Galilei, Galileo

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


Galileo Galilei (Pisa, 15 febbraio 1564 – Arcetri, 8 gennaio 1642) è stato uno scienziato, matematico, filosofo e letterato sottoposto a processo da parte dell'Inquisizione romana.

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Cenni biografici

Figlio di Vincenzo Galilei e Giulia Ammannati, nato a Pisa, si trasferì con la famiglia a Firenze nel 1574. Studiò medicina a Pisa dal 1580 al 1585, ma senza laurearsi. Appassionatosi precocemente alla fisica, già nel 1583 formulò la teoria dell'isocronismo del pendolo. Nel 1586 inventò la bilancia idrostatica. Importanti in questo periodo di formazione, durante il quale egli si nutrì di di letture di autori come Euclide e Archimede, furono l'insegnamento di Ostilio Ricci, membro dell'Accademia fiorentina del Disegno, e la frequentazione (a Roma, nel 1587) di Cristoforo Clavio e dell'ambiente del Collegio Romano.
Nel 1589 ottenne la cattedra di matematica all'Università di Pisa, dove insegnò fino al 1592, studiando in particolare il moto dei corpi in caduta e scrivendo il De motu.
Perso il padre nel 1591 e assunta quindi la guida della famiglia, chiamato dal Senato della Repubblica di Venezia, dal 1592 al 1611 insegnò matematica a Padova. Durante il periodo padovano conobbe (nel 1599) la veneziana Marina Gamba, che gli diede due figlie femmine e un maschio (Maria Celeste, Arcangela e Vincenzo jr.). Svolse ricerche di meccanica, inventò il termoscopio (1606), compì importanti osservazioni astronomiche, utilizzando il telescopio. Nel Sidereus nuncius (1610) annunciò la sua scoperta dei quattro satelliti di Giove da lui denominati Europa, Io, Ganimede e Callisto.
Nel 1611 il principe romano Federico Cesi lo chiamò a far parte dell'Accademia dei Lincei. Il 5 giugno 1610 Galileo era stato nominato «Matematico primario dello Studio di Pisa e Filosofo del Ser.mo Gran Duca senz'obbligo di leggere e di risiedere né nello Studio né nella città di Pisa, et con lo stipendio di mille scudi l'anno, moneta fiorentina», cosa che gli permise di lasciare l'Università di Padova e dedicarsi interamente agli studi.
Fu proprio durante il soggiorno padovano che Galilei fece proprie le teorie copernicane: già nel 1597, scrivendo a Keplero, si dichiarava copernicano da tempo. Ammonito dal cardinal Bellarmino sin dal 1609, Galileo proseguì gli studi, pubblicò nel 1618 Il Discorso sulle comete e nel 1623 Il Saggiatore, mentre già lavorava alla stesura del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, stampato a Firenze nel febbraio 1632, che gli costò la convocazione da parte del Sant'Uffizio (tra l'altro il suo protettore Cesi era morto nel 1630) e la condanna del giugno 1633.
Incarcerato, fu quindi confinato a Siena e infine nella sua abitazione di Arcetri, dove morì l'8 gennaio 1642. Negli ultimi anni, prima di ammalarsi gravemente sul finire degli anni trenta, lavorò ai Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica e ai moti locali, trattato in forma dialogica pubblicato a Leida nel 1638.

Le accuse di eresia e il processo inquisitoriale

La denuncia del 1604

Il primo documento riguardante Galileo Galilei di cui sia restata traccia negli archivi risale al 1604: il 21 aprile, Silvestro Pagnoni, copista che aveva lavorato in casa del matematico per diciotto mesi, lo denuncia all’Inquisizione di Padova accusandolo di avere praticato l’astrologia giudiziaria e di non frequentare i sacramenti. Pagnoni pare istigato dalla madre di Galileo, secondo la quale il figlio, dai costumi libertini, avrebbe già avuto problemi con l’Inquisizione a Firenze. Di questa notizia non si ha conferma in altre fonti. Considerando «leggierissime et di nessuno momento» le accuse1, le autorità della Serenissima decidono di bloccare l’istruzione del processo, del quale non si ha riscontro nell’archivio romano dell’Inquisizione.
La denuncia del 1604, come tante conservate negli archivi dell’Inquisizione romana, illustra aspetti classici del funzionamento di questa istituzione giudiziaria all’inizio del Seicento. Da un lato, l’uso strumentale che si può fare del Sacro Tribunale per risolvere conflitti personali: benché Pagnoni affermi di essere stato mandato a denunciare Galileo dal confessore non è da escludere un’inimicizia con il suo passato principale dovuta a debiti o al licenziamento. Dall’altro, una tensione di fondo fra i religiosi, fautori dell’Inquisizione come strumento di disciplinamento, che si oppongono alla pratica dell’astrologia giudiziaria proibita nel 1586 da Sisto V, e le autorità politiche veneziane, che intendono preservare uno spazio di autonomia intellettuale e personale
per i professori dell’Università di Padova, importante strumento di formazione delle élites locali e di prestigio internazionale della Serenissima. Di fatto, redigere oroscopi fa parte dei compiti del titolare della cattedra di Matematica, posto che Galileo occupa con successo dal 1592.

Il coinvolgimento nel processo contro Cesare Cremonini del 1611

Altrettanto classica appare, nel maggio 1611, la decisione dei cardinali inquisitori di far verificare se negli atti del processo istruito contro Cesare Cremonini, filosofo primario dell’Università di Padova, figuri il nome di Galileo: dato che il matematico si trova a Roma, l’Inquisizione può raccogliere una sua testimonianza riguardo alle imputazioni esistenti a carico del collega. La perdita dell’incartamento giudiziario di Cremonini non permette di sapere se Galileo fu effettivamente interrogato nell’ambito di un processo che era stato aperto da una denuncia del 1604, precedente di pochi giorni quella del matematico, trasmessa a Roma nonostante la decisione contraria del governo veneziano, e che durerà fino alla morte del filosofo, nel 1632, senza che l’Inquisizione fosse riuscita a raccogliere le prove della sua adesione alla dottrina della mortalità dell’anima.
Il processo Cremonini manifesta lo scontro intellettuale che oppone i professori secolari delle università, che difendono un aristotelismo radicale e l’indipendenza della loro disciplina, e i teologi, generalmente membri di Ordini religiosi, che difendono l’aristotelismo cristianizzato della scolastica e usano l’Inquisizione per difendere la propria egemonia intellettuale, rinforzata nel corso della seconda metà del Cinquecento. Il fondamento giuridico dell’intervento degli inquisitori è rappresentato dal decreto Apostolici regiminis del Concilio Laterano V (1513) che applica le pene degli eretici a coloro che sostengono la mortalità dell’anima, come pure ai fautori di ogni altra dottrina filosofica contraria alla fede.

L'adesione esplicita al copernicanesimo

Dopo le scoperte astronomiche realizzate nel 1609-1610 grazie al telescopio, Galileo afferma in modo via via più esplicito la realtà del sistema del mondo copernicano. Egli si situa così nel campo dei matematici che, già dal Cinquecento, hanno infranto la tradizionale gerarchia dei saperi e rifiutato la subordinazione della loro disciplina alla filosofia naturale, estendendo la propria competenza allo studio dei fenomeni fisici. Nell’ambito dell’astronomia, ciò significa abbandonare la distinzione classica fra il compito del filosofo, che studia la natura effettiva dei fenomeni celesti, e quello del matematico, che si limita a prevedere le posizioni future degli astri utilizzando delle ipotesi di calcolo astronomico fittizie, prive di realtà fisica. Nel contesto del mondo intellettuale italiano di allora, la scelta epistemologica di Galileo si apre a un doppio fronte: al risentimento dei filosofi aristotelici, che vedono così rimessi in questione non solo aspetti essenziali della cosmologia da loro insegnata, ma il loro stesso metodo scientifico, si aggiunge l’ostilità dei teologi scolastici che hanno fatto dell’aristotelismo cristianizzato un importante strumento di consolidamento della loro egemonia intellettuale.
La pubblicazione del Sidereus nuncius (Venezia 1610), unita a un’abile strategia di patronage, permettono a Galileo di ottenere, nel luglio dello stesso anno, la nomina a vita a matematico primario dello Studio di Pisa, senza obbligo d’insegnamento, unita alla funzione di matematico e filosofo del granduca di Toscana. Egli accede così a una posizione che, come mostra lo stesso titolo da lui scelto, gli permette di affermare la sua scelta epistemologica, abbandonando l’Università di Padova, roccaforte dell’aristotelismo secolare, in seno alla quale sarebbe stato difficile sostenere la nuova posizione. Rimane tuttavia il problema, che accompagnerà Galileo negli anni successivi, della legittimazione di una nuova concezione della scienza che si trova allora in una posizione estremamente minoritaria. Una conferma delle sue scoperte astronomiche, negate financo nella loro fattualità dagli aristotelici, fra i quali Cremonini, viene fin dal 1610 dal matematico dell’imperatore Johannes Kepler. Ma un momento ben più importante di legittimazione, data la situazione del mondo intellettuale italiano, è l’accoglienza riservata a Galileo dai matematici gesuiti del Collegio romano, guidati da Cristoforo Clavio (Christoph Klau), che in una seduta pubblica del maggio 1611 riconoscono la fondatezza delle novità celesti: la nuova astronomia fa così il suo ingresso solenne alla corte pontificia. Va tuttavia rilevato che ciò non equivale al riconoscimento della fondatezza dell’interpretazione eliocentrica che Galileo propone di tali fenomeni. Se l’ipotesi copernicana, nel senso di strumento tecnico per il calcolo astronomico, ha conosciuto una certa diffusione in Germania, e anche in Italia, pochissimi sono nel 1611 coloro che, come Kepler, sono passati ad affermarne la realtà cosmologica. In effetti, tale passo implica la distruzione di ampie parti della filosofia naturale aristotelica, fondamento comune del sapere, nonché della cosmologia sacra della scolastica cattolica e delle teologie protestanti. Gli stessi matematici gesuiti, pur essendo interlocutori privilegiati e preziosi per Galileo, del quale condividono aspetti importanti del metodo scientifico, non possono schierarsi apertamente in favore dell’eliocentrismo: la dinamica intellettuale interna alla Compagnia, che vede i matematici sorvegliati dai loro confratelli filosofi e teologi, impedisce loro di rinunciare apertamente al geocentrismo e li condurrà ad adottare il sistema cosmologico dell’astronomo Tycho Brahe che postula una rotazione dei pianeti attorno al sole, e di questo attorno alla terra. Tale sistema permette di rendere conto delle nuove osservazioni astronomiche, che non comportano alcuna prova ‘sensibile’ del moto della terra, senza operare quella rivoluzione della gerarchia dei saperi che non era in sé impensabile, come vedremo, ma che doveva suscitare ostilità allora strutturalmente insormontabili.

Scrittura vs. eliocentrismo: l'indagine contro Galileo del 1615-16

Di ciò si renderà ben presto conto Galileo che, tornato a Firenze, vede filosofi aristotelici e teologi brandire l’arma tremenda della Scrittura contro la sua affermazione dell’eliocentrismo, e questo perfino alla tavola granducale, minacciando di mettere in discussione lo status da lui acquisito. Il matematico decide allora di scendere personalmente in campo e affronta il problema della gerarchia dei saperi nella lettera al discepolo Benedetto Castelli, nel dicembre 1613, che circolerà in forma manoscritta e che, nella versione ampliata del 1615, indirizzata a Cristina di Lorena, sarà stampata a Strasburgo nel 1636. In questi testi, Galileo propone di interpretare i passi biblici che toccano la questione cosmologica applicando il principio d’accomodazione, già noto alla scolastica, secondo il quale la Scrittura ha un senso apparente adattato all’intendimento del volgo, ma anche un senso profondo, corrispondente alla realtà cosmologica, la cui conoscenza è affidata agli astronomi. Questa concezione combina elementi dell’ermeneutica biblica tradizionale, suggeriti a Galileo da ecclesiastici a lui favorevoli, con un radicale ribaltamento della gerarchia scolastica delle discipline che attribuisce al nuovo metodo scientifico un’autonomia essenziale e invita i teologi ad adattare la loro interpretazione della Bibbia alle nuove dottrine degli astronomi. L’audacia dell’operazione non sfugge al domenicano Niccolò Lorini che, nel febbraio 1615, manda una copia della lettera a Castelli al cardinale Paolo Emilio Sfondrati, membro delle Congregazioni dell’Indice e dell’Inquisizione. Nel marzo 1615, il confratello Tommaso Caccini, che si trova a Roma per tentare una carriera nelle istituzioni domenicane della capitale pontificia, denuncia il matematico al tribunale del Sant’Uffizio, affermando che la sua adesione all’eliocentrismo è notoria a Firenze e che si tratta di una dottrina contraria alla fede.
Per comprendere il senso della strategia messa in opera dai due domenicani occorre rilevare che non tutti i teologi implicati in queste vicende considerano, come Caccini, che il geocentrismo biblico appartiene alla fede. Ad esempio, l’inquisitore di Firenze non ha aperto un processo contro Galileo, non solo a causa di una probabile protezione granducale, ma anche perché non sembra
considerare l’eliocentrismo come possibile capo d’accusa. Anche un censore anonimo del Sant’Uffizio romano, letta l’epistola a Castelli mandata da Lorini, non trova reprensibile l’esegesi eliocentrica del celebre episodio di Giosué che propone Galileo, né il suo ribaltamento della gerarchia delle discipline, ma solo alcune espressioni improprie riguardanti l’assoluta verità della Bibbia, affermata del resto fin dall’esordio della lettera. L’espressione pubblica di questa posizione di prudente riserva, presente quindi anche in seno alla stessa istituzione inquisitoriale, viene data dal provinciale calabrese dei carmelitani, Paolo Antonio Foscarini, in una Lettera indirizzata al generale del suo Ordine (Napoli 1615), e in uno scritto latino che fa circolare a Roma mentre predica la quaresima su invito del cardinale inquisitore Giovanni Garzia Millini. Foscarini sostiene che la cosmologia biblica non fa parte della fede e che quindi non è necessario applicare ai passaggi geocentrici della Scrittura i criteri ermeneutici resi ufficiali al Concilio di Trento nel decreto del 1546, cioè l’obbligo di seguire l’interpretazione comune dei Padri della Chiesa e dei teologi, ma che è invece auspicabile reinterpretare la Bibbia in accordo con le nuove scoperte astronomiche. Questa pubblicazione interviene in un momento nel quale, nei primi mesi del 1615, gli amici romani di Galileo, ed in particolare il principe Federico Cesi – che lo ha accolto in seno all’Accademia dei Lincei nel 1611 e ha curato la stampa della Istoria e dimostrazioni intorno alle Macchie solari (Roma 1613) –, stanno sondando gli ambienti curiali per capire in che misura siano ammissibili le posizioni del matematico.
Nel contesto del dibattito pubblico sull’eliocentrismo in corso a Firenze e a Roma, il significato della denuncia di Caccini appare dunque chiaro: si tratta di obbligare il Sant’Uffizio ad aprire un processo per adesione a tale dottrina e quindi a pronunciarsi sulla questione di fondo, se cioè il geocentrismo biblico è materia di fede. Solo in questo caso, in effetti, è possibile applicare il dispositivo giudiziario previsto dal decreto Apostolici regiminis, infliggendo le pene degli eretici al filosofo – in questo caso al matematico – che sostiene tesi comologiche contrarie alla fede. In altri termini si tratta di strumentalizzare il tribunale supremo dell’Inquisizione, presieduto dal pontefice, per ottenere una decisione in favore del partito aristotelico-scolastico e riaffermare la gerarchia dei saperi messa in discussione da Galileo e Foscarini. Una prima presa di posizione ufficiosa viene dal cardinale gesuita Roberto Bellarmino, eminente autorità teologica nella Roma di Paolo V, che in una lettera dell’aprile 1615 risponde a Foscarini che il geocentrismo biblico è oggetto di fede, benché solo indirettamente, nella misura in cui la Scrittura, Parola infallibile di Dio, si esprime in questi termini: l’eliocentrismo è quindi virtualmente eretico e insostenibile. Se tuttavia si salvaguarda la tradizionale gerarchia dei saperi, secondo cui il matematico si limita a formulare ipotesi di calcolo astronomico senza attribuire loro una realtà effettiva, il copernicanesimo può essere senz’altro utilizzato.
A livello processuale la situazione resta in sospeso, dato che il tribunale romano deve attendere di disporre della prova, o almeno di indizi sostanziali, dell’adesione di Galileo alla dottrina eliocentrica. Le deposizioni dei due testimoni menzionati da Caccini, Fernando Ximénez et Giannozzo Attavanti, sono raccolte solo nel novembre 1615 e non sembrano sufficienti ai cardinali inquisitori che decidono di fare analizzare l’Istoria di Galileo sulle macchie solari. La fase informativa del processo parrebbe nuovamente arrestarsi, dato che tale opera, pubblicata con il permesso dell’autorità ecclesiastica romana, contiene certo un’affermazione implicita della realtà del sistema copernicano, ma non una formulazione di proposizioni sufficiente per essere sottoposta a censura teologica.
La situazione precipita nel febbraio 1616 e la conclusione dell’istruttoria diventa urgente, dato che Galileo, avuta conoscenza della propria denuncia, si è recato a Roma e fa campagna in favore della dottrina di Copernico, suscitando nuovamente discussioni pubbliche. Il 24 febbraio 1616, due proposizioni che riassumono il sistema del mondo eliocentrico, tratte dalla deposizione di Caccini, sono sottoposte al giudizio degli esperti in teologia del Sant’Uffizio romano che le qualificano come assurde secondo la filosofia e formalmente eretiche ed erronee in materia di fede, in quanto contrarie al testo biblico e all’interpretazione comune degli esegeti cattolici. In questo documento interno al tribunale, che non fu allora reso pubblico, i qualificatori hanno preso chiaramente posizione nel senso auspicato da Caccini: la censura di eresia applicata al copernicanesimo rischia non solo di comportare gravi conseguenze personali per i fautori di tale dottrina, ma anche di restringerne l’uso in quanto pura ipotesi di calcolo astronomico.
Il 25 febbraio i cardinali inquisitori, presieduti da Paolo V, si riuniscono in seduta segreta: il contenuto della decisione presa dal papa sarà espresso con precisione in un attestato rilasciato da Bellarmino a Galileo, il 26 maggio 1616, per provare che questi non ha abiurato ma che è solo stato informato della «dichiaratione fatta da Nostro Signore [scil. il papa] et publicata dalla Sacra Congregatione dell’Indice, nella quale si contiene che la dottrina attribuita al Copernico, che la terra si muova intorno al sole et che il sole stia nel centro del mondo senza muoversi da oriente ad occidente, sia contraria alle Sacre Scrit[tu]re, et però non si possa difendere né tenere»2. Il 1° marzo 1616 si riunisce la Congregazione dell’Indice, presieduta da Bellarmino, per definire la formulazione del decreto che pubblicherà la decisione pontificia. Il 3 marzo, durante la seduta del tribunale dell’Inquisizione, Paolo V approva il testo del decreto e ne ordina la pubblicazione. Durante la stessa seduta, Bellarmino annuncia che Galileo si è sottomesso all’ammonizione ricevuta di abbandonare la propria cosmologia eliocentrica, ciò che permette alla corte di sospendere l’istruzione della causa. Negli atti del processo è inoltre conservata la registrazione di un precetto imposto a Galileo dal commissario del Sant’Uffizio, il 26 febbraio 1616, che gli vieta in futuro di insegnare e di difendere, per iscritto o verbalmente, l’eliocentrismo.
Questo documento, che permetterà la riapertura del processo nel 1632, è steso dal notaio in forma di imbreviatura, ed è quindi autentico e utilizzabile in giudizio nonostante l’assenza delle firme dei testimoni. Tuttavia, il suo contenuto sembra essere in contraddizione con altri documenti del 1616, ciò che ha condotto diversi storici a sospettarne la falsificazione. Il problema non è ancora stato definitivamente risolto. Il 5 marzo, un decreto della Congregazione dell’Indice rende pubblica la decisione pontificia indicando che la dottrina copernicana è «falsa e interamente contraria alla Sacra scrittura»3. In applicazione di tale principio, la Lettera di Foscarini, che tenta di conciliare eliocentrismo e Scrittura, è proscritta definitivamente, mentre il trattato di astronomia De revolutionibus orbium coelestium di Copernico (Norimberga 1543) è messo all’Indice in attesa della sua espurgazione. Il decreto contiene anche una proibizione generale di tutte le opere che affermano la realtà dell’eliocentrismo. Le disposizioni relative alla correzione del trattato di Copernico saranno pubblicate nel 1620 e si limitano a trasformare in senso ipotetico, nell’accezione tecnica propria di questo termine, alcune espressioni del De revolutionibus che affermano apertamente il moto della terra.

Il tentativo fallito di legittimare l'eliocentrismo: il processo del 1632-33 e l'abiura

La strategia adottata dai domenicani Lorini e Caccini ha quindi avuto successo: la strumentalizzazione della censura teologica, e della stessa instituzione inquisitoriale, hanno permesso di produrre una nuova ortodossia geocentrica ufficiale, la cui funzione è non solo di difendere la cosmologia tradizionale ma, soprattutto, di salvaguardare la gerarchia dei saperi aristotelica e scolastica. Le ambizioni del matematico e filosofo granducale Galileo – il cui nome non è menzionato negli atti pubblici – sono state ridimensionate grazie a un ‘salutare’ avvertimento. Tuttavia, le resistenze prudenziali all’interno degli stessi organismi censori, e probabilmente una certa influenza dei matematici gesuiti, hanno condotto, sotto la regia di Bellarmino, a un compromesso che si esprime nella censura dell’eliocentrismo adottata dal decreto dell’Indice: certo la dottrina di Copernico appare come falsa e totalmente contraria alla Scrittura, ma la Sede Apostolica non si è espressa sulla questione di fondo, se cioè il geocentrismo biblico appartiene effettivamente alla fede.
È quanto fa rilevare a Galileo nel 1624, per il tramite del cardinale Friedrich Eutel von Hohenzollern (Zollern), papa Urbano VIII, secondo il quale la dottrina copernicana sarebbe stata proibita nel 1616 solo come temeraria, contraria cioè al consenso dei teologi, ma non come eretica, cioè opposta alla fede. Questa ‘apertura’, che sembrerebbe relativizzare il decreto del 1616, si inserisce nel contesto della «mirabil congiuntura» tanto celebrata dagli storici galileiani che caratterizza i primi anni del pontificato di Barberini: il papa accordava il suo favore agli accademici Lincei che, fra l’altro, hanno dedicato al nuovo pontefice Il Saggiatore
(Roma 1623) di Galileo, opera di feroce polemica con il matematico gesuita Orazio Grassi sull’interpretazione del fenomeno delle comete. Lo stesso Galileo aveva coltivato da anni una relazione di patronage con il cardinale Maffeo Barberini, sperando nel beneficio che poteva risultare dall’appoggio di un ecclesiastico altolocato – ora pontefice! – in cambio del prestigio culturale che risultava dal favore accordato pubblicamente a un celebre matematico. L’apertura dell’Archivio romano del Sant’Uffizio ha tuttavia confermato un altro aspetto dei primi anni del pontificato di Urbano VIII che documenti già noti permettevano di delineare: l’alta
coscienza che egli aveva di sé in quanto supremo inquisitore. Nell’ambito della filosofia naturale, tale atteggiamento si esprime nella riapertura del processo contro Cremonini, nel 1625, tramite una circolare mandata a tutti gli inquisitori domandando loro di raccogliere, nei rispettivi archivi, indizi a carico del filosofo. La posizione teorica del pontefice viene espressa in un’opera del suo consigliere teologico personale, Agostino Oreggi, proprio rievocando una conversazione fra il cardinale Barberini e Galileo: nel caso si presentasse una contraddizione in apparenza insolubile fra le affermazioni dei matematici, o dei filosofi, e quelle della Bibbia, non si ha da far altro che ricorrere all’argomento scolastico dell’onnipotenza divina, riconoscendo cioè che Dio, in virtù della sua infinita sapienza e onnipotenza, ha potuto fare il mondo in un modo che sfugge ancora ai dotti. In ogni caso non è legittimo sostenere tesi filosofiche contrarie alla Scrittura4. Appare così chiaro, sin dall’inizio, l’esiguo margine di manovra di cui dispone Galileo, nel maggio 1630, nel momento in cui consegna a Urbano VIII il manoscritto del Dialogo del flusso e reflusso del mare, per ottenere il permesso di stampa in vista della pubblicazione dell’opera a Roma. Con il suo capolavoro, il matematico mira a consolidare il proprio prestigio intellettuale sia presso la corte toscana – l’opera è dedicata al granduca –, facendo in tal modo fronte alle critiche contro il suo stipendio senza insegnamento, sia nella corte romana, avendo perduto l’appoggio dei matematici gesuiti in seguito alla polemica con Grassi. Ma l’operazione è assai delicata perché Galileo, giocando sul doppio significato della nozione di ipotesi, uno fittizio propriamente astronomico, e uno realistico legato ai procedimenti dimostrativi dell’aristotelismo, tenta di mostrare che il fenomeno delle maree si spiega solo con l’ipotesi del movimento della terra e che ne rappresenta quindi, virtualmente, la prova. Indirizzandosi direttamente a papa Barberini, Galileo tenta di sollecitare l’appoggio del pontefice-patrono per neutralizzare l’Inquisizione e il partito aristotelico-scolastico. Le condizioni imposte da Urbano VIII, tramite il maestro del Sacro Palazzo Niccolò Riccardi, in vista dell’ottenimento dell’imprimatur si riassumono nel non prendere in alcun modo posizione sulla questione della Bibbia, nel presentare l’eliocentrismo come ipotesi e nell’inserire nella conclusione dell’opera l’argomento dell’onnipotenza divina suggerito da Urbano VIII. La funzione di tale argomento è di permettere al cortigiano di fare sfoggio della sua arguzia intellettuale, presentando argomenti fisici in favore del moto della terra, ma vanificando poi d’un sol colpo, in nome dell’onnipotenza divina, le dimostrazioni proposte, e quindi le possibili obiezioni dei teologi scolastici. Tuttavia, questo atteggiamento è inammissibile per Galileo, per il quale il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (Firenze 1632) è il coronamente di una strategia di legittimazione dell’eliocentrismo e del suo nuovo modo di praticare la filosofia. Di fatto, il Dialogo contiene una sottile refutazione della posizione ‘scettica’ del pontefice e, nelle battute finali, l’insinuazione che la libertas philosophandi è voluta da Dio stesso5.
Venuto a conoscenza del contenuto dell’opera, Urbano VIII si sentirà raggirato e tradito dal protetto e gli farà pagare caro l’affronto, approfittanto della propria funzione di pontefice-inquisitore. Di fronte allo scomodo imprimatur, accordato indirettamente dal papa stesso, una ‘commissione speciale’, composta in realtà solo da Oreggi e Riccardi, ‘troverà’ nell’archivio la soluzione del problema: nel settembre del 1632, sulla base di un’infrazione presunta del precetto ricevuto da Galileo il 26 febbraio 1616, Urbano VIII riapre il processo, obbligando l’imputato a recarsi a Roma. L’istruzione è abilmente svolta nell’aprile-maggio 1633 dal nuovo commissario del Sant’Uffizio Vincenzo Maculani (Maculano), del quale il papa ha promosso da alcuni anni la carriera insieme di inquisitore e di architetto militare. L’orientamento da lui dato al processo permetterà di scagionare Riccardi, autore formale dell’imprimatur, e di provare – grazie alle perizie di Oreggi, Melchor Inchofer e Zaccaria Pasqualigo – il sospetto gravante su Galileo per adesione all’eliocentrismo. Il 16 giugno 1633 Urbano VIII può così pronunciare il verdetto di abiura per veemente sospetto di eresia, infliggendo a Galileo la pena della prigione di durata ad arbitrio del tribunale e la condanna del Dialogo, e minacciandolo della pena dei relapsi – il rogo – se avesse ancora una volta parlato dell’eliocentrismo, anche per refutarlo. Il 21 giugno, Maculani esamina l’intenzione del reo con semplice minaccia della tortura, in conformità con il verdetto – Galileo non fu quindi mai torturato –, e procede alla redazione della sentenza e del testo dell’abiura che, secondo la volontà del pontefice, dovevano essere portati a conoscenza di tutti i filosofi e matematici, affinché evitassero il delitto commesso da Galileo e la relativa condanna. Il 22 giugno i sette cardinali inquisitori presenti alla seduta firmano e promulgano la sentenza già scritta; Galileo vi pronuncia l’abiura, tornando poi a villa Medici, presso l’ambasciatore del granduca, nella quale aveva trascorso la maggior parte di questo suo ultimo soggiorno romano, senza mai essere rinchiuso nelle carceri del Sant’Uffizio.
Condannando Galileo all’abiura, e facendo conoscere l’esito della sua causa ai dotti in Italia e in Europa, Urbano VIII rinforzava la censura teologica applicata all’eliocentrismo, facendo del geocentrismo biblico un oggetto di fede: in effetti, secondo lo stile del Sant’Uffizio romano, solo le proposizioni formalmente o virtualmente eretiche potevano essere abiurate, ma non le temerarie. Nessuna discussione su questo punto ha avuto luogo in seno al tribunale inquisitoriale nel 1633; anzi, nel settembre 1632, il commissario Ippolito Maria Lanci considera «che questa questione non si dovesse terminare con l’autorità delle Sacre Lettere»6. Il commissario Maculani, che lo sostituisce in dicembre, utilizzerà la censura del 24 febbraio 1616, inserita integralmente nella sentenza, per legittimare il verdetto di abiura.
Ma toccherà al gesuita Inchofer, già consultato come esperto nel processo, di fornire la legittimazione pubblica dell’abiura di Galileo. Nel Tractatus syllepticus (Roma 1633), Inchofer espone gli argomenti teologici che permettono di affermare che il geocentrismo biblico appartiene virtualmente alla fede. Le disposizioni del decreto Apostolici regiminis si applicano, secondo il gesuita, anche all’eliocentrismo: i matematici che sostengono tale dottrina, senza fornire una refutazione degli argomenti avanzati, sono quindi passibili delle pene degli eretici. Benché Inchofer non menzioni mai Galileo esplicitamente, il Tractatus rappresenta una giustificazione ufficiosa della condanna: il frontespizio mostra chiaramente, nel contesto della Roma barocca, che l’opera è pubblicata come espressione del magistero geocentrico di papa Barberini, ed anche a nome della Compagnia di Gesù, la cui reputazione era stata lesa da nuovi attacchi di Galileo nel Dialogo, indirizzati in particolare all’antico rivale Christoph Scheiner. Condannando il matematico all’abiura, Urbano VIII aveva strumentalizzato il tribunale dell’Inquisizione, di cui era presidente, per fargli pagare duramente l’affronto. Sopravvissuto a Galileo di due anni, il pontefice si opporrà fino alla fine alla sua liberazione, ricordando a più riprese il delitto di cui si era macchiato. A livello dei princìpi, la decisione di Barberini di far conoscere universalmente la condanna di Galileo riaffermava ufficialmente la gerarchia delle discipline aristotelico-scolastica e, con essa, l’egemonia intellettuale dei religiosi-teologi nell’Italia della Controriforma. L’interpretazione del processo di Galileo qui proposta si fonda su una rilettura delle fonti alla luce di una conoscenza approfondita dello stile del Sant’Uffizio romano e della ricostruzione della dinamica dello spazio intellettuale italiano dell’inizio del Seicento permessa dai numerosi studi degli ultimi decenni. Si chiariscono così alcuni aspetti non sufficientemente elucidati da una abbondante storiografia ancora influenzata dal mito galileiano7 che, in modo più o meno esplicito, vede nel processo uno scontro fra la scienza moderna e la Chiesa cattolica, proiettando sul caso Galileo i grandi conflitti di idee dell’Otto-Novecento, legati alla laicizzazione progressiva delle società europee. Tale prospettiva apologetico-ideologica ispira anche il rapporto finale dei lavori della Commissione per lo studio della controversia tolomeocopernicana, istituita da Giovanni Paolo II nel 1981, presentato il 31 ottobre 1992 in occasione della seduta annuale della Pontifica Accademia delle Scienze. In esso, il cardinal Paul Poupard espone i limiti dell’epistemologia di Galileo, che dava per certo il movimento della terra senza averne la prova, ed anche quelli dei teologi del tempo, che non avevano saputo adeguare l’interpretazione della Scrittura. Il discorso conclusivo pronunciato da Giovanni Paolo II si situa in questa medesima ottica, senza porre in alcun modo la questione della responsabilità delle autorità ecclesiastiche, e inparticolare di Paolo V e Urbano VIII, benché i due pontefici, come si è visto, si siano personalmente impegnati nel celebre processo. Di una riabilitazione di Galileo, della quale hanno tanto parlato i mass media, non si trova alcuna traccia nei documenti ufficiali del 1992. Una storiografia rinnovata dell’affaire permette anche di comprendere l’assenza di fondamento della tesi interpretativa proposta da Pietro Redondi nel 1983 con grande successo, che postula un’‘eresia eucaristica’ di Galileo. Riassumendo schematicamente, l’abiura dell’eliocentrismo avrebbe evitato al filosofo una condanna ben più dura per adesione a una concezione ‘atomistica’ della materia, contraddicendo al dogma tridentino della transustanziazione dell’eucarestia. Tale tesi si fonda su una denuncia anonima e senza data, indirizzata alla Congregazione dell’Indice – e non al Sant’Uffizio come spesso si legge –, inoltrata da un lettore del Saggiatore che, avendo notata la concezione corpuscolarista del tatto e del gusto proposta da Galileo in una digressione, ne rileva la contraddizione con la concezione aristotelica degli accidenti reali, sulla quale si fonda la dottrina della transustanziazione promulgata ufficialmente al Concilio di Trento, nel 1551. Una breve perizia di mano di Inchofer, ritrovata dopo l’apertura dell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede (1998), critica anch’essa la filosofia corpuscolarista del ‘Linceo’, cioè di Galileo, e ne propone un esame da parte del Sant’Uffizio, dato che sembra che la fede sia stata così lesa. Di tale esame, tuttavia, non si ha finora alcuna traccia, né esterna, né interna al tribunale, ciò che invita a pensare che non ebbe mai luogo. Come interpretare dunque questi documenti?
Due ipotesi sono possibili incrociando vari indizi, in particolare quelli relativi alla presenza e all’attività romana di Inchofer, che invitano a due diverse datazioni. Secondo la prima ipotesi, la denuncia si situerebbe nel 1630 e sarebbe legata alle conversazioni sul corpuscolarismo che ebbe allora Galileo nei circoli romani. La denuncia rappresenterebbe quindi un tentativo di mettere in cattiva luce il matematico, promotore di una filosofia che distrugge l’aristotelismo, nel momento in cui egli tenta di ottenere l’imprimatur per il Dialogo. La difficoltà di tale ipotesi dipende dal fatto che accusare il corpuscolarismo del Saggiatore significa mettere in causa anche la posizione del domenicano Niccolò Riccardi che era stato l’assai favorevole revisore dell’opera. Ora Inchofer si trova a Roma nel 1630 per evitare una messa all’Indice di una sua opera, ed è con Riccardi, maestro del Sacro Palazzo dal 1629 e del quale diventerà amico, che trova la soluzione per rimettere in circolazione il proprio libro. Come spiegare, in questo contesto, il suo suggerimento di trasmettere il Saggiatore al Sant’Uffizio?
Tale difficoltà, peraltro non dirimente, inviterebbe a spostare la redazione dei due documenti dopo la morte di Riccardi (maggio 1639). Vi sono indizi, fra i quali una lezione del docente di Filosofia della Sapienza Giacomo Accarisi contro i denigratori d’Aristotele (Roma 1638), di dibatti romani sul corpuscolarismo. Inoltre, i Discorsi intorno a due nuove scienze di Galileo (Leyden 1638) arrivano a Roma nel gennaio 1639, ciò che fornirebbe il contesto del rinnovato interesse per il passaggio incriminato del Saggiatore. Questa ipotesi corrisponderebbe all’epoca di nomina di Inchofer a consultore dell’Indice (luglio 1640), come pure alla datazione del documento ‘G2’ – secondo una classificazione dei documenti dell’epoca – presentato alla Congregazione nel gennaio del 1642, e che precederebbe cronologicamente il ‘G3’, cioè la denuncia del corpuscolarismo di Galileo. Quest’ultima sarebbe forse rimasta senza seguito a causa della morte del matematico avvenuta proprio allora.
Per entrambi i documenti si tratta, come già nel caso dell’eliocentrismo, di un uso strumentale della censura teologica, del tentativo cioè di trasformare la concezione aristotelica degli accidenti reali in oggetto di fede, in virtù del decreto tridentino, e di provocare così un intervento dell’Inquisizione per opporsi alla diffusione di una nuova concezione della filosofia naturale. Il tentativo non ha successo negli anni Trenta, ma la situazione cambierà negli anni Sessanta del XVII secolo di fronte a numerosi tentativi di cristianizzare la filosofia ‘atomista’ e condurrà, fra l’altro, al processo dell’olivetano Andrea Pissini che – analogamente a Foscarini nel 1615 – ha pubblicato un’opera per mostrare la compatibilità del corpuscolarismo con la dottrina cristiana. Il processo terminerà il 2 dicembre 1676 con la ritrattazione di Pissini, diffusa a stampa secondo l’ordine del Sant’Uffizio, ma non con l’abiura: in effetti, gli esperti del tribunale e i cardinali inquisitori, dopo lunghe discussioni, non erano riusciti ad accordarsi sulla censura che meritava la dottrina, temeraria o eretica, e alcuni di loro ritenevano che si trattasse di una questione meramente filosofica. A differenza che per l’eliocentrismo, l’Inquisizione non produsse mai un’ortodossia ufficiale contraria all’atomismo – principale ragione dell’infondatezza della tesi dell’eresia eucaristica di Galileo.

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Voci correlate

Nota bene

Questa voce è la rielaborazione, con modifiche e aggiunte, di un testo originalmente pubblicato in Dizionario storico dell'Inquisizione, diretto da Adriano Prosperi in collaborazione con Vincenzo Lavenia e John Tedeschi, Edizioni della Normale, Pisa 2010, vol. 2, pp. 636-640.

Article written by Francesco Beretta | Ereticopedia.org © 2013

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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