Fascinazione – Jettatura

Dizionario storico delle scienze naturali a Napoli dal Rinascimento all’Illuminismo


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Fascinazione/Jettatura. In due modi, dice Francis Bacon, l’occhio può affascinare, cioè agire a distanza: con l’invidia e con l’amore (Sermones fideles, 1644). Questa duplice articolazione è presente sin dall’inizio nella teoria del fascino, a partire dal De radiis di al-Kindī (IX secolo) e dal De anima di Avicenna (X-XI secolo). La teoria del fascino si trova spesso all’interno di una concezione magica del mondo; talvolta si presenta come una teoria medica del contagio; presuppone sempre una teoria dell’occhio, dello spirito e dell’immaginazione. La sua storia arriva fino al Settecento, quando si ripresenta, negli ambienti illuministici napoletani, come un’ideologia della jettatura. Nella Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura del giurista Nicola Valletta (1787) confluisce una nobile e antica tradizione filosofica, evidente nella varietà e ricchezza dei riferimenti bibliografici. Quel termine popolare napoletano non è altro che la divulgazione del fascino, dottamente teorizzato e difeso da uomini come Marsilio Ficino, Pietro Pomponazzi, Michel de Montaigne, Giovan Battista Della Porta, Francis Bacon. Valletta, avvocato e professore di diritto, allievo di Giuseppe Pasquale Cirillo - che era autore, a sua volta, di una commedia intitolata I malocchi - e di Antonio Genovesi, aveva anche un altro motivo per prendere sul serio la propria opera: godette infatti di una solida fama di jettatore.

La teoria dell’oculus fascinans nel Medioevo e nella prima età moderna

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L'oculus fascinans agisce sulla realtà, invece di limitarsi a conoscerla: questo aspetto della facoltà visiva, solitamente trascurato dagli studiosi di ottica e dagli storici della scienza, era invece tutt’altro che marginale nella tradizione medievale della perspectiva, incentrata sulla teoria delle species intese sia come raggi, sia come virtù attive, capaci di produrre la generazione e la corruzione dei corpi. Al-Kindī, Alhazen e il suo contemporaneo Avicenna si pongono alle origini sia della lunga tradizione ottico-gnoseologica della perspectiva, o teoria della visione diretta, sia dell’altrettanto lungo dibattito sul fascino, o oculus malus – espressione che si applica, secondo Bacon, sia all’amore, sia all’invidia: quella tradizione e quel dibattito arrivano fino al Settecento, si fondano sulle stesse opere (il De radiis di al-Kindī, il De aspectibus o Perspectiva di Alhazen, il De anima di Avicenna) e muovono da un identico principio, secondo il quale tutto ciò che esiste nel mondo elementale emette raggi in ogni direzione, come una stella. Da questo principio, al-Kindī e Avicenna derivano una teoria magica dell’actio in distans e dell’immaginazione transitiva; Alhazen ne ricava invece la dottrina ottico-geometrica della “piramide radiosa” che ha la base nell’oggetto visto e il vertice nel centro dell’occhio. Le diverse teorie hanno in comune il riconoscimento alla vista di un primato che è, insieme, gnoseologico e operativo (perché dall’occhio escono i raggi salutari o perniciosi, veicoli di amore o di odio), e l’assioma secondo il quale l’azione più forte è esercitata dai raggi che vanno “dal centro della stella al centro della terra”, ovvero da quel raggio centrale che è l’asse della piramide ottica, il quale attraversa l’oggetto, le tuniche e gli umori dell’occhio, garantendo, da un punto di vista gnoseologico, l’oggettività assoluta, e da un punto di vista pratico un’azione massimamente efficace.
Nel De occulta philosophia (1533), Cornelio Agrippa così definisce la fascinazione: “Fascinatio est ligatio, quae ex spiritu fascinantis per oculos fascinati ad cor ipsius ingressa pervenit”: nella lunga e complessa storia del duplice fascino – d’amore e d’odio – le teorie ottiche svolgono il ruolo di punto di raccordo tra molte diverse tradizioni: quella fisiologica degli spiriti, quella magica dell’azione a distanza, quella gnoseologica degli effluvi.
Nel Convivio, Dante fornisce un’originale spiegazione ottica dell’assioma: “amor, ch’a nullo amato amar perdona”, pronunciato da Francesca da Rimini, amante appassionata e sfortunata, nel canto V dell’Inferno. L’asse ottico, che coincide con l’altezza della “piramide radiosa” di Alhazen, continua nel nervo ottico, pieno di spiriti visivi di provenienza cerebrale: da questo allineamento e dalla continuità degli sguardi deriva la reciprocità della passione amorosa. La poesia stilnovista insiste soprattutto sull’aspetto fisio-psicologico dell’amore, che si basa su un complesso gioco di spiriti: “Pegli occhi fere un spirito sottile/che fa ‘n la mente spirito destare,/dal qual si move spirito d’amare,/ch’ogn’altro spiritello fa gentile”. Non a caso, Guido Cavalcanti “filosofo” è considerato da Marsilio Ficino colui che ha esposto in versi le teorie del Simposio platonico. Quella degli spiriti era una teoria fisiologica e medica indiscussa, al tempo di Dante: lo spirito è un intermediario universale, lo strumento attraverso il quale l’anima compie tutte le sue funzioni corporee, è un “vehiculum virtutis”: sia dell’anima dell’uomo, che si serve dello spirito per agire sulla materia corporea, sia dell’anima del mondo, che attraverso lo spirito comunica la vita al macrocosmo e alle sue parti.
Più precisamente, nell’uomo lo spirito è lo strumento di cui l’immaginazione si serve per agire sul corpo, il mezzo materiale di una facoltà dell’anima, e consiste in un “corpus tenuissimum, quasi non corpus, et quasi iam anima”, ovvero “quasi non anima et quasi iam corpus”, secondo la celebre definizione ficiniana: è una materia affine alla luce, “un certo vapore sottilissimo e lucidissimo, generato per il caldo del cuore dalla più sottil parte del sangue”. Lo spirito del mondo, attraverso i raggi delle stelle, agisce sullo spirito dell’uomo e, quindi, sulla sua immaginazione — che, essendo una facoltà inferiore dell’anima, è suscettibile di ricevere le influenze astrali.
Lo spirito saetta i suoi raggi attraverso gli occhi, “come per finestre di vetro” (Ficino, Sopra lo amore): sia perché gli occhi sono posti in alto, così che ad essi arrivano più facilmente gli spiriti leggeri dai luoghi cerebrali dell’immaginazione; sia perché sono “trasparenti e nitidi” come gli specchi, e quindi particolarmente adatti a ricevere gli spiriti lucenti; sia perché posseggono qualche lume anche in proprio, come dimostrano alcuni animali e uomini (imperatori come Ottaviano e Tiberio, ad esempio) dotati di visione notturna. Ma se la fantasia è “malefica”, l’occhio indurrà disgrazie, malattie, infermità – lebbra e pestilenza, rogna, prurito e mal di petto, oltre, naturalmente, alle infiammazioni degli occhi — e persino la morte nei malcapitati su cui si poserà lo sguardo. Sono luoghi comuni quattro-cinquecenteschi, di origine pliniana, quelli secondo i quali gli occhi che hanno maggiori poteri in amore sono “grandi, azzurri e splendidi”; gli occhi degli jettatori sarebbero, invece, dotati di pupille doppie, o effigiate di immagini equine.
Marsilio Ficino collega il fascino alla melanconia: non solo quello d’invidia, ma anche quello d’amore. I nati sotto il maligno influsso di Saturno, infatti, sono massimamente capaci di quel “pensiero fisso, e profondo” che sta alla base sia della passione amorosa, sia dell’odio. I malinconici sono dotati di una forte immaginazione, l’unica che possa produrre ciò che immagina, in base all’assioma, reso celebre da Montaigne: “fortis imaginatio generat casum”. Pertanto, è consigliabile fornire loro continue occupazioni e innocui piaceri, come il vino, il cibo e il sesso, affinché siano distratti e si astengano dall’invidere. Le donne, soprattutto, secondo Paracelso, non si devono trascurare o lasciare troppo sole, ma si devono tenere sempre allegre e in compagnia, perché sono inclini alla malinconia, in quanto fornite di un’immaginazione più potente e viva, rispetto agli uomini. L’immaginazione, infatti, “prende corpo dal loro mestruo”; ogni mese ribolle in loro “sangue melanconico”, i cui vapori perniciosi escono dai meati corporei: bocca, narici, vagina.
Le cose non cambiano se si considera il fascino un’operazione diabolica, invece che un’azione naturale: anche in questo caso, i più esposti alle arti del maligno sono le donne e i malinconici, perché i demoni si mescolano volentieri e facilmente all’umore melanconico, e suscitano amore e odio, imprimendo nella fantasia specie dilettevoli o sgradevoli.
Gli spiriti agiscono sia come raggi, sia come vapori, o esalazioni: Ficino afferma che “il raggio si distende insino a colui che guarda: e insieme col raggio, il vapore del sangue corrotto corre: per la contagione del quale, l’occhio di chi vede, inferma”. Da passi come questo, risulta evidente che Ficino, al pari di Giovan Battista Della Porta e, in pieno Settecento, di Ludovico Antonio Muratori e dei teorici napoletani della jettatura, usa indifferentemente l’uno o l’altro termine, né ritiene problematico il rapporto dei raggi emessi dagli occhi con i vapori dispersi dai corpi nell’aria. Ma, tra gli uni e gli altri, c’è la stessa importante differenza che passa tra la teoria magica dell’immaginazione transitiva, che agisce a distanza, e la teoria dell’immaginazione che agisce esclusivamente per contatto, attraverso effluvi materiali. Nel primo caso, l’immaginazione può agire anche su corpi lontani e diversi dal proprio; nel secondo caso, tale facoltà produce i propri effetti esclusivamente sul corpo di colui che immagina, o su corpi molto vicini. Tra i seguaci della prima, e più radicale, teoria, che risale ad al-Kindī e ad Avicenna, ci sono medici e maghi come Agrippa, Paracelso, Johann Baptist van Helmont e, in pieno Seicento, Robert Fludd, ma anche il teorico delle species, Roger Bacon, e sir Kenelm Digby, scienziato, atomista e amico di Galilei e Descartes.
La teoria dell’immaginazione che agisce esclusivamente per contatto – e quindi prevalentemente sul corpo cui l’anima è unita – è sostenuta da autori che negano l’esistenza del fascino, oppure (che è quasi la stessa cosa) considerano il fascino un’operazione esclusivamente diabolica. Ad esempio, Leonardo Vairo, un teologo beneventano del XVI secolo, toglie all’immaginazione anche la facoltà di agire sul proprio corpo, perché le immagini hanno un mero carattere ostensivo e rappresentativo, né possono agire sulla materia; altrimenti, non ci sarebbero né malati, né poveri, né ignoranti.
S. Tommaso, Pietro Pomponazzi, Girolamo Fracastoro, Michel de Montaigne, Giulio Cesare Vanini, Tommaso Campanella e i medici Daniel Sennert e Johann Christian Frommann attribuiscono all’alterazione degli spiriti (vapori saturi di bontà o di malizia, secondo Pomponazzi) prodotta dall’immaginazione la capacità di influenzare, oltre al proprio corpo, l’aria circostante, purché ciò avvenga entro un raggio d’azione limitato: così si spiega, ad esempio, il fatto, già noto ad Aristotele, che le donne mestruate, con il loro sguardo, possano far appannare gli specchi. Alla metà del Settecento, Muratori considera definitivamente acquisito, grazie a “filosofi, teologi e medici”, che “la fantasia nostra non può alterare il corpo altrui”, ma solo il proprio.
La teoria degli spiriti come vapores, e la dottrina dell’immaginazione che agisce solo per contatto sono usate, di solito, come prove contro l’esistenza del fascino: ma l’argomento decisivo è l’adesione a un modello di visione aristotelico invece che platonico, basato non sull’estromissione dei raggi, ma sull’intromissione delle species. Il dibattito tra i sostenitori dell’ipotesi emissionista (Euclide, Tolomeo, Galeno, Erone Alessandrino, Hunain, al-Kindī) e quelli della teoria immissionista (Alhazen, Avicenna, al-Ghāzāli, Witelo, Roger Bacon, John Peckham) è molto vivace nel Medioevo, e continua nella prima età moderna. La teoria emissionista, introdotta da Euclide nell’Optica, piace soprattutto ai matematici, e si intreccia con la dottrina dell’oculus fascinans a partire da al-Kindī. Nel IV secolo, l’autore anonimo della premessa all’Optica di Euclide (forse, Teone Alessandrino) porta, come prova a favore della teoria emissionista, lo sguardo mortale del basilisco.
D’altra parte, i critici della teoria emissionista rifiutano la fascinatio oculis e, spesso, anche la magia: secondo Vairo, ad esempio, l’occhio non affascina, ma si limita ad accogliere species che, attraverso il mezzo diafano e i nervi ottici colmi di spirito visivo, arrivano ai sensi interni cerebrali: “videre est pati quoddam”, come insegna Aristotele, e la cognitio oculis spetta alla filosofia. L’amore non è un incantesimo di sguardi, ma un accoglimento di species nell’occhio e poi nell’immaginazione; quanto alle vecchie o agli uomini “tristi e macilenti”, cioè melanconici, non sono da considerarsi jettatori: le prime, soprattutto, hanno la cornea rugosa a causa dell’età, quindi, lungi dall’affascinare, a stento ci vedono. Il teologo gesuita Martin Del Rio e Frommann sono dello stesso avviso: l’occhio non emette raggi, ma species, non diversamente dagli oggetti, e da tutte le altre parti del corpo: se l’amore dipendesse unicamente dai raggi scoccati dagli occhi, sarebbe sempre reciproco.
La fascinatio filosofica, o fisica - diversamente da quella volgare, o poetica, e da quella magica, che deriva da un patto, espresso o tacito, tra il mago o la strega e il demonio – è un’infezione naturale, come la peste. Juan Lazaro Gutiérrez, medico e professore, suggerisce di abbandonare la parola fascino, per sostituirla con il termine medico contagio.

La teoria della jettatura nel Settecento napoletano

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La fortuna della teoria dell’oculus malus negli ambienti illuministici napoletani può apparire un problema storiografico o un fenomeno antropologico e folclorico. Benedetto Croce considera la teorizzazione settecentesca della jettatura un divertissement letterario prodotto da persone rispettabili come il giurista Nicola Valletta e il medico Gian Leonardo Marugi, che fu autore, oltre che dei Capricci sulla jettatura (1788), di un manuale lockiano-scolastico, il Corso di studi sull’uomo (1795). Croce ha dalla sua le dichiarazioni degli autori suddetti, che effettivamente presentano le loro opere come scherzi, bizzarrie, nugae.
Ernesto de Martino, Gabriele De Rosa e Vincenzo Ferrone concordano invece sul presupposto di prendere sul serio la jettatura: per il resto, le loro interpretazioni differiscono fortemente. De Martino è convinto che la presentazione scherzosa delle loro dottrine, da parte di Valletta e Marugi, sia solo una finzione letteraria, che permette di difendere un’ideologia nella quale si crede ancora. Quell’ideologia appare a de Martino “un singolare compromesso pratico tra magia e razionalità”; “non rappresenta per nulla una scelta ‘impegnata’ e ‘seria’ a favore dell’irrazionale”, ma dimostra una “mancata opzione a favore del razionale”, che differenzia nettamente l’illuminismo napoletano da quello anglo-francese.
Grazie a uomini come Della Porta, Giordano Bruno e Campanella, il pensiero meridionale ha dato un contribuito decisivo, nel Rinascimento, alla magia naturale, prendendo le distanze da quella cerimoniale; ma, nell’età dell’Illuminismo, “ha scarsamente partecipato alla esplicita presa di coscienza” dell’alternativa tra la magia e la razionalità. Se l’illuminismo napoletano ha permesso, al suo interno, quello “sviluppo secondario e minore” che è l’ideologia della jettatura, ci sono dei motivi storico-antropologici: innanzitutto, l’“esperienza di essere-agito-da”, che sta alla base dei fenomeni di fascinazione e di possessione, è particolarmente diffusa e frequente nel Regno di Napoli, caratterizzato da una storia “negativa”: la jettatura, come tutte le pratiche magico-religiose, serve dunque a proteggere l’uomo da un mondo in cui tutto “va di traverso”.
Gabriele De Rosa è d’accordo con de Martino: nel gran “corpo anchilosato” del Regno di Napoli, “ciò che accadeva all’uomo non si misurava con la logica né con il metro della civiltà dei filosofi. […] La natura non era un fatto obiettivo, esterno, calcolato con leggi fisiche e matematiche, ma portava i segni profondi dell’impronta divina”. La generale precarietà dell’esistenza induceva a rifugiarsi nella magia, e in quella “Chiesa magico-sensitiva”, le cui pratiche rituali costituivano altrettante forme di difesa dall’ignoto, rendendo possibile la “fuga da una realtà dura, senza sbocchi e risorse economiche”. A differenza di de Martino, De Rosa tende però ad attribuire unicamente alla capitale del Regno la colpa di tanta diffusa superstizione e irrazionalità: l’illuminismo napoletano non era “arretrato” rispetto a quello europeo, ma non aveva promosso la diffusione del cattolicesimo post-tridentino, ordinato e razionale, sul modello della “regolata divozione” muratoriana.
La “religione vissuta e popolare e quotidiana”, secondo De Rosa, non era propria solo delle classi subalterne, ma era, per così dire, trasversale alla società meridionale: lo stesso Valletta portava, a sostegno della jettatura, la credenza comune a tante persone “coltissime, ed erudite”, come “gravi togati, cavalieri di rango, avvocati, giurisperiti, medici valenti, matematici sublimi, acuti filosofi”, nonché la maggior parte del basso clero.
Vincenzo Ferrone è l’autore della disamina più ampia dell’ideologia della jettatura: contro de Martino, egli nega l’arretratezza dell’illuminismo napoletano rispetto a quello europeo; contro De Rosa, contesta la tesi del colpevole isolamento di Napoli dalle campagne e dalle zone più periferiche del Regno. Negli anni ’60 e ’70 del ‘700, a Napoli, prevale un “naturalismo vitalistico” che non è un sintomo di “arretratezza o disinformazione culturale”, ma è solo l’eredità di una diversa concezione della natura: quella vivente e animata di Della Porta, lontana sia dal linguaggio matematico galileiano, sia dal meccanicismo cartesiano. La teoria della jettatura è assimilata da Ferrone ad altre “scienze popolari”, “di matrice empirico-divinatoria”, fiorite nel tardo Settecento, come il mesmerismo e la metereologia, la fisiognomica e la rabdomanzia. L’illuminismo napoletano, quindi, non è incerto tra magia e razionalità, ma propone “strategie alternative nella lotta contro il magico”, scaturenti da un diverso modello di razionalità.
L’ideologia della jettatura fiorisce a Napoli dal 1787 agli anni ‘30 del secolo XIX, e ha in Nicola Valletta, Gian Leonardo Marugi e Antonino Schioppa i suoi più noti rappresentanti: non è una semplice curiosità antiquaria o un’anomalia dell’illuminismo, ma un’originale commistione di teorie eterogenee e persino contraddittorie, confluite in quell’erudizione, tipica della cultura retorico-umanistica meridionale, che ha probabilmente frenato una presa di posizione esplicita e univoca a favore della concezione scientifica del mondo. A ciò si aggiunga l’eredità vichiana, con l’importanza data alla “forza della fantasia”, e la circolazione, negli ambienti illuministici napoletani, del manuale del medico mesmerista Amédée Doppet (Traité théorique et pratique du magnétisme animal, Torino 1784).
La jettatura consiste, secondo Valletta, nel “gittarsi su di alcuno gli occhi attenti, ed immoti”: non rientra nel campo della magia, né bianca, né nera: è un sapere eminentemente storico-pratico, una storia naturale basata sulla raccolta dei casi, sullo sfondo di un “universo ripieno di verità indubitabili nel tempo stesso, ed incomprensibili”. Valletta racconta, ad esempio, di una sua figlioletta uccisa in fasce dallo sguardo “torvo, ed obliquo” di uno jettatore; Marugi parla di una vecchia arpia, sua dirimpettaia, che gli avrebbe procurato molti guai, se non fosse stato riparato dalla presenza di un’altra sua vicina, “amabilissima signora”. “In casa, nella piazza, nel foro, nella campagna”, ogni giorno pende su di noi, quale funestissima spada di Damocle, la jettatura; sarebbe una forma di “fanatismo” rifiutare quei fenomeni naturali che sfuggono ai nostri tentativi di comprensione, e di cui “la ragione risiede negli abissi della natura”. Tutta la scienza, d’altra parte, non è che “una dotta ignoranza”.
Ma, al di là delle loro dichiarazioni, i teorici settecenteschi della jettatura sono tutt’altro che rassegnati all’ignoramus et ignorabimus. Un importante indizio del fascino è, per Valletta, la diversa fisionomia degli uomini, che rende immediatamente riconoscibili gli jettatori. Possediamo, infatti, un istinto naturale, una voce interna che ci consiglia di fuggire certi individui: da questa “voce della natura […] deriva il consenso universale delle nazioni sulla jettatura”; una “scienza ragionata della jettatura” dovrebbe pertanto basarsi sulla “scienza fisionomica”, che è alla base anche della medicina, eppure, a torto, “passa per problematica, e dubbiosa”. Esiste, quindi, una tipologia fisica dello jettatore, uomo o donna, che Valletta si limita ad accennare, mentre Marugi la illustra nei dettagli: ciò che maggiormente colpisce è la sistematica violazione del principio di non contraddizione.
Gli jettatori sono “omaccioni”, oppure “macilenti e pallidi” (in quest’ultima tipologia, a quanto pare, rientrava lo stesso Valletta); gettano la jella le donne brutte e vecchie, baffute, pelose, di lunga bazza, “di vita corta, di piede lungo, e cispose”, oppure giovani e belle, ma con gli occhi “loschi”, le sopracciglia inarcate, i capelli scuri; gli uomini con gli occhi “infuocati” e malsani, oppure miopi; questi ultimi sono da temere sia perché probabilmente la loro vista si è indebolita a forza di jettare, sia perché gli occhiali amplificano il malocchio, visto che nel fuoco delle lenti i raggi acquistano maggior forza. Bisogna fuggire quanti indossano una parrucca, perché i capelli con i quali è fatta potrebbero essere appartenuti a uno jettatore; chi parla poco, senza guardare in faccia l’interlocutore, e chi parla troppo, ridendo e gesticolando; chi non ha mai pianto (come i maghi, che erano tutti jettatori) e chi loda spesso gli altri; i frati, le cui tonache e barbe possono facilmente assorbire vapori nocivi; più in generale, occorre evitare chiunque induca turbamento.
Il fascino si spiega con gli effluvi; la simpatia e l’antipatia sono riconducibili a differenti tensioni delle fibre nervose elastiche: quando i moti prodotti nei nervi dagli effluvi emessi da un oggetto o da un individuo sono “irregolari ed ineguali”, quell’oggetto o quell’individuo ci dispiacciono; quando quei movimenti sono, invece, “dolci, ed equabili”, gli oggetti o gli individui ci affascinano. Tra le fonti della teoria vallettiana della “jettatura d’influssi maligni” ci sono Plinio e Lucrezio, Ovidio e Bacone, Albrecht von Haller e Antonio Vallisnieri.
Nell’interpretazione degli effluvi, Valletta, Marugi e Schioppa oscillano spesso tra il modello corpuscolare e quello del fluido. La simpatia e l’antipatia universali, delle quali la jettatura costituisce un esempio, sono infatti assimilabili ai fenomeni elettrici, perché dagli occhi degli jettatori esce continuamente un “fluido igneo” che, come quello elettrico, può provocare tempeste. Anche il fluido contenuto nei nervi può produrre, se eccitato da un cervello furioso per l’invidia, una specie di temporale, dovuto allo strofinio degli atomi.
Gli uomini si dividono in elettrici, cioè “coibenti, o trattenitori”, e non elettrici, cioè “conduttori, o deferenti”: i primi sono jettatori o vittime della jettatura, in gradi diversi; i secondi vengono attraversati dalla jettatura, che tuttavia non li colpisce. Marugi consiglia di portare sempre poche monete in tasca, perché l’oro e l’argento possono caricarsi di elettricità più degli altri metalli; di indossare vesti senza bottoni, per lo stesso motivo, e raccomanda alle donne di diffidare di quei mariti che regalano loro gioielli e gemme, cioè corpi coibenti, con lo scopo segreto di levarsele di torno.
Schioppa si limita ad osservare che la jettatura non colpisce quei corpi che “si trovano in perfetto equilibrio di elettricismo”; l’uomo jetta più della donna, perché i peli che rivestono il suo corpo sono conduttori di elettricità; per la stessa ragione, il corno, lungi dallo stornare la jella, la attrae su colui che lo indossa. L’unico antidoto veramente efficace contro la jettatura è il sistema del magnetismo animale di Franz Anton Mesmer, considerato da Robert Darnton “la più grande moda culturale degli anni Ottanta del XVIII secolo”. “Si vedono in Francia, ed altrove in oggi degli uomini, e delle donne, che possedendo sì bella fisica virtù, fan vedere palpabilmente, che col solo tocco delle mani magnetizzando le persone, le immergono in un dolce letargo, ed in tale stato le obbligano a parlare, e rispondere ad ogni sorta di quesiti e vengono con tal mezzo a capo di curare, e guarire qualsiasi male fisico”. Secondo Schioppa, questo “magnetismo positivo” si potrebbe efficacemente opporre alla jettatura, che consiste in un “magnetismo negativo”, in base al principio “contrariis contraria curantur”: per liberare il popolo napoletano da “una peste, cui ancora non si apportò rimedio”, e che è “vergogna d’un secolo illuminato”, basta far venire a Napoli “più migliaia di magnetizzanti”, quindi fare “un esatto reclutamento di tutti i nostri jettatori”, e farli magnetizzare “più e più volte”.
Gli effluvi vengono spesso assimilati ai raggi: in tal caso, la jettatura consisterà “in certe particelle più, o meno tenuissime, emanate dal corpo del jettatore”, che entrano in un altro corpo “per tutt’i forellini minuti della corporatura”: come la luce bianca viene rifratta in modo diverso da corpi diversi, così i raggi emessi dagli occhi di uno jettatore vengono diversamente riflessi o rifratti dai corpi che incontrano. Basta cambiare posizione, basta l’interposizione casuale di un’altra persona per stornare da noi la jettatura. Come la luce si trasmette a grandissime distanze, così il malocchio può attraversare porte e finestre chiuse, colpendo anche chi si crede al riparo nella propria casa.
La potenza della fantasia è un’altra causa della jettatura, sia in chi la getta, sia in chi la subisce: Valletta riprende la classica dottrina rinascimentale della perniciosa immaginazione muliebre: le donne “o amano, o odiano, non vi è via di mezzo”; pertanto, sono tutte jettatrici potenziali, capaci, ad esempio, di imprimere le loro voglie sui bambini che portano in grembo. Schioppa sostiene che i perniciosi effetti della jettatura – lampadari che cadono e vanno in pezzi, carrozze che si rompono, e casi simili – sono “prima immaginati, desiderati, e voluti nella loro estensione, e con quella tale energia dai jettatori medesimi”. Ma l’immaginazione appare, tutto sommato, una causa minore della jettatura: Marugi, ad esempio, non la menziona affatto.
La jettatura permette di spiegare i fenomeni più misteriosi della natura e della società umana, come il repentino cambiamento dei venti, la sfortuna dei “galantuomini” e, viceversa, la fortuna sfacciata di “tanti bricconi”, le vincite al gioco del lotto, e persino il contagio della “lue celtica”; smaschera le superstizioni dell’astrologia giudiziaria, perché non sono gli astri i responsabili delle nostre disgrazie, ma unicamente “la jettatura degli uomini”; contribuisce persino alla causa dell’emancipazione femminile, visto che le donne non sono soltanto artefici di incantesimi, ma anche vittime, usate sovente dagli uomini come “parafulmini”.

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  • Silvia Parigi, Oculus fascinans: jettatura e contagio d’amore, in «Rivista di estetica», 19, 2002, pp. 61-80.
  • Silvia Parigi, Spiriti, effluvi, attrazioni. La “fisica curiosa” dal Rinascimento al Secolo dei Lumi, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 2011.
  • Giovanfrancesco Pico della Mirandola, De imaginatione, in Opera omnia (con una premessa di E. Garin), Bottega d’Erasmo, Torino 1972, vol. I.
  • Antonino Schioppa, Antidoto al fascino detto volgarmente jettatura, per le stampe del Pierro, Napoli 1830.
  • Leonardo Vairo, De fascino, apud Aldum, Venetiis 1589.
  • Nicola Valletta, Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura, nella stamperia della Società Tipografica, Napoli 1814 (prima ed. 1787).
  • Johannes Wier, De praestigiis daemonum (1583), in Opera omnia, apud Petrum Van Den Berge, Amstelodami 1660.
  • Paola Zambelli, L’ambigua natura della magia, Il Saggiatore, Milano 1991.

ARTICLE WRITTEN BY SILVIA PARIGI | STORIADELLACAMPANIA.IT © 2020

Hinc felix illa Campania est, ab hoc sinu incipiunt vitiferi colles et temulentia nobilis suco per omnis terras incluto, atque (ut vetere dixere) summum Liberi Patris cum Cerere certamen. Hinc Setini et Caecubi protenduntur agri. His iunguntur Falerni, Caleni. Dein consurgunt Massici, Gaurani, Surrentinique montes. Ibi Leburini campi sternuntur et in delicias alicae politur messis. Haec litora fontibus calidis rigantur, praeterque cetera in toto mari conchylio et pisce nobili adnotantur. Nusquam generosior oleae liquor est, hoc quoque certamen humanae voluptatis. Tenuere Osci, Graeci, Umbri, Tusci, Campani.
[Plinius Sen., "Nat. Hist." III, 60]

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