iustum, la competenza doveva essere esclusivamente attribuita non al teologo ma al giurista o, per usare una sua espressione, al giureconsulto. Temi e problemi * già ampiamente studiati e discussi nelle opere precedenti e nella corrispondenza col Rainolds * coi quali Alberico tornerà a confrontarsi, tre anni dopo, nel Libro I del De nuptiis: testo nel quale, fra l’altro, soffermandosi sul crimen stupri – e quindi su un tema del tutto diverso dal diritto bellico – rivolgendosi a San Girolamo userà un’espressione analoga: Sileant theologi: nec alienam temnant temere disciplinam.
È comunque nell’opera, prevalentemente dedicata all’istituto matrimoniale, che il Gentili svilupperà ed amplierà, sotto il profilo scientifico, le argomentazioni che aveva utilizzato nel confronto epistolare col teologo di Oxford, e nella quale dimostrerà – restando pienamente fermo nei suoi convincimenti circa i rapporti fra diritto, teologia e religione, ai quali dedicherà molte parti del I Libro finalizzato ad illustrare il ruolo dell’interprete del diritto – di aver ormai definitivamente acquisito il convincimento che il giurista non può espletare la sua funzione interpretativa facendo esclusivamente riferimento al testo giustinianeo, ma che, umanisticamente, alla luce delle conoscenze che gli derivano dalle altre discipline, deve tendere alla storicizzazione del diritto in quanto espressione nel tempo e nello spazio della razionalità che determina l’intelligente comprensione e applicazione delle norme e dell’intero ordinamento. Uno sguardo al I Libro del De nuptiis, consentirà di comprendere meglio lo sviluppo del pensiero gentiliano sul tema che abbiamo sin qui tentato di sviluppare: l’evolversi della sua concezione del giurista e del rapporto fra diritto, teologia e la religione.
Il metodo: Alberico Gentili iuris interpres
Nel I Libro del De nuptiis, nel capitolo dedicato all’auctoritas dei teologi, redatto sulla base del classico metodo della disputatio – una metodologia interpretativa che, come si desume anche dal titolo, caratterizza tutto lo svolgersi dell’opera – Alberico Gentili si sofferma su chi sia competente ad interpretare i precetti contenuti nella secunda tabula del Decalogo, vale a dire i comandamenti di Dio che regolano i rapporti fra gli uomini.
Per contrastare le convinzioni di un innominato teologo, da individuare senza alcun dubbio in John Rainolds che, in una delle sue lettere aveva sottolineato l’incompatibilità della metodologia elaborata nei Dialogi con la necessità di un approccio criticamente avveduto alle fonti scritturali, per la cui piena comprensione occorrevano competenze che nella prima opera gentiliana erano state considerate sostanzialmente superflue, Alberico modifica sostanzialmente ed a chiare lettere quanto aveva a suo tempo affermato. Con un’espressione fortemente riassuntiva egli ricorda di aver sostenuto in quell’opera che al giurista non occorreva una profonda conoscenza del latino o del greco, che questi non aveva bisogno della dialettica o della storia né di tutte le altre arti e scienze, strumenti che, secondo il suo interlocutore costituivano, invece, il bagaglio culturale di coloro che professavano la teologia. Il giurista, quindi, proprio perché privo di una profonda conoscenza di tutte queste discipline non avrebbe potuto, secondo il parere del teologo, fermare la sua attenzione su nessuna delle disposizioni del Decalogo.
Se in un ipotetico confronto dialettico fra il giurista e il teologo, l’Alberico dei Dialogi (1582) sarebbe stato sconfitto, il Gentili del De nuptiis (1601), che ha profondamente modificato la sua posizione, può utilmente dimostrare la sua competenza ad interpretare i precetti divini regolatori delle relazioni umane. Ma v’è un ulteriore elemento che dev’essere sottolineato. Il titolo dei Dialogi (De iuris interpretibus Dialogi sex) i quali – occorre qui ricordarlo – risalgono al 1582, sembra prefigurare un riflessione metodologica sulla funzione dell’interpres iuris; nel 1601, allorquando Gentili si accinge a scrivere le sue Disputationes sul matrimonio, sente la necessità di precisare, nel primo libro (Qui est de interprete), che vent’anni prima ha esposto le problematiche giuridiche da interprete del diritto giustinianeo (“…et de iuris Iustinianici interprete illic egi…”), mentre ora agisce da interpres iuris. Ne consegue, proprio sulla base delle affermazioni di Alberico, che il titolo di quella sua prima opera avrebbe dovuto esser modificato in De iuris Iustinianici interpretibus Dialogi sex. Pur non smentendo quanto aveva scritto nei Dialogi, Alberico delimita quel testo ad una funzione illustrativa dei compiti del giurista che fonda le sue convinzioni sulla compilazione giustinianea: compiti che, per essere pienamente assolti, hanno ora bisogno di ben più ampie conoscenze.
Egli, pertanto, non è più un puro e semplice interprete del diritto giustinianeo ma, armato di uno strumentario amplissimo, è un vero e proprio interpres iuris. Impadronitosi di un’ampia e profonda conoscenza di molte scienze Alberico Gentili, che si è fortemente avvicinato all’ideale umanistico dell’enciclopedia, può nuovamente attribuire al giurista il ruolo che gli compete, quello cioè di ricercare i principii che devono sovraintendere alla relazioni umane, utilizzando a tal fine non solo il dettato del Corpus iuris civilis, ma anche tutte le conoscenze che gli derivano da un’attenta lettura della giurisprudenza antica e recente, nonché di tutte quelle discipline (storia, filologia, filosofia e teologia) da lui ritenute superflue in un non troppo lontano passato. Non sembra un caso, infatti, che contrapponendo le due fasi metodologiche, egli si sia trasformato da “interpres iuris Iustinianici” in “simpliciter interpres iuris”, volendo forse sottolineare, con l’uso dell’avverbio simpliciter, che il giurista, il quale aveva ovviamente un ruolo centrale nell’interpretazione del diritto, doveva continuare ad assolvere questo ruolo in modo diverso: servirsi, per raggiungere l’unità interpretativa, dei contributi che gli derivavano anche da tutte le altre scienze.
L’idea gentiliana del giurisperito formulata nel De nuptiis, a differenza di quella espressa nei Dialogi, non è più quella di un puro e semplice esegeta del corpus normativo, o di colui che per interpretare i Libri legales abbisogna esclusivamente di quanto la giurisprudenza ha elaborato su quei testi (il che viene ora da lui considerato un “uso corrotto della nostra disciplina”), ma di un intellettuale che, alla luce delle più ampie conoscenze, si pone come sacerdos iustitiae. I principii regolatori delle azioni umane sono ora desumibili, per Alberico, non solo dalla compilazione giustinianea, ma anche dalle elaborazioni che la scienza giuridica e le altre discipline, senza alcuna preclusione, avevano prodotto in un secolare cammino tutto teso a separare “aequum ab iniquo, iustum ab iniusto”, ed a ricercare, quindi, i cardini sui quali fondare l’edificio dell’umana giustizia. Un ruolo che non può essere affidato al canonista o al civilista, una suddivisione che in un’epoca caratterizzata da divisioni politiche e religiose non risulta più accettabile, ma al iurisperitum.
Alberico Gentili, nel redigere il I Libro del De nuptiis, si presenta così come l’erede della tradizione universalistica del ius commune e, contestualmente, come il tramite del rinnovamento della scienza giuridica che si affaccia al secolo nuovo: la ricerca della giustizia, non è più esclusivamente frutto di una interpretazione evolutiva della legislazione giustinianea, ma è il risultato di uno sforzo ermeneutico del giurista che, grazie alle conoscenze enciclopediche acquisite, può effettivamente proporsi come l’unico intellettuale in grado di formulare principii di giustizia.
Ne è una conferma la posizione assunta dal giurista in relazione al diritto canonico: un tema sul quale appare opportuno fermare brevemente l’attenzione, anche per comprendere l’approccio a questa tipologia di fonte da parte di chi, come Alberico, aveva da lungo tempo aderito alla Riforma e che, dopo aver espresso durissime critiche nei confronti del Papato romano e della sua potestas, da circa tre lustri ricopriva la cattedra di regio professore di civil law a Oxford. Un’elaborazione teorica, figlia del genere letterario della disputatio che, com’è noto, caratterizza molte delle sue opere, e che richiede, per una piena comprensione, un esame approfondito del I Libro del De nuptiis (1601) nel quale il giurista di San Ginesio si sofferma ampiamente sull’argomento.
Dalla lettura dell’incipit del testo (“DEFINITIONES earum quæstionum, quæ de nuptiis sunt, sumi de iure canonico solitas, et sumi etiam oportere, constanti omnium voce, et consensione traditum, ac receptum est”) potrebbe desumersi – e tutto ciò, alla luce dei convincimenti espressi in opere precedenti, potrebbe apparire piuttosto singolare – la imprescindibilità della conoscenza e dell’applicazione del diritto canonico (come unica fonte normativa di riferimento), nonché la competenza esclusiva della Chiesa sulla materia matrimoniale: un’affermazione, quest’ultima, che nelle pagine successive viene discussa e, in conclusione, recisamente negata da Gentili il quale, invece, la attribuisce alla potestà delle autorità laiche, assegnando contestualmente la funzione interpretativa ai giuristi e non ai teologi ““Et sic ab ingenuis iurisconsultis hæc iurisdictio omnis asseritur principibus aduersum ecclesiasticos. Age, et iurisconsultis interpretationem huius iuris vindicemus nos a theologis”). Tutto ciò, però, non determina l’assoluta inapplicabilità delle disposizioni conservate nel Corpus iuris canonici. Infatti, malgrado quasi al termine del I Libro del De nuptiis, il giurista sanginesino inveisca reiteratamente contro il diritto canonico, definendolo uno ius brutum et barbarum, contestualmente auspicando che, sull’esempio di Lutero, tutti i libri che lo racchiudono vengano dati alle fiamme (“Flammis, flammis libros spurcissimos barbarorum, non solum impiissimos Antichristi. Flammis omnes, flammis: vt Lutherus magnus facere docuit bonos omnes, ipse in medio foro flammis delens eos omnes libros …”), si deve sottolineare come, allo stesso tempo, poche righe dopo, a chiusura del suo testo, egli sostenga che, talvolta, occorre necessariamente ricorrere anche a quel diritto tant’è che, proprio per le questioni inerenti al matrimonio, lui stesso lo prenderà in considerazione.
Anche al Corpus iuris canonici, e alla dottrina che lo aveva studiato, occorreva perciò fare ricorso – e i rinvii al diritto canonico da parte di Gentili nei sei libri successivi lo attestano (“Verum, et posito hoc iustissimo, et fortissimo affectu, videamus iam, etiam et examinemus quæstiones matrimoniales ad ius istud quoque) – non solo perché testimone di un deposito sapienziale plurisecolare, come nel caso del Decretum Gratiani, o in ragione dei destinatari delle epistole decretali («quod magna ex parte scriptum est ad Anglos meos»), ma anche perché le disposizioni trasmesse dai testi canonistici risultavano talvolta ancorate a principii di diritto divino e naturale o ad essi non avverso. Da quei principii, conservati anche nelle fonti canoniche, né il Sovrano nello svolgimento della sua attività legislativa, né il giurista nella sua funzione interpretativa, avrebbero potuto mai prescindere: “Sane in spurcissimis vasculis edulia non meliora comperiemus: quæ iussu item iustioris principis sunt abiicienda. vt sic obtinet ius istud in caussis hic, si legi Dei, et naturæ aduersarium non deprehenditur”.
Foro della coscienza e foro esterno nel pensiero di Gentili
La disputatio che il Gentili andava conducendo, anche con toni marcatamente graffianti, non poteva però considerarsi conclusa. Infatti, se da un lato il giurista di San Ginesio aveva precisato il suo punto di vista delineando la funzione del civilian quale interprete del diritto, dall’altro non poteva ignorare che i teologi continuavano a reclamare a gran voce una propria specifica competenza ad intervenire sulle tematiche di cui si occupava. Dopo aver precisato la funzione ed il metodo dell’interpres iuris occorreva ora approfondire il tema che lo vedeva contrapposto agli ambienti teologici in relazione allo studio e all’interpretazione dei testi della Sacra Scrittura. Nel redigere il I Libro del De nuptiis – testo nel quale Alberico riutilizza, approfondendo il suo pensiero, quanto nel quindicennio precedente aveva più volte sostenuto nelle sue opere e nella corrispondenza con John Rainolds – il regius professor di civil law si esprime compiutamente anche intorno ai rapporti fra giuristi e teologi. Interloquendo nuovamente con il teologo puritano, senza peraltro mai citarne espressamente il nome, egli giunge ad affermare la competenza del legislatore laico e del giurista circa le fattispecie ricadenti nella secunda tabula del Decalogo: testo che, com’è noto, contemplava fra i comportamenti riprovati un reato, come quello di adulterio, direttamente connesso all’istituto del matrimonio.
Secondo Alberico, infatti, i teologi riterrebbero di essere esclusivamente competenti circa la violazione dei precetti contenuti nella secunda tabula del Decalogo, sul presupposto erroneo di essere gli unici interpreti della Sacra Scrittura, mentre al giurista resterebbe riservato unicamente l’esame della compilazione di Giustiniano: testo che, per il fatto di ammettere il concubinato, dimostrerebbe la sua non aderenza al dettato della Scrittura e la conseguente incompetenza del giurista ad affrontare le tematiche contenute nella seconda parte delle Tavole della Legge. L’erroneità di questa posizione è dimostrata, secondo Alberico da due fattori. Se da un lato si può correttamente ritenere che anche il giurista debba utilizzare il dettato dei Libri sacri, dall’altro non si può negare che la legislazione giustinianea, come è stato dimostrato dalla secolare opera degli interpreti, possa contenere disposizioni ormai superate, e che pertanto, il suo dettato debba essere talvolta disapplicato.
Vi sono però altre ed importanti ragioni che, secondo Alberico, contribuiscono a determinare la competenza del giurista sulla secunda tabula del Decalogo: lo si desume da una lunga argomentazione dialettica, relativa ai rapporti fra diritto e teologia ed ai rispettivi ambiti di intervento, esposta ancora una volta nel De nuptiis, sotto il titolo Distinguuntur ius diuinum et humanum. Si tratta di un’esposizione sulla quale occorre spendere qualche considerazione. Emerge, infatti, una profonda conoscenza dell’intellettuale di San Ginesio di metodologie e concetti che, nei Dialogi del 1582, egli avrebbe forse ritenuto di scarsa utilità per il giurista. Concetti che aveva già utilizzato, nei primi mesi del 1594, nella corrispondenza col Rainolds, e che qui riprende ed approfondisce. Le sue idee, infatti, in ragione della pubblicazione parziale della corrispondenza intercorsa con il teologo puritano (si ricordi che, da parte di quest’ultimo, erano state pubblicate nel 1599 le prime quattro lettere, dal 7 luglio al 5 agosto 1593), erano rimaste racchiuse nel segreto: occorreva pertanto renderle finalmente pubbliche.
Il sanginesino muove dal presupposto che diritto e teologia si distinguono ratione subiecti e ratione finis, indipendentemente dal fatto se debbano essere considerate scientiae o artes. Infatti, mentre per la teologia il soggetto è Dio ed il fine è rappresentato dal diritto divino, per la giurisprudenza il soggetto è individuabile nell’uomo e nelle sue azioni ed il fine non può che essere individuato nel diritto umano. Ordunque, poiché il diritto umano è racchiuso nella secunda tabula, spetterebbe al giureconsulto occuparsi del soggetto (l’uomo e le sue azioni) e del fine (ius humanum) che vi è compreso. La premessa dalla quale Alberico aveva preso le mosse, e che abbiamo cercato qui brevemente di riassumere nei suoi contorni essenziali, potrebbe però risultare non del tutto vera. E proprio questo convincimento, evidentemente dettato da un metodo dialettico ormai acquisito, induce Alberico ad individuare le ragioni che potrebbero confutarne la validità. Si potrebbe ipoteticamente affermare, e contrario, anche sulla base del ragionamento sin qui svolto, che il giureconsulto ha una competenza esclusiva su ogni materia giuridica: ne conseguirebbe che oggetto delle sue indagini dovrebbe essere, oltre al ius humanum, anche il ius divinum che, pur essendo emanazione diretta di Dio, contiene comunque regole di condotta.
La differenza fra diritto e teologia – due discipline che, secondo Alberico, devono continuare, comunque, ad esser tenute distinte – non va ricercata ratione subiecti e ratione finis, ma avendo riguardo alle causae efficientes et extrariae, vale a dire agli elementi produttori ed esterni determinanti ogni fenomeno. La competenza del giurista e del teologo va individuata tenendo presenti i soggetti, fra i quali si instaura un rapporto. Se ne deduce che, mentre per la prima parte del Decalogo, relativa ai rapporti fra Dio e l’uomo, è competente il teologo, la seconda, che inerisce alle relazioni fra gli uomini, non può che essere oggetto di intervento da parte del giurista. La chiusura del capitolo VIII del I Libro del De nuptiis è, a tal proposito, illuminante: “Sic itaque in coniunctionem hominis cum homine incumbit iurisconsultus, in coniunctionem hominis cum Deo theologus”.
Ma, oltre a ciò, è soprattutto la dicotomia tra foro della coscienza e foro esterno, una separazione che, per il Gentili, assume contorni assai netti e marcati, che delimita gli ambiti di intervento del teologo e del giurista. Lo si desume da un altro passo che Alberico pone a chiusura del cap. XII “De lege ultima secundae tabulae”. Alla luce dei convincimenti espressi nel I Libro del De nuptiis, il silete theologi in munere alieno del De iure belli (I.XII) e l’analoga affermazione Sileant theologi: nec alienam temnant temere disciplinam, non possono essere intese, quindi, come un’aprioristica ingiunzione ai teologi di non occuparsi dell’uomo e delle sue azioni, ma come espressioni che tentano di definirne il ruolo comparandolo con quello dei giuristi i quali, peraltro, non possono ignorare quanto, da secoli, la teologia ha apportato alla storia della civiltà. Ai primi, sommi interpreti della Sacra Scrittura, compete la comprensione dei precetti divini regolatori delle azioni dell’uomo col fine esclusivo di illuminarne la coscienza; ai giuristi resta il compito di “definire explicate quid in quaque quaestione est iuris”.
Conclusione
Si tratta di alcune novità che debbono indurci ad approfondire ulteriormente e senza i condizionamenti derivanti da semplificazioni storiografiche, il cammino compiuto dal giurista di San Ginesio, continuando ad esaminarne le opere, alcune delle quali, da troppo tempo, risultano colpevolmente trascurate, e a proseguire nella ricerca soprattutto tra le carte manoscritte ancor oggi conservate a Oxford. La figura del Gentili, del suo percorso metodologico e scientifico, va quindi riconsiderata per cavarla fuori dal novero esclusivo dei pedissequi seguaci del mos italicus iura docendi o dalla schiera dei precursori di Ugo Grozio. Gentili è un uomo pienamente partecipe delle vicende del suo tempo: un tempo nel quale si è conclusa l’unità della Res publica christianorum dell’Europa che, anzi, viene attraversata costantemente da violentissimi conflitti religiosi; un tempo nel quale, in tutto il Continente, va contestualmente affermandosi lo Stato moderno, mentre le due somme potestà universali non hanno più la plenitudo potestatis che ne aveva caratterizzato l’agire sin dall’età medievale, perché ormai non viene più loro riconosciuta una sostanziale universalis iurisdictio; un tempo nel quale occorre individuare nuove vie per la civile convivenza fra i popoli, senza peraltro dimenticare il deposito millenario di sapienza prevalentemente giuridica, ma non solo, che generazioni di interpreti hanno trasmesso. Ed è in questo humus politico e culturale che si inserisce pienamente la vicenda umana ed intellettuale del giurista di San Ginesio. Esule per motivi di religione, figlio di una cultura giuridica strettamente legata ad un prestigiosissimo passato, egli deve ora confrontarsi con una realtà politica europea profondamente mutata. La severa critica dell’intolleranza per motivi di religione; l’individuazione di una linea di demarcazione fra lo spirituale e il temporale, tra fòro della coscienza e fòro esterno, e delle corrispondenti rispettive competenze del teologo e del giurista cui dedica numerosi passaggi delle sue opere; il ricorso, attraverso un continuo sforzo interpretativo, ai principii del diritto naturale inteso come complesso di regole di giustizia e di valori etico-sociali universali, fondati sulla razionalità umana (ius gentium), senza peraltro ignorare l’esistenza del diritto divino * diritti dai quali nemmeno il Sovrano potrà mai prescindere * costituiscono alcune delle basi teoriche sulle quali si inizia a costruire l’Europa moderna. E Gentili ne è pienamente partecipe da giurista totalmente immerso nelle vicende della storia, ed attento ai suoi continui e profondissimi mutamenti.
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Link
- Scheda su Alberico Gentili sul sito Symogih.org
Voci correlate
Article written by Giovanni Minnucci | Ereticopedia.org © 2024
et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]