Abitello

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


L'abitello era una veste penitenziale indossata dall’accusato a seguito di una condanna d’eresia inflitta dal Tribunale dell’Inquisizione. La sua variante castigliana, sambenito -voce corrotta di saco bendito-, fa riferimento all’abitello già usato dall’Inquisizione medievale e sul quale, come atto simbolico d’espiazione, si cospargeva cenere.

Negli anni della crociata contro gli albigesi, gli inquisitori imponevano al riconciliato l’obbligo di indossare la veste peninteziale del saco bendito, lasciando che lo stesso ne scegliesse la forma, purché di un tessuto grezzo (come quello di monaci e anacoreti) e di colore scuro. Il simbolo delle due croci -cucite inizialmente all’altezza dei capezzoli- fu introdotto da san Domenico e imposto a quanti si fossero riconciliati con la fede cattolica, rifuggendo l’eresia catara.
Il concilio di Tolosa, nel 1229, ordina di fabbricare le due croci con un tessuto di colore diverso rispetto a quello del sambenito, perché risaltassero maggiormente. Saranno il concilio di Béziers del 1233 e le Instrucciones de 1561 a sistematizzare il rituale relativo all’uso dell’abitello.
L’Inquisizione spagnola trasformò la vecchia tunica penitenziale in un unico pezzo di stoffa telata con un buco al centro, dove passava la testa, che cadeva all’altezza delle ginocchia –questo affinché, in modo alcuno, potesse confondersi con lo scapolare portato in qualche ordine religioso. Il colore della veste era il giallo propio di una lana di bassa qualità. Nel 1514, il cardinale Cisneros ordina di sosituire i due simboli a croce latina della vecchia Inquisizione con due croci di Sant’Andrea, una davanti e l’altra dietro, e, grosso modo, si stabilirono le seguenti varianti principali:

  • I riconciliati de levi indossavano un abitello giallo, chiamato Zamarra dagli spagnoli del XV secolo, senza nessun simbolo sopra.
  • I riconciliati de vehementi, qualora non fossero stati dichiarati eretici formali, indossavano una veste penintenziale con su ricamata mezza croce diagonale. In caso contrario, l’abitello sarebbe stato adornato con due croci intere, una davanti e l’altra dietro.
  • I condannati che, abiurando, si mostravano penitenti prima della sentenza – e graziati con lo strangolamento alla garrota per non soffrire il supplizio delle fiamme - indossavano, oltre all’abitello, un cappello conico (il velo per le donne) dello stesso colore della veste e due croci ricamate, una davanti e l’altra dietro, ma senza nessun altro simbolo.
  • I condannati che abiuravano dopo la sentenza vestivano un sambenito e il cappello conico con su ricamate le due croci e, nella parte bassa, un corpo o una testa fra le fiamme. La punta di queste ultime era rivolta verso il basso e indicava, come sostiene Juan Antonio Llorente (1822), che il condannato veniva ucciso alla garrota prima che il suo cadavere fosse arso.
  • I condannati impenitenti vestivano un abitello e un cappello coperto di fiamme rivolte verso l’alto. Si indicava, in questo modo, che l’eretico sarebbe bruciato vivo e che le fiamme avrebbero arso non solo il suo corpo ma anche la sua anima, condotta all’inferno da immagini allegoriche cucite sulla tela della veste.

Allo scadere della condanna o prima della consegna del corpo al rogo, i penitenti -pur conservando il cappello- erano spogliati dell’abitello che veniva appeso nella cattedrale della città dove si era svolto il processo, ad perpetuam rei memoriam. Il fine, appunto, era quello di perpetuare l’infamia del condannato e della sua discendenza, esclusa dall’esercizio di alcune professioni. Disposizioni successive ne impongono, invece, l'ostensione nella parrocchia d'appartenza dell'eretico, affinché l'infamia lo colpisse più da vicino.
Quando, col passare del tempo, l’abitello si deteriorava, diventando illegibile, veniva restaurato e dotato di una pergamena dove si fornivano dettagli circa il nome del condannato, il suo lignaggio, il crimine commesso e la pena inflitta dal Tribunale. Un’infamia difficilmente cancellabile. La questione esacerbò tanto gli animi, soprattutto fra i discendenti del reo, da far registrare sollevazioni in risposta alla crudele pratica (durante la rivolta in Sicilia del 1516 contro l’autorità spagnola, per esempio, furono ritirati tutti gli abitelli esposti nelle chiese, senza che questi fossero più rimpiazzati); altri o adottarono la pacifica pratica di cambiare cognome, sfuggendo così all’infamia ereditata, o pagarono ingenti somme di denaro per sfuggire alla pubblica vergogna dell’abito penitenziale e dei suoi effetti annichilatori.
Quando, nel 1812, l’assemblea costituente di Cádiz (Cortes de Cádiz) abolisce il Tribunale, ordina il ritiro e la distruzione di tutto ciò che potesse ricordare l’Inquisizione –quadri o iscrizioni esistenti in conventi, monasteri o chiese. L’Inquisizione romana, già con un decreto del 1627, aveva abolito la disumana pratica, ordinando che tutti gli abitelli della cattedrale di Faenza fossero ritirati e, segretamente, bruciati.

Bibliografia

  • Charles Henry Lea, Historia de la Inquisición Española, vol. II, traducción de Angel Alcalá y Jesus Tobío, Madrid, Fundación Universitaria Española, 1983.
  • Juan Antonio Llorente, Historia crítica de la Inquisición de España, cap. IX, art. XVI, Madrid, Imprenta del censor, 1822.

Article written by Gaetano Antonio Vigna | Ereticopedia.org © 2015

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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