Furbesco

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


Il furbesco o lingua zerga
di Antonello Fabio Caterino

Premessa

In queste sintetiche considerazioni sul furbesco bisogna in via preventiva smentire la leggenda del non legitur, o almeno della grande oscurità interpretativa. Per troppo tempo non ci si è accostati al testo furbesco perché considerato impossibile da interpretare alla luce di questo o di quell’altro vocabolarietto gergo-italiano (il Nuovo modo de intendere la lingua zerga, di cui si parlerà a breve, non è l’unico esperimento in questo senso). Armonizzando tutte le opere lessicografiche trattanti di furbesco a disposizione, però, può venire fuori un corpus linguistico di tutto rispetto, utilissimo alle nostre necessità. Il furbesco è la lingua dei furfanti vagabondi ed è più che logico che si ritrovino medesime forme in regioni d’Italia anche distanti. Così possono venirci in aiuto gli spogli ottocenteschi dei lessici specifici di certi mestieri ambulanti, di ambienti carcerari, di organizzazioni malavitose. Abbiamo a che fare con una lingua parassita sì, ma anche nomade. Si è provveduto a utilizzare dizionari che prendessero in considerazioni tali repertori, come l’ottimo lavoro di Ernesto Ferrero. Segnalo, inoltre, un magnifico – per quanto dilettantesco – progetto di Marco Bassi, volto ad armonizzare diversi dizionarietti gergali: cfr. il sito <http://www.ie7c.altervista.org/sito/gerghi/text.html>. E grazie alle armonizzazioni fornite dall’autore, intere sezioni del codice Campori sono oggi facilmente traducibili. In questa edizione dunque, a cappello del testo furbesco, cercherò di fornire un’adeguata traduzione.

Definizione

Il furbesco, o lingua zerga, è nota come la lingua dei vagabondi, di quella piccola criminalità eterogenea che si sposta di città in città campando di truffe, furti ed espedienti vari. È una tipica lingua parassita, che funziona attraverso meccanismi di sostituzione lessicale su un impianto sintattico-grammaticale sostanzialmente identico alla lingua madre, l’antico italiano. Le nuove parole sono formate attraverso meccanismi di prefissazione o suffissazione, prestiti da altre lingue, sostituzione per semplice somiglianza fonetica, per metafora più o meno criptata etc. Le sostituzioni hanno il compito di rendere criptato il messaggio, rendendo il contenuto degli scritti segreto e limitato ai soli fruitori.
Si legga – a tal proposito – l’ottima sintesi di Jonathan Shiff, a partire dagli studi di Franca Ageno e dell’Ascoli:

Lingua zerga is the term used to designate the particular gergo or argot spoken by the low-life in the Veneto of the sixteenth century. (It was alsow known as “furbesco”). This is a code-language in which a zerga word is substituted for many of the Italian ones. The vast majority of the zerga words are familiar Italian or Venetian words which have been given new meanings. Sometimes the logic of the substitution is very clear (lantern for occhi, lustro for giorno, bruna for note); at other times the metaphoric connection can be seen, but one might not so easly have guessed the meaning of the cant term (pescatori for ladri, dannosa for lingua); in many cases the only connection between the two terms is one of sound (marchese for mese, cortesia and Siena for ); and sometimes it is difficult to see any relation at all between the two words (filare and spigare for avere paura, cere for mani).

Il furbesco entra nella letteratura con intento mimetico:

Le prime attestazioni di parlate gergali risalgono al XV secolo, anche se la presenza di parole isolate che sembrano indizio di idiomi segreti si riscontra già nei secoli precedenti: cosco «casa» è usato da Cecco Angiolieri (XIII sec.), calmone come antico nome di gergo si trova in Bonaventura da Imola, commentatore della Divina Commedia (XIV sec.). Sempre al calmone rimandano le prime battute gergali, scambiate in due sonetti (ante 1460), tra Giovanni Francesco Soardi e l’umanista Felice Feliciano. Segue la lettera in furbesco, scritta da Luigi Pulci a Lorenzo il Magnifico, presumibilmente intorno al 1466, ritenuta da alcuni esercizio giocoso-letterario, mentre per De Robertis, che ne ha curato l’edizione, è un vero e proprio «documento epistolare», la cui finalità era quella di occultare la partecipazione di fanciulle-meretrici (chiamate pesci) alle feste dei nobili fiorentini.

Si trasformerà in seguito in lingua di maniera – usata scherzosamente per connotare determinati personaggi – nella commedia del Cinquecento. Si pensi alla Cassaria di Ludovico Ariosto, in cui un ruffiano ed un servo comunicano in tale parlata.
Il destino del furbesco è ben schematizzato da Cortelazzo:

Il particolare gergo degli emarginati era uscito da tempo dal chiuso della convenzione dei malviventi, attirando l’attenzione, per la sua natura stravagante, ermetica pur nell’utilizzazione del materiale linguistico trito, pittoresca ed evocativa, degli uomini di penna: dalla prima annotazione di un commentatore di Dante […] è un susseguirsi di testimonianze, a dire il vero piuttosto episodiche e limitate, che purtuttavia gettano alcuni fiochi fasci di luce sul movimento sotterraneo di una lingua, o meglio, di un manipolo di vocaboli segreti, che, tolti dalla zona d’ombra del loro abituale impiego, vengono consapevolmente adoperati da disinvolti scrittori, o per far mostra di capacità rare ed ambigue, o per scoperta dichiarazione di furfanteria, come avviene nel Morgante XVIII, 122 […].

Con Antonio Brocardo, poeta veneto della prima metà del Cinquecento, si torna ad una dimensione strettamente lirica. La sua opera – in tal senso – è un punto fondamentale nella storia del furbesco letterario: la composizione di testi totalmente in gergo, per di più coperti dall’anonimato.

Il Nuovo modo de intendere la lingua zerga: un dizionario per il furbesco letterario

Alla fine di una epistola diretta alla sua amata Marietta Mirtilla, Antonio Brocardo le promette un’operetta d’ausilio alla comprensione di testi furbeschi:

Dio voglia pur che mi possa condurre, a me che faccio profession di fede e di fede la più inviolabile che fosse mai in uomo, mandare a dire che io son un traditore: è per un poco di libro, che non vi ho mai dato, il quale non vi ho mandato per mandarlo ordinato per alfabeto, acciò possiate in due ore imparare il tutto e per far forse davanti qualche cosa pur in quella lingua, che sia in vostra loda

Che quella lingua sia il furbesco è dimostrato dalla conclusione stessa della missiva:

Sono fatte le vacazioni nello studio et io fornirò il libro e lo vi manderò, tanto più con ordine e meglio scritto quanto più vorrò mostrarvi che non è fede pari alla mia, non restando perciò di esservi quel inimico che io vi sono, dannosa rubuina, che se mi rifondo un lustra alla bolla della lenza, ve la martinerò co i merli, che non potrete più amarezar contra di Simon. Se contrapontizate in amaro col carnifico, che farete co i gaii di vostrise? Gli devete ammartinare e carpirla perpetua del fusto con quelle cerette fratenghe, le quali con le seste alla calcosa morfisco di tutta perpetua. Volea tornare al nostra parlare, ma si come si dice che chi sta furfante tre dì soli mai più può lasciare quella vita, così chi comincia a scrivere nella loro lingua, da virtù forfantesca sforzato convien, se ben non volesse, finire in quella. Vostrodeno dunque rifonderà breviosa per breviosa, se sbasirete così per lo carnifico, come il carnifico per vostrise, del quale vi potrà poi dannezzar losmo rifonditor di questa. Vostrise rifonda morsa e morsa per nome del carnifico a losma della bolla de i tuferi carnifico, e mazo mio fratemgo e a tutti gaii di vostrodeno. Rifond stanga al turlante e vi morfisco tutta de chielma a calchi: Della Bolla del caro, alli XVI lustri del XXX. lustro chielma de i CCCIXVI lustri MDXXXI.
Di vostrise maza sant’alta. Antonio Brocardo carnifico e falconissimo con cera comprante viole.

Si consideri poi il seguente stralcio di epistola, scritta da Alessandro Zanco a Pietro Aretino in data 4 aprile 1531:

La lingua furfantesca è ora in colmo, e non se ne ragiona d’altro. Il Broccardo ha fatto un capitolo in questa lingua; et un sonetto nella tosca, sopra la Brenta. Com’io l’abbia, il mandarò a V. S., alla qual mi raccomando et a M. Leonardo.

L’Aretino, dal canto suo, non doveva essere entusiasta della notizia ricevuta dal suo corrispondente (che – già da una prima lettura – appare pervasa da una certa ironia). Era risaputo, infatti, che egli nutrisse dubbi e perplessità sul furbesco, nonostante ne conoscesse indubbiamente il funzionamento.
Attraverso uno studio incrociato delle fonti epistolari e similitudini compositive, Franca Ageno arriva ad individuare l’opera, di cui si parla nella lettera a Mirtilla, nell’anonimo e fortunatissimo libello Nuovo modo de intendere la lingua Zerga, la cui prima edizione a noi nota risale al 1545 (libro che – oltre ad essere un dizionario furbesco-volgare e volgare-furbesco – contiene dei testi gergali introduttivi, tra cui proprio un capitolo).
Anche altrove Brocardo già attinga a piene mani dal lessico furbesco – in testi direttamente ascritti o a lui attribuibili interni ai mss. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, It. IX 300 (=6649) e Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, It. XI 66 (=6730) – come se il poeta e la sua cerchia utilizzassero spesso questo artificio (vedi infra).
Si legga, a questo punto, quanto afferma Enrico Borello sul paradigma linguistico del gergo nel secolo decimosesto, in funzione ai suoi fruitori:

Le prime manifestazioni di interesse per i gerghi, intesi come linguaggio dei vagabondi, si ebbero fra la fine del XV e la metà del XVI secolo ad opera di letterati che li assunsero per ampliare il vocabolario, per caratterizzare i personaggi, per servirsene in una comunicazione alternativa e scherzosa da usarsi in una cerchia di amici, e sottolineare così l’appartenenza ad un gruppo e contrapporsi a coloro che non conoscevano il gergo.

Ma tutto ciò non è che la punta dell’iceberg di una produzione che è con tutta probabilità assai più ampia ed articolata.

Il ms. Campori: un vero e proprio canzoniere in furbesco

Il ms. Modena, Biblioteca Estense, gamma X.2.5 (d’ora in poi Mo) è composto da una serie di testi poetici (stanze, capitoli e sonetti, caudati e non) in furbesco, frammisti di alcune tavole lessicografiche riguardanti possibili traduzioni italiano-gergo. Genericamente è databile all’interno del XVI secolo ma allo stato attuale dei lavori risulta praticamente impossibile una cronologia più precisa, che sarebbe stata non poco utile a questa analisi. Certamente però si può affermare che il codice rappresenta una grande, forse la principale, akmè lirica nell’uso di tale lingua (o codice linguistico, a seconda dello statuto attribuibile al gergo).
Bisogna, innanzitutto, precisare che il codice – anepigrafo – è stato attribuito ad Antonio Brocardo da Rodolfo Renier, che addirittura vede nel manoscritto un possibile autografo del poeta. In seguito è stato accostato al Nuovo modo de intendere la lingua Zerga (d’ora in poi G) poiché il codice e l’opera testimoniano più di un componimento comune (il numero varia dai cinque ai sei, a seconda della ristampa del libretto). L’opera è strutturata in maniera molto simile al manoscritto, con un’attenzione particolare al lessico (vocabolario italiano-gergo e gergo-italiano) e – di rimando – meno ai componimenti d’esempio.
Di G abbiamo a disposizione una scrupolosa edizione critica, che tiene conto delle decine di riedizioni di questo fortunatissimo libretto, e che contempla Mo tra i testimoni.
L’anno successivo all’uscita di quest’ultima edizione, Franca Ageno torna sulla questione, collegando il libello – ma non il codice – ad Antonio Brocardo, smentendo quindi le precedenti opinioni del Renier in fatto di autografia del manoscritto. È opinione della Ageno che il codice non possa essere filologicamente considerato fonte di G.
Il quadro finora offerto non è dunque molto chiaro, anche perché ad oggi nessuno è andato ad indagare a fondo sul codice, che è stato utilizzato solo come punto di partenza per i vari studi sul Nuovo modo o sul Brocardo in genere.
Franca Ageno asserisce che Mo non possa essere antigrafo di G, ma limita le sue analisi alla sezione lessicografica.
Si tenga a mente, però, che Mo è per struttura l’esatto opposto di G: se quest’ultimo è un vocabolario corredato di esempi di produzione poetica, quello è una raccolta poetica corredata da una lista – non troppo dettagliata – del lessico più frequente nel mondo del furbesco, con relativa traduzione. Mo potrebbe benissimo aver avuto bisogno di raccogliere un minimo repertorio solo per rendere più agibile la lettura della silloge di testi furbeschi, senza per questo volere a tutti i costi mettere in piedi un vero e proprio repertorio. Potrebbe addirittura avere attinto dalle prime edizioni di G, nella sua parte lessicografica, mentre per la parte poetica aver tenuto presente anche fonti di tutt’altro genere.
Veniamo, ora, ai testi. Purtroppo, ad oggi, il furbesco ha interessato gli studi più come lingua artificiale che come lingua letteraria, ergo si sono sempre presi in considerazione i vocabolari più dei testi, esaminati sempre e solo come esempi. Pensiamo, per dirne una, al lavoro della stessa Franca Ageno nei confronti della semantica del gergo, oppure al volume – in ogni caso pionieristico – che Pietro Camporesi dedica ai vagabondi e alla loro lingua.
Sicuramente chi scrive in furbesco ha poca voglia di firmarsi e non è certo un caso che tanto le numerosissime ristampe del libello, quanto il manoscritto siano anonimi. Appartiene al mondo dei furbi lasciare meno tracce possibili circa l’identità dello scrittore, tenuto conto dei contenuti poco ortodossi delle comunicazioni, che anche per questo hanno bisogno di essere criptate.
Si deve però tener pure conto di una strana circostanza: la presenza di due testi del codice diretti contro Pietro Aretino (con cui il Brocardo ebbe un’accesa querelle). I due componimenti potrebbero, data la somiglianza stilistica coi componimenti poetici traditi dal Nuovo modo, essere del Brocardo. Unendo questi indizi alla certa attribuzione dei componimenti del Nuovo Modo al Brocardo, traditi anche dal codice Campori, si può concludere: a) che nel codice ci sia materiale brocardiano, probabilmente non limitato ai testi traditi congiuntamente da G e Mo; b) che l’ambiente nel quale si sono sviluppati tali esperimenti furbeschi dovesse essere vicino a Brocardo e alla sua cerchia nonché avverso all’Aretino.
Il Campori nasce come raccolta poetica in lingua furbesca con accanto un rapido vocabolario utile soltanto a un primissimo orientamento nel codice linguistico. Dunque non può essere stato determinante per allestire un’opera principalmente lessicografica come il Nuovo modo. Pertanto il codice dovrà essere considerato principalmente per quello che è: una raccolta di testi.
Le diverse cancellature e riscritture nel manoscritto fanno pensare, per di più, che i testi siano stati profondamente interpolati e riadattati rispetto alla versione originale. Non è da escludere che in qualche caso il copista stesse mettendo per iscritto testi orali, molto vicini all’improvvisazione vera e propria.

L’uso “letterario” del Nuovo Modo

Conviene a questo punto spendere anche qualche parola sul titolo dell’opera. Nuovo modo de intendere la lingua zerga pare significare ‘una nuova possibilità di utilizzo della lingua dei vagabondi’, alludendo proprio alla poesia. Perché una poesia interamente gergale, fino a quel momento, non era mai stata concepita.
Il titolo sembra contestualizzare uno dei rari giudizi storici sull’uso della lingua furbesca: quello di Niccolò Villani, erudito del secolo diciasettesimo:

Talora si muove il riso con certi parlari oscuri e metaforici, che chiamano gerghi e di tali è piena la poesia del Burchiello e dei Burchielleschi poeti. E Michielangelo Angelico […] compose anch’egli alcune rime in questa maniera, la quale in parte è simile a quella de’ proverbi; se non che il gergo è più privato e men conosciuto. Talora ciò fassi con certe parole nuove di sentimento, e non di voce: il qual sentimento sia stato loro attribuito, non dall’uso comune ma da qualche autore particolare. E tale è quella lingua, che malavventurosamente dalle persone che la frequentano è chiamata furbesca, e di cui fu inventore un tal Broccardo, che poetò anche in essa leggiadramente e senza cruccio d’Apollo.

Dal Villani, Brocardo è dipinto e come un poeta capace (dunque produttivo: non autore di esperimenti isolati) in ambo le lingue, volgare e furbesco, e addirittura come l’inventore del furbesco stesso.
Renier – che riporta questo passo – corre immediatamente a smentire quest’ultima affermazione, sostenendo, a ragione, che nessuno ha inventato mai il gergo, e che si trattava di un fenomeno popolare spontaneo.
Non credo però che Villani volesse intendere inventore nel senso di ‘creatore della lingua’, ma piuttosto – poiché il suo discorso era imperniato sulla poesia – di ‘primo vero autore di poesia gergale’. E se è vero che in precedenza altri poeti attingono dal gergo, si può legittimamente congetturare che il Villani volesse far leva proprio su questo “nuovo modo di intendere” la poesia.
Prima di concludere, si vede necessaria un’ulteriore riflessione sulla diffusione della lingua zerga nonché del suo uso poetico nella Venezia in cui vive e opera il Brocardo.
È dimostrata la conoscenza del gergo da parte di Francesco Berni (amico del Brocardo e suo “alleato nelle polemiche), da lui stesso quasi confessata nel capitolo diretto agli Abati Cornari su cui si è avuto già modo di riflettere. La “moda” quasi ossessiva di cui parlava Alessandro Zanco all’Aretino deve aver colpito in pieno non solo Brocardo, ma anche tutta sua fazione.
A quanto pare l’intera famiglia Corner – mecenate di un vero e proprio circolo letterario, al cui interno era attivo lo stesso Brocardo – era nota per il suo gusto verso una certa letteratura per così dire popolareggiante e aperta a certe curiosità linguistiche.
Ricordiamo la vicinanza di Alvise Corner – gran mecenate ed erudito della Venezia al tempo del Brocardo – a Ruzzante, nonché le celebri Tre orationi di Ruzante recitate in lingua rustica a gli illustrissimi signori cardinali Cornari, & Pisani (Tre orationi di Ruzante recitate in lingua rustica alli illustriss. signori cardinali Cornari, et Pisani Con uno ragionamento et vno sprolico, insieme con vna lettera scritta allo Aluarotto per lo stesso Ruzzante, tutte opere ingegniose, argute, et di marauiglioso piacere, non più stampate. In Vinetia: appresso Stephano de Alessi in calle della Bissa, all'insegna del Caualletto, 1551 [In Venetia appresso Bartholomeo Cesano, 1551]).

Bibliografia

  • Franca Ageno, A proposito del “Nuovo modo de intendere la lingua zerga” in «Giornale storico della letteratura italiana», 135, 1958, pp. 221-337.
  • Franca Ageno, Ancora per la conoscenza del furbesco antico in «Studi di filologia italiana», 18, 1960, pp. 79-100.
  • Giovanni Aquilecchia, Pietro Aretino e la lingua zerga in Id., Schede di italianistica, Torino, Einaudi, 1976, pp. 153-169.
  • Pietro Aretino, Lettere scritte a Pietro Aretino, a cura di Paolo Procaccioli, Roma, Salerno, 2003, vol. I, p. 103.
  • Manlio Cortelazzo, Esperienze ed esperimenti plurilinguistici in Girolamo Arnaldi, Manlio Pastore Stocchi, Storia della cultura veneta, Vicenza, Neri Pozza, 1980, vol. 3,2, pp. 183-213.
  • Enrico Borello, Le parole dei mestieri. Gergo e comunicazione, Firenze, Alinea, 2001, p. 11.
  • Piero Camporesi, Il libro dei vagabondi, Torino, Einaudi, 1973.
  • Teresa Cappello, Saggio di un’edizione critica del “Nuovo modo de intendere la lingua zerga” in «Studi di filologia italiana», XV, 1957, pp. 368-376.
  • Laura Cerretini, Il gergo nella letteratura del Cinquecento: origini e nota storica, in A. Englebert, Vivacite et diversite de la variation linguistique. Travaux de la section Dialectologie, geolinguistique, sociolinguistique. Table ronde Atlas linguistique et variabilite, Tubingen, Niemeyer, 2000, pp. 117-122.
  • Ernesto Ferrero, Dizionario storico dei gerghi italiani. Dal Quattrocento a oggi, Milano, Mondadori, 1991.
  • Paolo Manuzio (a cura di), Lettere volgari di diuersi nobilissimi huomini, et eccellentissimi ingegni, scritte in diuerse materie, nuovamente ristampate et in più luoghi corrette, Venezia, Manuzio, 1546, vol. I, cc. 50r-51v.
  • Rodolfo Renier, Svaghi critici, Bari, Laterza, 1910.
  • Jonathan Shiff, Lingua zerga in the Grimani Banquet Plays in «Italica», vol. 66, No. 4 (Winter, 1989), pp. 399-411.
  • Paolo Trovato, Storia della lingua italiana: il primo Cinquecento, Padova, libreriauniversitaria.it, 2012, pp. 365-366.
  • Maria Teresa Vigolo, Gergo in «Enciclopedia dell’italiano», 2010.

Article written by Antonello Fabio Caterino | Ereticopedia.org © 2017

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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