Sangro, Raimondo di

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


Raimondo di Sangro principe di Sansevero (Torremaggiore, 30 gennaio 1710 – Napoli, 22 marzo 1771) è stato un filosofo, letterato, inventore e mecenate.

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Biografia

Giovinezza e formazione

Membro di una casata antica nonché di altissimo lignaggio – essa si gloriava di vantare ascendenze carolingie – Raimondo di Sangro nacque nella Capitanata, dove la famiglia paterna deteneva la parte più cospicua dei suoi possedimenti. L’ingente patrimonio, che comprendeva in particolare i feudi di Sansevero, Castelluccio (ora Castelnuovo), Casalvecchio e Dragonara e Castelfranco in Principato Utra nonché quote di entrate fiscali derivanti dalla dogana di Foggia, crebbe di prestigio e importanza nel corso del Cinquecento. L’imperatore Carlo V aveva infatti riconosciuto il titolo, poi ducale, sul feudo di Torremaggiore, in seguito Filippo II concesse il titolo di principe su Sansevero. La madre di Raimondo, Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona – figlia della principessa Aurora Sanseverino, donna colta e protettrice di artisti – morì pochi mesi dopo la sua nascita. Il padre, Antonio di Sangro duca di Torremaggiore, sarebbe stato costretto a lasciare l’Italia a più riprese e per lunghi periodi a causa dell’accusa di omicidio di un suo vassallo. Il giovane Raimondo fu così affidato alle cure del nonno paterno Paolo, sesto principe di Sansevero e cavaliere del Toson d’Oro, che aveva giurato fedeltà agli austriaci in occasione del loro insediamento a Napoli.
A solo un anno di età, Raimondo venne dunque trasferito nella capitale del nuovo Viceregno e dimorò nel palazzo familiare in largo San Domenico Maggiore. Trascorse la propria infanzia a Napoli, ricevendo una prima educazione incentrata sullo studio della letteratura, della geografia e delle arti cavalleresche. Secondo quanto riportato da Giangiuseppe Origlia nel suo Istoria dello Studio di Napoli (1754), le promettenti capacità di Raimondo indussero il nonno e il padre, rientrato da Vienna intorno al 1720, a inviare il giovane a Roma presso il prestigioso Collegio dei Gesuiti. Nel seminario romano il principe si dedicò incessantemente alla filosofia e alle lingue, nonché alle scienze naturali, alla chimica e all’idrostatica. In tale ambiente, intriso di enciclopedismo, egli ebbe modo di avvicinarsi alle opere di Athanaius Kircher, noto scienziato ed egittologo seicentesco. Nel 1726, a seguito della morte del nonno paterno e della conseguente rinuncia del padre, il sedicenne Raimondo ereditò titolo e patrimonio di una delle famiglie più influenti del Regno, su cui tuttavia gravava il peso dei debiti.
Una volta conclusi gli studi nel 1730, egli fece ritorno a Napoli. Nello stesso anno il duca Niccolò Gaetani dell’Aquila d’Aragona mise a punto gli ultimi preparativi per le nozze fra Raimondo e sua cugina Carlotta Gaetani dell’Aquila d’Aragona, discendente per parte di madre dalla famiglia fiamminga dei Merode e di conseguenza ereditiera di molti feudi nelle Fiandre. Il matrimonio venne celebrato a Torremaggiore nel dicembre del 1735. Per l’occasione Giambattista Vico, legato alla famiglia Gaetani, dedicò agli sposi un sonetto (Alta stirpe d’eroi, onde famoso) e Giovanni Battista Pergolesi musicò la prima parte di un preludio scenico su testo di Giuseppe Antonio Macrì, Il tempo felice. Durante i primi anni di rientro nel Regno, il principe si dedicò all’amministrazione dei propri feudi. L’arrivo dei Borbone a Napoli rappresentò un momento particolarmente delicato per la sua famiglia. In segno di prudenza, egli rimase nelle sue terre dopo aver ottenuto dal nuovo sovrano Carlo di Borbone la dispensa che lo esentava dal risiedere in città. Tuttavia, nel giro di pochi anni Raimondo riuscì a conquistare la fiducia regia. Egli fu nominato gentiluomo di camera e colonnello del reggimento provinciale di Capitanata mentre la moglie dama di corte, onorificenze queste ultime che suggellarono il pieno riallineamento politico nonché l’integrazione della sua famiglia nella corte dei Borbone. Allo stesso tempo, Raimondo si dedicò alle sue prime invenzioni. Nel 1739 realizzò una pionieristica macchina idraulica e un archibugio in grado di sparare sia a polvere che ad aria compressa, che donò al sovrano.

L’adesione alla massoneria e lo scandalo della Lettera apologetica

Gli anni Quaranta del XVIII secolo costituirono per Raimondo un periodo denso di successi, che accrebbero la sua fama in patria e all’estero. Il principe si distinse in primo luogo per valore e destrezza nella vittoriosa battaglia di Velletri contro gli austriaci (1744). La sua esperienza nel campo militare gli fornì molti spunti per la redazione della sua opera Pratica più agevole, e più utile di Esercizj militari per l’Infanteria (1747), che venne particolarmente apprezzata da Luigi XV di Francia e da Federico II di Prussia. Già nel 1743, dopo intensi contatti con il mondo delle accademie intrapresi alla fine degli anni Trenta, egli fu eletto all’Accademia della Crusca insieme a Ferdinando Carlo Capponi. L’anno successivo Raimondo ottenne dal pontefice Benedetto XIV l’agognata autorizzazione a leggere i libri proibiti, dedicandosi in particolar modo allo studio degli scritti dei philosophes francesi e degli illuministi radicali, ai testi massonici nonché ai trattati scientifici. Al contempo egli continuò a stupire i suoi contemporanei con nuove sperimentazioni: dai misteriosi farmaci in grado di operare guarigioni inaspettate alla progettazione di macchine tipografiche capaci di stampare figure e caratteri policromi con una sola pressione di torchio. Allo stesso tempo il principe promosse i lavori di rifacimento della Cappella Sansevero, che sarebbero proseguiti fino alla sua scomparsa. Raimondo divenne inoltre il gran maestro delle quattro logge massoniche attive a Napoli tra il 1744 e il 1751. L'adesione alla massoneria era strettamente correlata alla sua poliedrica personalità e alla sua concezione esoterica della conoscenza, nonché al desiderio di aprirsi a quelle nuove idee che arricchivano il panorama culturale dell’Illuminismo europeo. Su sollecitazione della Curia napoletana, Benedetto XIV emanò il 28 maggio 1751 la bolla Providas Romanorum Pontificium, nella quale venne ribadita l’esplicita condanna della Chiesa nei confronti della massoneria. Nel mese di luglio dello stesso anno, Carlo di Borbone provvide con un editto alla messa al bando delle logge. Raimondo tentò un’accorata difesa delle proprie ragioni in un’Epistola rivolta al pontefice, all’interno della quale ribadì la fedeltà di tutti i massoni rivolta al papa così come al sovrano. L’appartenenza alla massoneria apriva, secondo le parole del principe, un canale di dialogo tra «nobili e giureconsulti» da cui trarre un «grandissimo benefizio della patria».
Nel mirino delle alte sfere ecclesiastiche napoletane finì infine la sua opera principale, la Lettera apologetica, contenente la difesa del libro intitolato Lettere d’una Peruana per rispetto alla supposizione de’ Quipu, data alle stampe con l’anno 1750. La Lettera apologetica si presenta come una riflessione sulla storia dell’umanità, in cui viene auspicato l’avvento di una società guidata dalla concordia fra nobili e togati. All’interno del testo si fondono disquisizioni di storia sacra, conosciuta attraverso la tradizione erudita seicentesca, considerazioni di storia patria – nelle quali viene riconosciuto all’aristocrazia cittadina il ruolo di soggetto propulsore della vita politica del Regno – e ricerche di filosofia morale, influenzate dalla tradizione inglese che faceva capo a intellettuali quali John Toland e Jonathan Swift. La citazione di un notevole numero di autori eterodossi nonché i risvolti culturali ed etici della stessa, intrisi di tolleranza e di cosmopolitismo, furono sufficienti ai detrattori del principe per giudicare la sua opera come una «sentina di tutte le eresie».
Suo principale avversario fu il padre gesuita Innocenzo Molinari, ai cui attacchi Raimondo rispose con una memoria difensiva presentata al sovrano nel novembre del 1752. Attraverso tale lettera egli tentò invano di difendere il proprio onore dalle accuse del religioso, reo di essersi ingiustamente scagliato contro «quella mia povera Lettera Apologetica, scritta per un semplice divertimento, la quale fu da me scrupolosamente sottoposta alla rivisione delle due potestà, Ecclesiastica e Secolare, e dall’una e dall’altra solennemente approvata; ed essendosi non so par qual fine arrogato il diritto d’entrare nella ricerca delle mie idee, cosa che solamente à riservata a quel Dio, il quale è l’unico investigatore de’ cuori, l’ha tutta da capo a fondo interpretata per una cabala; e quindi a suo piacere con termini all’ultimo segno ingiuriosi ha preteso di farmi pubblicamente comparire per un uomo il quale non creda in Dio, e che approvi l’indifferenza di qualunque religione». Tuttavia, già nel febbraio dello stesso anno la sua opera venne messa al bando dalla Congregazione dell’Indice dei Libri Proibiti con la seguente motivazione: «Ardentemente avido di fama e gloria fatua, nella prefazione della sua Lettera Apologetica mostra di essere trascinato da tale ambizione, da considerarsi quasi autore di una qualche nuova dottrina […] È cultore ed estimatore diligentissimo degli scrittori eretici, soprattutto di quelli che presso gli Inglesi introducono la libertà e l’indifferenza religiosa».

Gli ultimi anni e la nascita del mito

A seguito della delusione scaturita dall’intransigenza di Benedetto XIV – che non dispose la rimozione della Lettera Apologetica dall’Indice, nonostante una supplica a lui rivolta nel 1753 – Raimondo dedicò gran parte della sua rimanente esistenza alle sue invenzioni, presentate nel suo palazzo di largo San Domenico Maggiore a un pubblico sempre più numeroso di studiosi e viaggiatori del Gran Tour. Fra queste, gettarono parecchio stupore e sconcerto le celeberrime “macchine anatomiche” che conservava nel suo Appartamento della Fenice. Allo stesso tempo, intensificò le sue relazioni epistolari con gli intellettuali più illustri del suo tempo, da Antonio Genovesi a Fortunato Bartolomeo de Felice; da Giovanni Lami a Lorenzo Ganganelli (il futuro papa Clemente XIV) al fisico Jean-Antoine Nollet e al geografo Charles Marie de la Condamine. A seguito della partenza di Carlo di Borbone per la Spagna (1759), Raimondo dovette fronteggiare l’avversione di Bernardo Tanucci, che sospettava di lui sia per i suoi trascorsi massonici sia per la sua condotta eccentrica e la sua eterodossia.
Fino al 1771, anno della morte dovuta probabilmente a una malattia provocata dalle sue “chimiche preparazioni”, egli accolse nella sua residenza napoletana e nella Cappella Sansevero un consistente numero di artisti e maestranze, promuovendo una forma di mecenatismo generosa quanto estremamente esigente, specie nella descrizione delle opere da eseguire per suo conto. Per la realizzazione del complesso progetto iconografico della Cappella Sansevero, il principe chiamò rispettivamente al ruolo di sovrintendenti dei lavori Antonio Corradini (1668–1752), Francesco Queirolo (1704 – 1762) e Francesco Celebrano (1729–1814), sostituitosi a quest’ultimo a seguito di una irreparabile lite con Raimondo. Lo scultore partenopeo Giuseppe Sanmartino (1720 – 1793), che per il principe realizzò il Cristo velato, finì per legare la sua fama alla sua straordinaria opera. Intorno alla figura di Raimondo di Sangro maturò un vero e proprio mito, che lo accompagnò in vita così come in morte. Il suo ingegno e la sua cultura gli vennero infatti riconosciuti sia dagli amici più fidati che dai più agguerriti detrattori. Infine, il desiderio stesso di suscitare stupore e ammirazione attraverso le sue invenzioni e i suoi ambiziosi progetti artistici fece di lui uno dei simboli più emblematici di quel dinamismo culturale che ha caratterizzato il secolo dei lumi napoletano ed europeo.

Fonti e bibliografia

  • Anonimo, Breve nota di quel che si vede in casa del Principe di Sansevero, 1766-1767.
  • Archivio di Stato di Napoli, Segreteria degli Affari Ecclesiastici, b. 706. La trascrizione completa della memoria difensiva di Raimondo di Sangro è presente in Leen Spruit, Raimondo di Sangro. Supplica a Benedetto XIV, Alòs Edizioni, Napoli 2006, pp. 123-126.
  • Elvira Chiosi, Lo spirito del secolo. Politica e religione a Napoli nell’età dell’Illuminismo, Giannini, Napoli 1992.
  • Rosanna Cioffi, La Cappella Sansevero. Arte barocca e ideologia massonica, Edizioni 10/17, Salerno 1994.
  • Benedetto Croce, Aneddoti di varia letteratura, vol. 2, Laterza, Bari 1954, pp. 164-178.
  • Benedetto Croce, Storie e leggende napoletane, Laterza, Bari 1919.
  • Elia Del Curatolo, Tra inquisizione e massoneria nella Napoli del ‘700. La “Lettera apologetica” del principe di Sansevero, in “Clio”, 18, 1982, pp. 35-56.
  • Vincenzo Ferrone, I profeti dell’Illuminismo. Le metamorfosi della ragione nel tardo Settecento italiano, Laterza, Roma-Bari 2000.
  • Giuseppe Giarrizzo, Massoneria e Illuminismo nell’Europa del Settecento, Marsilio, Venezia 1994.
  • Girolamo Imbruglia, Sangro, Raimondo di, in DBI, vol. 90 (2017).
  • Angelo Massafra, Note sulla geografia feudale della Capitanata in età moderna, in Saverio Russo (a cura di), La Capitanata in età moderna. Ricerche, Grenzi, Foggia 2004, pp. 17-47.
  • Eduardo Nappi, Dai numeri la verità. Nuovi documenti sulla famiglia, i palazzi e la Cappella di San Severo, Alòs Edizioni, Napoli 2010.
  • Giangiuseppe Origlia, Istoria dello Studio di Napoli, 1754.
  • Anna Maria Rao, La Massoneria nel Regno di Napoli, in Gian Mario Cazzaniga (a cura di), Storia d’Italia. Annali 21. La Massoneria, Einaudi, Torino 2006, pp. 513-542.
  • Lina Sansone Vagni, Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, Bastogi, Foggia 1992.

Sitografia

Article written by Martina Gargiulo | Ereticopedia.org © 2020

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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